venerdì 25 dicembre 2015

Il Natale del '73

      Il Natale del ’73 fu il primo Natale in cui non aspettai Gesù Bambino. In casa nostra non si usava dire che i regali li portava Babbo Natale ma Gesù Bambino.
      Non che compresi solo nel 1973 che il Bambinello non c’entrava niente coi regali che a costo di rinunce personali mi compravano mamma e papà. Ma quello fu l’anno in cui non andai a letto la sera del 24 dicembre per sentire i miei genitori scendere in cantina a prendere quei pacchetti che avrei aperto la mattina dopo.
      L’anno precedente, l’ultimo in cui lo zio Ennio, mio padrino di battesimo, venne dalla reggiana Villa Minozzo a passare le Feste di Fine Anno con noi, il regalo principale era talmente voluminoso (una bicicletta) che i miei l’avevano dovuto mettere sul balcone proibendomi per qualche settimana di gettarvi lo sguardo: divieto che rispettai disciplinatamente.
      Nel ’73, invece, ormai ero cresciutello, frequentavo la Terza Media Inferiore, e i miei i regali me li diedero la mattina del 25 dicembre senza troppi sotterfugi.
      Andammo tutti a letto di buon’ora: quello era l’inverno dell’Austerity, che, oltre a comportare lo splendido esperimento delle domeniche con divieto della circolazione delle automobili private, aveva imposto la fine delle trasmissioni televisive prima delle undici di sera. E io, non potendo quell’anno rimanere alzato a guardare i programmi che la Rai mandava in onda la sera della vigilia di Natale, invece di aspettare Gesù Bambino feci le ore piccole in camera mia leggendo I tre moschettieri di Dumas.

      Quel Natale fu anche l’unico che, oltre a zia Carla e zio Leandro, venne a passarlo da noi zio Renato, il fratello più giovane della mia mamma. Di carattere riservato, mia madre riuscì a convincerlo a venire da noi il giorno di Natale, anche se solo per quella volta, perché nel giro di pochi mesi erano mancati entrambi i miei nonni materni e le dispiaceva che lo passasse non dico solo ma quasi: a Rivara Canavese, è vero, Renato viveva con un altro fratello e la di lui famiglia ma, come dire?, la sensibilità e le premure non erano (e non sarebbero mai state) una caratteristica di quella parte di famiglia.
      Renato mi regalò un libro, La freccia nera di Stevenson, che mi fece veramente felice. Ne avevo una versione per bambini, che i miei mi avevano fatto trovare sotto l’Albero qualche anno prima, ma quella dello zio era molto più completa e dettagliata. Ed era un romanzo da cui Anton Giulio Majano aveva tratto uno splendido sceneggiato televisivo che aveva subito catturato la mia attenzione e il mio gradimento.
      Mi feci scrivere da Renato una dedica al volume che mi aveva regalato. Quel libro è uno dei pochi romanzi per ragazzi che abbia conservato in età adulta.
      Da un po’ di anni è anche un modo per ricordare Renato: rimase sempre scapolo, ebbe i suoi seri problemi di salute e morì prematuramente nel 1989, a cinquantun’anni d’età.

      Ricordo il Natale del ’73 anche per un’altra ragione. Quell’anno il medico mi aveva prescritto delle iniezioni di calcio e mia madre me le fece fare, una al giorno, durante le vacanze invernali, in modo che non mi disturbassero nei periodi di scuola.
      Da qualche anno per le iniezioni ci rivolgevamo a un’infermiera che abitava nel condominio dove vivevamo noi, la “tota” Ritìn. Sia allora che dopo, ogni volta che necessitavamo di qualche puntura non mancò di venire e non chiese mai una sola lira di compenso. Ovviamente, avendo noi un fortissimo senso della gratitudine, ci “sdebitavano” con scatole di cioccolatini o con le torte che mia madre era bravissima a fare.
      Quell’anno, anche la mattina di Natale si presentò a casa nostra per bucarmi il sederino, incurante del fatto che avrebbe anche potuto giustificarsi per via dei festeggiamenti nella sua famiglia.
      Or bene, quando aprii la porta, Ritìn si presentò porgendomi un pacchetto di cioccolatini come dono di Natale.
      Tra il serio ed il faceto, mia madre mi disse: “Non solo viene a farti la puntura anche di giorno festivo ma ti porta pure un regalo, quando dovresti essere tu a farglielo per le iniezioni che ti fa”.
      Erano altri tempi: le famiglie erano più unite e, quando per qualche motivo non ci si poteva aiutare a vicenda, i condomini sostituivano egregiamente i parenti nel sostenere chi aveva bisogno di qualcosa.

martedì 22 dicembre 2015

Armi improprie

      Alle Medie Inferiori, fra i nostri passatempi preferiti, sia negli intervalli che durante la ricreazione ma a volte, ehm, anche durante le lezioni ..., vi era quello di usare smontare le penne onde usarne la parte esterna come cerbottana; unica variante: al posto delle freccette e dei foglietti di carta arrotolati a cono, utilizzavamo come proiettili dei minuscoli pezzettini di carta che masticavamo per renderli un po' più pesanti impregnandoli di saliva; la forma della "pallottola" non doveva essere precisamente sferica ma presentare una parte appuntita, in modo che chi ne veniva colpito, pur non provando dolore, avvertisse la sensazione di una piccola e leggerissima puntura di spillo.
      Non so chi avesse introdotto nella nostra classe questo sport, che da decenni si tramandava di fratello in fratello, di cugino in cugino. Fatto sta che esso si diffuse rapidamente, tant’è vero che la prof.ssa Aggeri (di Lettere) ebbe modo di sequestrare un numero ingente di queste penne ristrutturate come cerbottane; in pochi mesi ne mise da parte un fornitissimo arsenale.
      A proposito di ciò, Giampiero diede prova di una sottile ironia il giorno in cui la prof.ssa Aggeri sequestrò una meraviglia della tecnologia a Paolo, il quale era riuscito a costruire una “doppietta”: il pezzo di artiglieria sequestratogli quel giorno era infatti costituito da due penne legate fra loro con del nastro adesivo, in modo che, debitamente caricate con "pallottole" insalivate, consentivano al “cecchino” di sparare due colpi con una sola soffiata. Or bene, mentre la buona profia di Lettere stava guardando sbalordita il prodigioso frutto di creatività che aveva appena sequestrato, Giampiero le si avvicinò e, assumendo un professionale tono da esperto, le disse: "La vede? Questa è una mitragliatrice".
      Per la verità, il termine esatto sarebbe stato "doppietta" e non "mitragliatrice" ma l'effetto ironico venne comunque conseguito.

      Fui invece io ad introdurre un’arma più devastante della cerbottana: la balestra-cartellina.
      Essendomi stufato di utilizzare le penne vuote come cerbottane per sparare minuscoli proiettili di carta insalivata, inventai un nuovo tipo di arma, la "balestra-cartellina” per l’appunto, costituita da una di quelle cartelline con l’elastico che contenevano i fogli; i “pezzi” sparati, naturalmente, erano di dimensioni ben maggiori, pardon, di calibro ben maggiore di quelli che potevano contenere le nostre “cerbottane”. C'era sì il lato sgradevole che per ottenerli dovevo masticare e insalivare dei pezzi di carta ben più grandi ma la soddisfazione dell'usare quell'arma valeva veramente la pena.
      Il colpo di maggior successo lo sparai quella volta che, durante l’ora di Disegno, riuscii a rovinare l’acquarello che con tanta cura stava dipingendo Riccardo.
      Dopo avere masticato a dovere un pezzo di carta, riuscii a formare un proiettile di circa 2 cm di diametro, lo posi sulla cartellina davanti all’elastico, tirai indietro quest’ultimo e lo mollai di scatto sparando alla cieca l’impasto di carta e saliva. Esso andò a cadere proprio in mezzo al foglio che stava disegnando Riccardo e su cui i colori erano ancora freschi. Non potei osservare da vicino l’effetto del tiro sull’acquarello ma, quando qualche secondo dopo Riccardo si accorse del proiettile caduto sul suo disegno, vidi chiaramente comparire sul suo volto una smorfia di disgusto e lo sentii esclamare: "Ma chi è che tira questi siluri?!". Superfluo aggiungere che mi guardai bene dal dirgli che ero stato io.

      Un'altro tipo di arma da noi utilizzata era la "catapulta manuale", nel senso che non si utilizzava alcuno strumento ma solo il taglio della mano, che la parte sporgente della matita che si era messa in bilico sul banco; il colpo secco sparava la matita con lo stesso effetto di un proiettile lanciato da una catapulta.
      Come già per l'acquerello di Riccardo colpito dalla mia "balestra", anche il colpo migliore che tirai con l'effetto catapulta fu dovuto a casualità e non certo a precisa mira. Una mattina, durante un'ora lasciata scoperta da un professore assente non sostituito da un supplente, mentre in classe stavamo facendo casino, sporsi una matita dal banco e ne colpii la parte sporgente. Il proiettile percorse una curva perfetta e andò a cadere verticalmente sul banco di Liliana, rimbalzò e la colpì in faccia, non di punta ma nel lato della sua lunghezza.
      Risate generali, comprese quelle di Liliana, la quale rimase sorpresa in quanto tutta concentrata a leggere un libro di testo. Era l'unica di noi a studiare anche durante le ore in cui non c'era un docente. Tant'è vero che una volta qualcuno le attaccò sulla sedia, di spalle, un foglio con su scritto: "GENIO AL LAVORO".

sabato 5 dicembre 2015

Medical dramas

Da bambino ho avuto vari problemi di salute; in particolare, ero endemicamente colpito da tonsilliti, che mi hanno perseguitato durante gli anni delle Elementari (e anche prima).
Di fatto, dunque, sono cresciuto con l'imprinting della figura del medico, in quanto, fra le visite a casa del medico della mutua e le visite specialistiche presso ospedali ed ambulatori, il camice bianco è entrato quasi subito nella mia vita, tanto da diventarmi del tutto familiare e, quel che è positivo, amico. Ancora oggi, nutro verso i professionisti della medicina amicizia, gratitudine e, quel che conta, fiducia, in contrapposizione ai tanti pataccari sparatori di bufale che con le loro cretinate mettono a repentaglio la salute e la vita di tanti boccaloni.
In questo humus "clinico" non potevo non appassionarmi ai telefilm ambientati negli ospedali, che negli U.S.A. vengono chiamati medical dramas. Ed anche ai film e ai libri che trattano lo stesso argomento.

Da bambino giunsi a "sfiorare" il dottor Kildaire, il giovane medico protagonista dell'omonima serie televisiva interpretato da Richard Chamberlain. Vidi cioè le ultime puntate. Anni dopo, però, ne vidi molte in replica su una tv locale.
Poi ci fu la volta de I giovani medici, andati in onda sulla Rai.
La serie che mi fece letteralmente innamorare dei medical dramas fu Marcus Welby M.D., che vidi nella prima metà degli anni '70 del XX secolo sulla televisione della Svizzera Italiana. Grandi interpreti Robert Young e James Brolin.
Poi fu la volta, se ricordo bene su TeleMonteCarlo, di Medical Center, incentrato sulla figura del dottor Joe Gannon, interpretato da Chat Everett.
Negli anni '80 vidi poi Trauma Center e A cuore aperto, fra i cui attori vi era l'emergente Denzel Washington.
Fin qui, tutte produzioni statunitensi.

In Italia, fino agli anni '90, mi ricordo solo della serie Diagnosi, con Philippe Leroy e Vittorio Mezzogiorno, andata in onda nella stagione 1974-75.

Poi venne La dottoressa Giò, appunto negli anni '90, con Barbara D'Urso e Fabio Testi.
Seguita a qualche anno di distanza, da Medicina generale, Terapia d'urgenza e La scelta di Laura.

Gli anni '90 hanno visto, negli U.S.A. e poi in tutto il mondo, la messa in onda di quello che è già un cult, E.R. Medici in prima linea, sul cui set si sono via via avvicendati vari personaggi e, di conseguenza, vari attori.

Se, qualcuno più, qualcuno meno, tutte queste serie televisive hanno rispettato i criteri della scientificità e della razionalità, le due serie che recentemente hanno riscosso grande successo, Grey's Anatomy e Il dottor House, costituiscono un netto arretramento al riguardo: troppe situazioni decisamente insolite, "spettacolari", poco credibili dal punto di vista scientifico (si pensi, ad esempio, a pazienti operati che dopo due-tre giorni sono già belli pimpanti: dopo un intervento chirurgico di una certa importanza, una persona impiega parecchi giorni, se non settimane, a tornare alla forma di prima) e, soprattutto, troppi casi rari concentrati in così poco tempo e in un solo ospedale, come se un medico o un'équipe di medici si trovasse quasi ogni giorno a dover affrontare casi difficilissimi da risolvere. La realtà, per fortuna è molto meno drammatica.
Le prime serie di medical dramas cercavano di catturare l'emotività dei telespettatori puntando sul lato umano degli episodi; le ultime sembrano mirare alla spettacolarità, a scapito del realismo.

Un'ultima considerazione la merita il "motto" del dottor House: "Lei preferisce un medico che le tiene la mano mentre muore oppure un medico che la tratta male ma Le salva la vita?".
E' una domanda che non ha senso: il bravo medico deve saper fare entrambe le cose, essere gentile e premuroso e, se possibile, guarire i suoi pazienti.
Oltretutto, è provato che, se un medico riesce a instaurare un buon rapporto psicologico coi pazienti, ciò aumenta l'efficacia delle cure, è in sostanza anche un supporto terapeutico.

martedì 1 dicembre 2015

Le mie ore di Religione

Alle Elementari nei primi anni l'ora di Religione venne tenuta da alcuni seminaristi, poi da un sacerdote, don Carlo.
A proposito di quest'ultimo, ricordo un episodio divertente. In classe si era deciso, insieme alla maestra Angela Veneto, di fargli una piccola sorpresa: una recita della parabola del Buon Samaritano.
Assegnate le parti, il giorno prima che egli venisse a farci lezione di Religione facemmo una prova generale.
Edoardo doveva fare il bandito che aggredisce il viandante e Roberto il viandante aggredito. Fra quei miei due compagni di classe non corse mai buon sangue a scuola.
Sarà stato per quel motivo oppure perché Edoardo si lasciò prendere dalla foga, fatto sta che, iniziata la prova della recita, piombò letteralmente alle spalle di Roberto e gli rifilò un forte pugno in mezzo alle scapole. Roberto si accasciò a terra tutto e iniziò a lamentarsi dal dolore.
La maestra subito sgridò Edoardo dicendogli: "Ma che cosa ti è preso?! Non lo sai che nelle recite i pugni si danno per finta?!".
Edoardo, invece di mostrarsi pentito, si mise a ridere beffardamente, il che depone per la possibilità che avesse utilizzato sì ghiotta occasione per risolvere qualche conto in sospeso con Roberto.
Il quale per fortuna si riprese subito e si poté ricominciare la prova venne di nuovo, questa volta col pugno dato per finta, così come avvenne il giorno dopo alla presenza di don Carlo.
L'anno prima avevamo avuto come maestro Geremia Del Grosso e i suoi rapporti con don Carlo dimostravano come fra laici e cattolici si può collaborare senza alcuna frizione. Il maestro Del Grosso era un liberale d.o.c., dichiaratamente liberale e come tale non fece mai opera di indottrinamento laicista presso noi bambini, non lo sentimmo mai parlar male contro la religione e negli scambi di informazioni didattiche con don Carlo mostrò sempre la più ampia collaborazione con lui nel portare avanti anche la parte didattica relativa all'ora di Religione.

Alle Medie Inferiori ebbi due insegnanti di Religione decisamente anticonformisti: la prof.ssa Di Piero in Prima e in Seconda, e don Pino in Terza.
Come venni poi a sapere in seguito, la madre un po' bigotta di una ragazza di una sezione diversa dalla nostra fece addirittura cambiare scuola alla figliola perché scandalizzata dai metodi di insegnamento della prof.ssa Di Piero.
Fra le cose politically uncorrect che ci disse la prof.ssa Di Piero, vi era che non era vero quel che dice la Bibbia sulla Creazione e cioè che l'uomo non l'ha creato Dio ma discende dalla scimmia. Decisamente darwinista e decisamente anticreazionista.
In un'altra occasione si aprì una discussione sulla Salvezza. La prof.ssa Di Piero ci chiese se un selvaggio che non avesse mai conosciuto alcun missionario e quindi nemmeno il messaggio di Cristo potesse andare in Paradiso. Tutti fummo concordi nel ritenere che potesse andarci, perché non era colpa di quel selvaggio se non gli era pervenuta la Buona Novella.
A questo punto, la docente ci chiese: "E un ateo convinto, che durante tutta la sua vita fa del bene agli altri, può andare in Paradiso?".
Un mio compagno di classe, peraltro uno dei più aperti intellettualmente perché di famiglia liberaleggiante, rispose di no, perché l'ateo non ha fede religiosa.
Io invece risposi di sì, perché quello che conta non è avere fede in Dio ma vivere come cristiani.
La prof.ssa Di Piero diede ragione a me.
(Ovviamente, non cito questo perché ella sostenne il mio parere ma solo per dimostrare il suo anticonformismo.)
Parecchi anni dopo, lessi che quella mia argomentazione era stata, sia pure con tutt'altro spessore teologico, sostenuta anche da Papa Wojtyla e allora mi resi conto che proprio eretica non doveva essere.

Don Pino era allora un giovane sacerdote. Ci parlava anche dei problemi più scottanti della Chiesa dell'epoca, come la sospensione a divinis comminata a Dom Franzoni.
Fra le altre cose, ci diede una fulgida lezione di laicità. Si avvicinava il referendum abrogativo del divorzio e, quando uno di noi gli chiese cosa ne pensava, rispose: "Io voterò NO all'abrogazione del divorzio. Come cattolico e come sacerdote sono contrario ad esso ma siccome in Italia ci sono anche non cattolici, non ho il diritto di impedire loro di fare una scelta che per essi è legittima".
Anche all'ora di Religione don Pino era contrario: ci disse che secondo lui andava sostituita con un'ora di Storia delle Religioni, per consentire agli studenti di conoscere tutte le religioni.
A questo punto è doverosa una postilla. Appena ho avuto la connessione internet a disposizione, mi sono messo a cercare su Google se ci fossero notizie relative a persone che avevo perso di vista da anni. Avviai la ricerca anche col nome di don Pino e mi imbattei nel link di un sito di memoria virtuale di defunti. Andai allora a cercare sul sito dell'agenzia cimiteriale del Comune dove risiedo e trovai lo stesso nominativo nell'elenco dei defunti. Il cognome era quello, il nome pure (anche se non era Giuseppe, perché, come ci aveva raccontato durante la sua prima lezione, i suoi genitori gliene avevano imposto un altro ma già loro avevano preso a chiamarlo Giuseppe, Pino), l'anno di nascita era quello che ci aveva detto lui, sempre durante quella sua prima lezione. Ovviamente, spero ancora che si tratti di un caso di omonimia ma ne dubito. Vidi la data della morte: è morto a 54 anni d'età. Poi notai che allo stato civile risultava vedovo. Giù vedovo a 54 anni d'età. Evidentemente, per essersi sposato doveva essere tornato allo stato laicale. Forse, chissà?, le idee che aveva nella metà degli anni '70 del XX secolo hanno finito col fargli capire che erano incompatibili col suo rimanere sacerdote; o forse vi sono state altre ragioni, che io non so e che non saprò mai.

Alle Medie Superiori l'ora di Religione fu, come dire?, degna di questo nome solo in Prima, con don Michele.
Durante la sua prima lezione, don Michele fece compilare ad ognuno di noi un elenco di argomenti da trattare, poi ne fece una sintesi, che divenne il programma di Religione di quell'anno scolastico.
Era preparato e disponibile agli approfondimenti, don Michele. Qualche volta svalvolava un po', raccontando di cose alquanto poco credibili, che più che nella sfera religiosa rientravano in quella del paranormale.
Come quella dei guaritori filippini, che con le dita avrebbero avuto il potere di separare le varie cellule e quindi di operare senza bisturi e senza ferite, "fenomeno" che poi Piero Angela e tanti altri avrebbero poi dimostrato essere un colossale imbroglio.
O come quella di quel chirurgo brasiliano defunto che ogni tanto sarebbe tornato dall'Aldilà per operare pazienti giudicati inguaribili dai medici viventi.
Sull'Aldilà, poi, fece la sparata più grossa: una volta ci disse che, se si azionava un registratore staccando il microfono, si potevano registrare e quindi sentire le voci dei trapassati. Citò al riguardo un articolo in cui si sosteneva che, fra gli altri, era stata registrata anche la voce di John Fitgerald Kennedy. Peccato solo che J.F.K. non avesse rivelato chi l'aveva ucciso a Dallas, né gli esecutori né i mandanti.
Lo ammetto: anch'io, come altri miei compagni di classe, nelle sere seguenti provai a registrare col microfono staccato ma, dai nastri ascoltati, non sentii alcuna voce dall'Aldilà.
Quando don Michele esagerava un po', ridevamo sotto i baffi ma non ci furono plateali prese in giro. Solo una volta, quando sostenne che un'aula come la nostra poteva contenere miliardi di anime, una nostra compagna di classe, la più peperina, alzò la mano e gli domandò: "Scusi, ma Lei non si vergogna a dire queste cretinate?". E alla fine di quella lezione prese a canzonarlo bonariamente dicendogli: "Guardi lassù, c'è lo spiritello sulla nuvoletta! C'è lo spiritello sulla nuvoletta!".
Ma don Michele non subì mai alcuna contestazione laicista né fu vittima di intolleranza. In quegli anni, dove pure chi avesse voluto poteva ottenere l'esonero dalla frequenza dell'ora di Religione, non lo chiese nessuno, nemmeno quei miei compagni di classe atei e di estrema sinistra. La si frequentava senza problemi, senza la frenesia di rivendicare a sproposito una laicità delle Istituzioni che nulla aveva ed ha a che fare con un'ora di insegnamento che è, appunto, insegnamento e non catechismo.
Persino il fatto che sia all'inizio che alla fine di ogni ora don Michele ci faceva alzare in piedi e recitare in silenzio una preghiera sollevò obiezioni da parte dei duri e puri. Certo, già allora era una prassi alquanto insolita, sebbene a rigor di logica perfettamente calzante ad un'ora di insegnamento religioso, ma nessuno la contestò né la disturbò mai: chi voleva pregava, chi non voleva se ne stava un minuto in silenzio, al limite sghignazzando un po', ma non dileggiava né don Michele né i compagni di classe che stavano cambiando.

Dalla Seconda Superiore in poi, l'ora di Religione divenne un contenitore vuoto da riempire: i docenti non insegnavano ma si limitavano a chiacchierare con noi del più e del meno, a scambiare con noi battute, barzellette e facezie varie.
Ciò maturò in me e nel mio compagno di classe Antonio un progetto di vita professionale alquanto ambizioso: diventare professori di Religione!
Sarebbe stata davvero una pacchia ricevere uno stipendio solo per andare nelle aule a fare quattro ciance.
Chiedemmo pure informazioni sui corsi da seguire per poter coronare quel nostro sogno. E ne venimmo talmente ossessionati che fra di noi iniziammo a chiamarci "collega".
Poi, per nostra fortuna e per fortuna della Patria, lasciammo cadere quella "simoniaca" aspirazione e le nostre rispettive vite professionali si indirizzarono verso sbocchi decisamente più produttivi e utili alla società. Almeno per quel che riguarda Antonio.
Se non altro, dalla Seconda in poi avemmo modo di conoscere, fra i docenti di Religione, delle persone veramente interessanti.
In Seconda e in Terza l'ora di Religione venne tenuto dal simpaticissimo prof. Podio: battute al fulmicotone, racconti dei suoi anni di scuola, esilaranti, che dico?, esilarantissime gags, questo era il suo repertorio.
Ed era anche sincero. Una volta ci declamò: "Quando morirò, al mio funerale magari diranno: ERA SEMPRE DEDITO AL LAVORO. Vi autorizzo a dire: NON E' VERO! VENIVA A LAVORARE SOLO PER IL VENTISETTE".
(Ventisette del mese: giorno di paga.)
Una volta fece una gag per sintetizzare i comportamenti maschili e femminili nel corteggiamento fra ragazzi. Alla fine eravamo tutti piegati in due dalle risate.
Fine esperto di psicologia, era anche dotato di grande ironia e, quel che è indice degli spiriti umanamente superiori, di altrettanto schietta autoironia.
Il prof. Podio scherzava e stava agli scherzi.
Io mi misi a scrivere poesiole satiriche su di lui (come su altri professori) e lui le lesse e ci rise di gusto.
Una volta decidemmo di fargli uno scherzo: ignorarlo completamente quando sarebbe entrato in classe, come se non ci fosse. Entrò, salutò, nessuno gli rispose. E così via, per qualche minuto. Naturalmente, capì subito che si trattava di uno scherzo e stette al gioco, arrivando addirittura a fingere di piagnucolare affinché gli dessimo retta. Il clou fu quando fece l'appello: nessuno rispose né dicendo: "Presente!" o "Sì", né alzando la mano. Solo io risposi ma alzando un piede. E il prof. Podio trattenne a stento una risata.
Il massimo della soddisfazione per me, Antonio e Richetto quando, un sabato, era in programma una manifestazione politica. Tutti i nostri compagni di classe disertarono la scuola, o perché effettivamente andarono a quell'happening o perché "marinarono"le lezioni. Noi tre invece a scuola ci andammo. Il motivo? C'era l'ora di Religione col prof. Podio!
E, poiché non c'erano nemmeno altri docenti e le altre classi in cui il prof. Podio doveva recarsi erano deserte, lo avemmo per noi durante tutta la mattina.
Fra una chiacchiera e l'altra, ne approfittammo per lunghe passeggiate lungo i corridoi dell'I.T.C., visto eravamo i soli ospiti della scuola.
Di quella fulgida mattina ricordo un aneddoto in particolare, vertente sulla visita del prof. Podio ad una chiesa. Ci disse che per provare l'acustica dell'ambiente si era messo a battere ripetutamente le mani. E meno male che nell'edificio di culto in quel momento non c'era gente! Come ci disse il lunedì successivo Antonio: "Pensate: passano dei custodi o dei preti e vedono uno che batte le mani nella chiesa vuota; chiamano subito un'ambulanza".

Il docente di Religione di Quarta e Quinta era invece meno brioso del prof. Podio, quantunque gentile e colloquiale.
Durante la sua prima lezione, si fece un numero niente male. Disse: "Vedo che in questa classe la maggioranza è composta da ragazze, così belle e sviluppate". E nel corso della sua orazione ogni volta che accennò alle nostre compagne di classe ricorse nuovamente agli aggettivi "belle e sviluppate", sempre seguiti da una risatina da mandrillo.
Un'altra volta si era messo a chiacchierare con una nostra compagna di classe. Giorgio mi disse a bassa voce: "Osservalo bene. La sta guardando con lo sguardo di chi si sta chiedendo: CHISSA' SE QUESTA RAGAZZA CI STA?".
Una mattina si mise a declamare alcune poesie scritte da lui. Declamare, non leggere: con tanto di toni alzati per i versi più eclatanti. Io mi trovavo in fondo all'aula e non afferravo il contenuto di quei versi, recitati davanti a un uditorio composto da quattro o cinque nostre compagne di classe. A un certo punto alzò sensibilmente la voce per declamare un verso a cui evidentemente teneva e subito dopo Antonio, che si trovava dietro di lui, si mise un indice accanto a una tempia come per dire: "Questo è pazzo!".
Quel prof. si fece notare per la sua creatività nel gestire le sue assenze da scuola: ogni volta che non poteva venire, anziché mettersi in malattia o prendere un permesso, mandava a suo posto uno dei suoi fratelli. Diciamolo: un pioniere di quei contratti di lavoro a base "famigliare" che da qualche anno sono in vigore in alcuni Paesi dell'Europa del Nord.
Verso la fine della Quinta, si dimise, perché, laureato in Economia e Commercio (titolo di studio molto attinente alla docenza in Religione ...), aveva vinto un concorso per entrare come impiegato in un noto istituto di credito.
Al suo posto venne un giovane studente universitario, molto simpatico e alla mano.
Commentando il cambio di docente di Religione, la nostra prof. di Inglese, Emma Zavaroni, cui l'ironia non mancava di sicuro, ci disse: "Bene, è arrivato il sostituto del prof. ***. La Presidenza dell'Istituto ha diffidato la Curia dal mandare un altro dei fratelli ***".

domenica 22 novembre 2015

Per una versione umoristica de I Promessi Sposi: prolegomeni del progetto

Il titolo di questo post, ricalcando i titoli di articoli su riviste scientifiche nei quali gli autori spiegano i perché e i percome di un percorso di ricerca che si accingono a intraprendere, è volutamente autoironico nella sua ampollosità.
La satira utilizza anche questo strumento: ingrandire ed enfatizzare l'importanza di una cosa in modo talmente accentuato da far capire che in realtà si vuole ironizzare su quella cosa.

I promessi sposi di Alessandro Manzoni entrarono per la prima volta nella mia vita con lo sceneggiato televisivo della seconda metà degli anni '60 del XX secolo girato da Sandro Bolchi e interpretato da fior di attori, che rividi, con ben maggiore consapevolezza, nel 1974.
Era estate e, nell'anno scolastico appena conclusosi, avevo fatto il mio primo incontro col capolavoro manzoniano sotto forma di alcuni brani tratti da esso che facevano parte del programma di Italiano di Terza Media.
Ricordo un'interrogazione di Antologia, che mi andò particolarmente bene perché seppi spiegare la conversione dell'Innominato in un modo che piacque alla prof.ssa Aggeri. In realtà, mi ero ricordato tutti i punti da lei spiegati nelle lezioni precedenti e la prof.ssa Aggeri gradiva molto quanto, alle interrogazioni, gli studenti si rifacevano a quello che ella aveva detto nel corso delle sue lezioni.

Feci un'esperienza più approfondita con I promessi sposi nei due anni successivi, cioè in Prima e Seconda Superiore. Non sorprenda il fatto che nel biennio si studiasse un capolavoro della letteratura italiana del XIX secolo, mentre nel triennio successivo il programma di Lettere era incentrato sulla Comoedia di Dante. Non vi era alcunché di cronologico in quella scelta ma solo il retaggio di programmi scolastici ormai datati che includevano I promessi sposi come esempio di lingua italiana e la Divina Commedia come esempio di poesia. Ovvio che l'italiano usato dal Manzoni fosse da tempo superato ma se non altro era un'occasione per conoscerne l'opera più importante e i docenti intendevano il loro insegnamento proprio in quella direzione.
La prof.ssa Bertola ci fece tenere un quaderno in cui, per ogni capitolo letto, dovevamo annotare il riassunto, le frasi più importanti, le ironie manzoniane che vi avevamo scorto e le nostre considerazioni.
Proprio quel quaderno fu la causa delle mie prime nottate passate sui libri. A pochi giorni dalla fine della Prima, la prof.ssa Bertola ci disse: "Bene, dopo il ponte del Primo Maggio voglio vedere i vostri quaderni su I promessi sposi". Anch'io, come quasi tutti i miei compagni di classe, col quaderno mi ero fermato ai primi capitoli del 18 che facevano parte del programma di Prima. Nei pochi giorni di quel ponte, lessi, riassunsi e "appuntai" una dozzina di capitoli, studiando indefessamente dalla mattina presto alla sera inoltrata. Ne valse però la pena: la prof.ssa Bertola annotò un "Bravissimo" in calce ai miei appunti sul diciottesimo capitolo.
Pleonastico aggiungere, almeno per chi mi conosce, che la parte a me più gradita di quel lavoro fu la ricerca delle ironie manzoniane, da don Abbondio che se ne tornava "bel bello" dalla sua passeggiata, ai bravi che non erano"morti nemmeno per quello" (l'ennesima grida emanata contro di loro), ai soffi del conte zio.

Proprio in quel biennio ricevetti due input, che poi, combinati insieme, mi fornirono l'ispirazione per quello che scrissi parecchi anni dopo.
Il primo fu un suggerimento che mi diede la prof.ssa Bertola: sapendo che a me piacevano molto le cose che fanno ridere, mi consigliò di leggere una parodia del capolavoro manzoniano, I promessi sposi made in U.S.A. Non ebbi modo di seguire quel suggerimento ma intanto lo spunto mi era stato dato e lo avevo immagazzinato nel mio inconscio.
Il secondo input fu una specie di gioco che alcune mie compagne di classe fecero una mattina in attesa di un'interrogazione su I promessi sposi: assegnarono ad ognuno di noi il personaggio che più ci assomigliava, per pregi e, soprattutto, per difetti. A distanza di tanti anni, me ne ricordo solo due: io divenni Fra' Cristoforo, mentre Richetto venne ben più beffardamente identificato come don Abbondio. Ho un vago sospetto su chi potesse essere etichettato come Renzo e chi come Lucia (erano i nostri primi due compagni di classe a "filare" insieme) e su chi venisse considerato il nostro don Rodrigo ma, in assenza di evidenze mnemoniche ormai svanite, preferisco prudentemente tacere.

Passarono gli anni. Un giorno, nella software house dove lavoravo il discorso cadde su I promessi sposi e qualcuno iniziò lo stesso giochetto di attribuire i ruoli dei vari personaggi ai vari colleghi e, soprattutto, ehm, dirigenti.
Fin dai primi mesi della mia assunzione avevo preso l'abitudine di scrivere simpatiche cosette o su argomenti di satira in generale o su situazioni che riguardavano fatti e persone dell'azienda di cui ero dipendente.
Ricordo una rima che feci dopo la nomina a vicepresidente di uno laureato in ingegneria: "Qui si scavan le miniere / con a capo l'ingegnere". Lo giuro: quando la scrissi, non sapevo (me lo dissero dopo) che era specializzato in ingegneria mineraria.
Tornando a I promessi sposi, venni folgorato dal giochino personaggi-persone reali e iniziai a scrivere una versione del capolavoro manzoniano tutta tagliata su misura per l'azienda dove lavoravo, non solo nell'assegnare i vari personaggi a questo e a quel collega o dirigente ma anche nell'immettervi vicende e, perché no?, gossip attinenti alla realtà di quella software house.
Perfino la peste, che pure personaggio non è, divenne in quello scritto la peste sgobbonica (anziché bubbonica), forma di malattia mortale che colpiva i dipendenti facendoli lavorare fino a morirne.
Quella mia versione venne da me intitolata I promessi sposi informatici.
Non sta a me giudicare le qualità letterarie di quello scritto. Mi fece però piacere quando alcuni colleghi, a cui l'avevo dato stampato, mi dissero di averlo portato a casa, di averne iniziato la lettura e di esserne stati talmente presi da aver fatto le ore piccole per finire di leggerlo, spanciandosi dalle risate. Certo, alcune situazioni possono far ridere solo chi le conosce da diretto spettatore ma per un autore umoristico sentirsi dire da un lettore che ha riso dall'inizio alla fine è il più grande complimento che possa ricevere.

Qualche anno dopo, rifeci la versione umoristica adattandola a persone e cose dell'associazione culturale Il cerchio aperto, di cui facevo parte. E mietendo anche lì parecchie risate.
Forse fu un po' meno perfida rispetto a quella "lavorativa", perché fra gli amici di allora non ebbi modo di riscontrare comportamenti cattivi o meschini. Ma un po' di sale ce lo misi anche lì.

Ora sento che potrei riprendere il progetto per la terza volta, anzi, mi sto già preparando predisponendo un testo di base da cui partire. Sono solo indeciso se riscrivere, ampliandolo, il testo de I promessi sposi informatici oppure se scrivere un romanzo umoristico ex novo, senza alcun riferimento a quella versione. Come avrebbe detto lo stesso Manzoni: "Ai posteri l'ardua sentenza".

sabato 7 novembre 2015

Il biennio del "Tumalin"

Non so chi, in Prima Superiore, iniziò a chiamare Antonio col soprannome di Tumalin. Di sicuro so che Antonio iniziò subito ad incazzarsi come una bestia, reagendo in modo veemente (sia pure mai violento) ogni volta che si sentiva chiamare con quel nomignolo in qualche modo simile al suo cognome.
Che poi, in sé, quel soprannome non era nemmeno offensivo, essendo un vezzeggiativo piemontese di Bartolomeo.
Fatto sta che, come in ogni situazione oggetto di lazzi, più Antonio si imbufaliva e più di frequente in classe lo chiamavano Tumalin.
Per alcuni di noi, soprattutto maschi (le ragazze, si sa, maturano prima degli uomini e a 15 anni d'età non hanno più tanta propensione ad abbandonarsi a celie goliardiche), quel soprannome divenne una sorta di allegra ossessione.
In ogni parola simile trovavamo dei riferimenti a Tumalin e il sentirla o leggerla diventava motivo di ilarità: l'aggettivo "tumido"; il proverbio "dire Roma per Toma"; il protagonista di una serie indiana di telefilm per ragazzi andata in onda nella stagione 1974-75, Tomai; l'orango tang divenne, nel nostro gergo, l'orango tuma; etc. Ogni assonanza con Tumalin era fonte di risa e naturalmente di ripetizione davanti al diretto interessato, che reagiva come ho sopra descritto.
Ossessione che investì anche la versione onomatopeica del suono della linea telefonica libera, "tu-tuuu, tu-tuuu". Alcuni di noi, me compreso, a volte di pomeriggio a casa alzavamo la cornetta solo per sentire "tu-tuuu, tu-tuuu" e farci due risate.
E ci mettemmo pure a storpiare vari nomi per rincarare la dose. La Nutella, ad esempio, divenne Tumella. Vedrete fra un po' quale gaffe micidiale ebbe origine dalla "Tumella".
Da Tumalin derivarono per il povero Antonio altri soprannomi: Tolomeo, ad esempio; da Tolomeo derivò Tolomeo Bifetta; da Tolomeo Bifetta derivò Bifettarola Joe. Ho ancora nella mente la memoria visiva della caricatura di Bifettarola Joe che Walter disegnò su un banco: Antonio nelle vesti di un pistolero del West, che però nelle fondine al posto delle colt aveva due banane.

Questi soprannomi affibbiati ad Antonio furono la causa di due numeri micidiali.
Ultima interrogazione di Storia in Prima. La prof.ssa Bertola dice a Michelino: "Parlami della dinastia dei Tolomei". E Michelino, pensando immediatamente al nostro "Tolomeo", invece di proferire parola viene colto da una ridarella inarrestabile.
Per un paio di minuti lo scenario fu questo: Michelino che rideva come un pazzo; la prof. che lo guardava sbigottita e non si capacitava di cosa ci fosse da ridere sui faraoni egizi di età ellenistica; Antonio che di fianco a Michelino inveiva rabbiosamente contro di lui; e noi altri che, chi più chi meno, ridevamo. Ricordo che a un certo punto, incrociai lo sguardo con Richetto, ci guardammo un attimo e poi riprendemmo a ridere, accasciandoci sui rispettivi banchi.
La situazione, comicamente imbarazzante, venne risolta dalla provvidenziale entrata in aula di un bidello, che portava una circolare del preside da leggere alle classi. Il tempo di declamarla da parte della prof.ssa Bertola e Michelino riuscì a ricomporsi, iniziando finalmente a raccontare qualcosa della benedetta dinastia dei Tolomei.

Qualche giorno prima, era stato invece Richetto a fare una gaffe che ebbe per lui conseguenze fisicamente dolorose.
Un lunedì mattina Richetto si presentò al Barocchietto con una vistosa fasciatura alla mano destra.
Nell'intervallo, io e Michelino gli chiedendo cosa si era fatto, ed egli rispose: "Sabato pomeriggio per fare merenda mi sono tagliato con un coltello mentre mi stavo preparando pane e Nutella".
Qualche minuto dopo ci raggiunge Tumalin e formula a Richetto la stessa domanda, e quest'ultimo, commettendo il lapsus meno opportuno che potesse essere, gli risponde: "Sabato pomeriggio mi sono tagliato con un coltello mentre mi preparavo pane e Tumella".
Resosi immediatamente conto della gaffe, su Richetto comparve un sorriso forzatissimo, comprensivo di digrignamento di denti per l'imbarazzo.
Contrariamente al solito, questa volta Tumalin non mostrò alcuna animosità ma, con sguardo e voce impassibili, disse: "Richetto, la mano".
A cosa si stava riferendo?
Tumalin, accessi di indignazione verbale a parte, non andava oltre con nessuno di noi, tranne che con Richetto e Michelino, ai quali, se in qualche modo mancavano di rispetto nei suoi confronti, impartiva punizioni corporali. Erano un po' succubi di lui, certo, ma nessuna di queste punizioni si avvicinò mai ad episodi di bullismo: erano solo goliardate un po' energiche, in fondo condivise spontaneamente dalle stesse "vittime".
La "tortura" della mano, in particolare, consisteva nel farsi porgere la mano dal colpevole di lesa maestà e stringergliela in modo talmente forte da fargli scricchiolare le ossa.
Ad onor del vero, quella mattina Richetto tentò una qualche difesa, cercando di spiegare a Tumalin che aveva la mano ferita, ma Antonio non volle sentire ragioni e ripeté: "Richetto, la mano".
A questo punto, invece di rifiutarsi categoricamente di dargli la mano, Richetto masochisticamente la porse a Tumalin, il quale gliela strinse energicamente.
Udibilissimo fu il grido di dolore di Richetto, non altissimo ma soffocato: il dolore lancinante gli aveva addirittura impedito di urlare forte.
Dopo di che, Tumalin se ne andò, come se niente fosse accaduto.
Non passarono più di 30 secondi che la fasciatura della mano di Richetto iniziò a colorarsi di macchie rosso scure. Sciolse la fasciatura e fu evidente a tutti i presenti che la cicatrice del taglio si era aperta e la ferita aveva ripreso a sanguinare, sia pure non in modo copioso.
A Richetto non rimase altro da fare che recarsi in bagno tamponandosi la ferita con un fazzoletto, mettere il palmo della mano sotto l'acqua per pulire la ferita e fermare la piccola emorragia, e rifarsi la fasciatura.

In Seconda, il ricorso al "Tumalin" per chiamare Antonio si diradò a poco a poco fino a scomparire a fine anno scolastico, tant'è vero che dalla Terza in poi nessuno fece più ricorso a quel soprannome.
Probabilmente fu perché, come si suol dire, un bel gioco dura poco e anche a poco a poco Antonio smise di arrabbiarsi, e allora perché infierire ancora su di lui?
Non a caso, non ricordo che si adirò quando, appunto in Seconda, il "Tumalin" ebbe la sua ultima manifestazione clamorosa, il suo canto del cigno.
Accadeva nella nostra classe che ogni tanto mettevamo in scena la parodia di qualche evento dall'ampia diffusione mediatica.
Ricordo, ad esempio, una parodia un tantino irriverente della Messa, durante la quale l'officiante Nick (attore nato, oltre che bravissimo disegnatore) iniziò l'omelia con un esilarante quanto surreale: "Figlioli, oggi è festa perché vengono a Torino gli Emerson, Lake & Palmer".
Or bene, una mattina decidemmo di fare una macchietta del telegiornale, con notizie riguardanti fatti della nostra classe. Io diedi una mano per i testi: fu un esordio in un'attività, quella del prendere per i fondelli amici e conoscenti, che anni dopo praticai a lungo negli ambienti lavorativi in cui mi trovai a guadagnarmi la pagnotta.
Individuati gli speaker, si trattò di far ricorso alla sigla del TG1, che modificammo rendendola, come dire?, cantata ed onomatopeica.
Venne fuori l'inequivocabile riferimento ad Antonio: "Tu-tu-tu Tumalin, tu-tu-tu-tu-tu ma-lin!".
Lo ammetto senza alcun imbarazzo: ancora oggi, a quasi 40 anni di distanza, quando sento la sigla musicale del TG1, mi viene da ridere pensando a Tumalin.

lunedì 2 novembre 2015

Come mi cavai fuori dai guai durante i compiti in classe

Nel film Operazione Sottoveste il tenente Nick Holden (Tony Curtis) dice al comandante Sherman (Cary Grant): "Da ragazzo ero vittima di una propaganda tendenziosa che sosteneva che i soldi non sono importanti nella vita. Poi ho scoperto che chi lo diceva i soldi li aveva e non voleva che gli altri glieli prendessero".
Parafrasando questa considerazione, io da ragazzino rimasi vittima della propaganda tendenziosa secondo cui non bisognava copiare durante i compiti in classe (oggi si chiamano "verifiche") in quanto non era onesto. Poi, vedendo che i miei compagni di classe, chi più e chi meno, copiavano tutti, mi sono chiesto: "Ma perché devo essere l'unico fesso che prende voti meno alti solo perché non si deve copiare?".
Ma procediamo con ordine.

Alle Medie Inferiori, copiai una sola volta. In Terza. In previsione dell'esame di licenza, che prevedeva la scelta fra un compito di Matematica e una relazione di Scienze, la prof.ssa Zocco ci fece fare come compito in classe una relazione di Scienze.
Io Scienze non l'ho mai digerita come materia. La relazione da scrivere, poi, si presentava come una scalata all'Everest senza bombole d'ossigeno. Mi rassegnai al dover fare di necessità virtù e mi preparai qualche bigliettino con le nozioni principali.
Per essere la prima volta, il mio battesimo del fuoco, la mia perdita della verginità, me la cavai piuttosto bene nel copiare durante il compito in classe.
Si dice che i cali di tensione quando il traguardo è vicino possono costar cari: vero.
Avevo appena finito di copiare l'ultima informazione che mi serviva quando mi cadde di mano il bigliettino da cui l'avevo attinta. E il pezzetto di carta planò sul pavimento in un punto da cui era visibilissimo dalla prof.!
Forse quella fu la prima volta in cui tirai fuori da dentro di me quel mix di intuizione e improvvisazione che viene anche chiamato istinto di sopravvivenza. Allungai un poco una gamba e misi il relativo piede sul biglietto, coprendolo del tutto.
Mancavano dieci minuti buoni alla fine dell'ora, tempo che passai in quella invero innaturale posizione e con una buona dose di ansia. Poi, quando la campanella suonò e la prof. ci invitò a consegnare la relazione, mi alzai, spingendo indietro il biglietto con la suola della scarpa, andai a consegnare la relazione e tornai al mio banco, approfittando del movimento del sedermi per chinarmi un po' di più e raccogliere il compromettente quadrato (o rettangolo, non ricordo bene) di carta. Pericolo scampato.
E risultato eccellente: avendo copiato bene (già, perché occorre anche saper copiare con intelligenza e preparazione), per quella relazione presi 9 e mezzo. E senza alcun rimorso postumo.

Alle Medie Superiori, invece, copiai ogni volta che potei. In certi casi, raggiungendo, mi si conceda l'iperbole, altissime vette di spudorata spudoratezza.
In Seconda, la prof.ssa Barra, di Chimica, decise di sostituire l'ultima interrogazione dell'anno scolastico con un compito in classe. Panico generale.
Il giorno prima della fatidica prova scritta, fra una telefonata e l'altra coi compagni di classe per chiederci a vicenda cosa cavolo dovevamo preparare, a casa scrissi su un foglio protocollo (4 pagine, dunque) tutte le formule chimiche apprese durante i precedenti mesi di lezione. Prima di iniziare, però, non so se per un eccesso di formalità o per una sorta di preveggenza, scrissi in testa alla prima pagina quello che di solito si scriveva su ogni compito in classe e cioè: data del compito in classe, cognome e nome, e la dicitura "COMPITO IN CLASSE DI" seguita dal nome della materia.
Il giorno dopo, la prof. entrò in classe e, anziché elencarci le domande a cui rispondere, ci disse: "Scrivete tutte le formule che avete imparato quest'anno".
Botta di culo galattica!
Avevo il compito già fatto. E per giunta esatto, a meno che non fossi stato così pirla da copiare a casa in modo sbagliato.
E così passai quell'ora a scrivere con calma qualcosa sul foglio "ufficiale", poi al momento di consegnare lo scritto lo sostituii con quello preparato a casa e che avevo tenuto sotto il banco e diedi quest'ultimo alla prof.
Voto altissimo, anche in questa occasione.

Voti un po' meno alti prendevo in Matematica, materia che non mi è mai andata giù.
Alle Medie Inferiori avevo rimediato la mia buona dose di insufficienze. Alle Medie Superiori non mi capitò mai ma la "Mate" continuò a non andarmi giù. E per cavarmela non esitai a prendere le vie traverse.
In Seconda, con la severissima prof.ssa Luciano, durante un compito in classe andai nel pallone su un'equazione. Poi, eureka!, ebbi l'illuminazione, non buddista ma di salvataggio. Afferrai che la prof. ci aveva dettato l'equazione non da appunti da lei preparati ma da un manuale di Algebra che non era comunque il nostro libro di testo.
Ora, ehm, nei libri di testo accanto ad ogni equazione era riportato anche il risultato. E dal risultato si può a ritroso risalire al modo di risolverla o, quanto meno, si può sapere se la si è svolta correttamente oppure no ...
Allora mi alzai, andai alla cattedra e, con la faccia tosta di un attore consumato, dissi alla prof.: "Scusi, ho paura di aver scritto male il testo di un'equazione quando Lei l'ha dettato. Posso controllare?".
La prof.ssa Luciano, che pure era difficilissimo infinocchiare, ci cascò in pieno e mi fece visionare il manuale da cui aveva pescato gli esercizi da farci svolgere. Io controllai l'equazione incriminata, facendo finta di leggere con attenzione il testo quando invece mi era bastato vederne il risultato, poi tornai al mio banco.
In effetti, detto risultato non coincideva con quello a cui ero giunto io e così, andando a ritroso, riuscii a identificare l'errore e ad arrivare al risultato giusto.

L'anno successivo la prof.ssa Luciano stette a casa in maternità e al suo posto venne una giovane supplente alquanto impreparata e fannullona. La soprannominammo Ceccé, perché, non riuscendo a togliersi la pronuncia della Sicilia, da cui proveniva, ogni volta che nello spiegare un esempio doveva leggere due volte di fila il numero 3, anziché dire "tre tre" pronunciava "ce ce".
Una volta ci portò un compito in classe corretto e col voto, e come da consuetudine ci distribuii i nostri elaborati affinché potessimo visionarli.
Con mio sommo sdegno, mi accorsi che mi aveva dato 7-. Mi arrabbiai non per il voto in sé ma perché Tumalin e Richetto avevano preso 7+, pur avendo copiato esattamente nello stesso modo in cui l'avevo fatto io! Vissi la cosa come una profonda ingiustizia.
Andare a protestare sarebbe stato inutile. Oltretutto, mica potevo motivare la mia contestazione con l'avere copiato, ehm, in fotocopia con due miei compagni di classe che avevano avuto mezzo voto di più.
La rabbia il più delle volte fa perdere lucidità. In quella occasione, però, dovette suggerirmi di comportarmi in modo razionale, evitando di fare scenate inutili e potenzialmente controproducenti, e dandomi quella calma in cui cercare la soluzione.
Che di lì a un paio di minuti venne. Identificatala, passai subito all'azione.
Sapendo benissimo che la prof. non solo non trascriveva mai i voti sul registro prima di distribuirci gli elaborati ma era talmente fannullona che non li trascriveva nemmeno dopo, incaricando uno di noi di prendere il malloppo degli scritti e di scrivere in vece sua i voti sul registro, prima di consegnare il mio mi feci prestare da una compagna di classe una penna rossa (il colore con cui la prof. metteva i voti sui compiti in classe) e sul "-" tracciai una lineetta verticale facendolo diventare un "+".
L'epilogo rispecchiò la fannulloneria della prof.: raccattati tutti gli scritti, porse il "faldone" a una mia compagna di classe e le ordinò di trascrivere i voti sul registro.
E così quella volta Ceccé mi diede 7+ a sua insaputa.

Ma il tiro più grande, più geniale, più straordinario che giocai, anzi, che giocammo ad un prof. per cavarci dai guai in, anzi, dopo un compito in classe venne fatto in Quinta.
Compito in classe di Tecnica, docente prof. Belotti. Esercizio da svolgere: una registrazione di partita doppia.
A fine lavoro, consegnati gli elaborati, io e Tumalin ci accorgemmo di avere completamente sbagliato il compito in classe. Non per qualche errore di calcolo ma proprio nell'impostazione del DARE e dell'AVERE: l'avevamo fatto in modo esattamente contrario a quello giusto. Si profilava un 4 sicuro.
Mentre Tumalin imprecava ad alta voce, proferendo anche frasi irripetibili, io ebbi, modestia a parte, un colpo di genio.
E subito glielo comunicai: "Senti, - gli dissi, - non tutto è perduto. Adesso riscriviamo il compito in modo giusto, tanto alla prof. che viene non gliene frega niente se non ne ascoltiamo la lezione, poi andiamo da Belotti e gli diciamo che ci siamo sbagliati e gli abbiamo consegnato la brutta copia al posto della bella".
Dovetti impiegare un po' per convincere un perplesso e titubante Tumalin ma alla fine il mio amico acconsentì a condividere con me quel tentativo.
Scrivemmo il compito correttamente, badando però ad inserire qualche piccolo errorino per non destare sospetti. Quella era una strategia che mi aveva insegnato lo stesso Tumalin: nel copiare bisogna sempre mettere qualche sbaglio di poco conto; si rinuncia magari a un mezzo voto in più ma un compito in classe senza alcun errore desta sempre l'allarme dei professori.
Una volta terminato di scrivere le nostre, ehm, belle copie, chiedemmo il permesso dalla prof. di turno per recarci nella classe dove in quel momento il Belotti stava facendo lezione.
Attento come sono a curare ogni minimo particolare, fermai Tumalin davanti alla porta di quella classe e lo condussi nei bagni, dove gli dissi di bagnarsi con un po' d'acqua i capelli (cosa che feci anch'io) per dare l'impressione di persone sudate per l'affanno di correre dal prof. per avvertirlo di un'innocente dimenticanza.
Poi raggiungemmo di nuovo la classe, bussammo, entrammo e raccontammo al Belotti la balla della brutta copia consegnata al posto della bella.
Naturalmente, ci cascò in pieno, restituendoci la vera bella copia e prendendo la falsa, pardon, posticcia bella copia. E dire che, insomma, il fatto che non uno ma due studenti avessero durante  lo stesso compito in classe consegnato la brutta copia al posto della bella avrebbe dovuto indurlo a sospettare qualcosa.
Il voto, sia per me che per Tumalin, fu un gratificante 6/7 (dal sei al sette): il prof. Belotti era un rivoluzionario egualitarista che, disconoscendo il merito degli studenti, non dava mai voti superiori al 7; dare un 8 sarebbe stato per lui opera di qualunquismo.
Comunque, l'aver rimediato un 6/7 al posto di un 4 fu impresa davvero notevole.

sabato 24 ottobre 2015

Anestesie dal dentista

      A 23 anni d'età mi venne praticata la prima anestesia locale per curare i denti.
      Essendo io disabile e poiché la mia spasticità non ha mai reso agevole le mie cure dentarie, per la mia famiglia fu un vera odissea trovare un odontoiatra disposto a prendersi cura dei miei denti. Da bambino ero sì andato da un dentista in un paio di circostanze ma quello specialista ci aveva chiaramente detto che non aveva piacere di occuparsi di me. Fu dunque giocoforza, da ragazzo, farmi curare i denti in anestesia totale alla clinica odontoiatrica dell'Ospedale Molinette; il che mi procurava la poco piacevole necessità di finire in anestesia generale per cure che altrimenti non l'avrebbero comportata e l'obbligo, per evitare di fare una narcosi totale per un solo dente, di "accumulare" tre o quattro denti cariati, con l'inevitabile conseguenza che le prime carie comparse sarebbero nel frattempo scese in profondità.
       Poi, per mia fortuna, nel 1983 trovammo due odontoiatri, i fratelli dottori Dino e Paolo Cimma, disposti a curarmi i denti e da allora non ho più avuto bisogno di finire sotto anestesia totale per un'otturazione o una devitalizzazione. Come disse un giorno in dottor Dino, nel mio caso bastava avere un po' più di pazienza e un po' più di tempo e per il resto non c'erano problemi di sorta.
      Devo a loro se in bocca ho ancora quasi tutti i denti.
      Queste frasi servano per manifestare al dottor Dino e al dottor Paolo tutta la mia gratitudine.
      Ma torniamo alle iniezioni "dentarie".

      La prima anestesia locale in bocca me la fece il dottor Dino, per "addormentare" un incisivo che andava trapanato in profondità. Non mi fece alcun male, naturalmente, e con sollievo constatai che dopo l'iniezione il trapano non mi procurava alcun fastidio né tantomeno arrecava alcun dolore.
      La cosa filò liscia per un bel po' di sedute, col dottor Dino che mi chiedeva: "Vuoi l'anestesia?", e io che gli rispondevo con convinzione: "Sì".
      Ma la legge dei grandi numeri non sempre si manifesta in modo positivo, come ad esempio far vincere la tua squadra di calcio preferita dopo 45 sconfitte consecutive. E così, nel caso delle anestesie locali dentista, la legge dei grandi numeri si tradusse in episodi in cui patii un male pazzesco.

     A cominciare da quando per la prima volta mi imbattei nella tronculare.
     La quale è quell'anestesia che, praticata nell'arcata dentaria inferiore in un punto oltre l'ultimo molare di destra o di sinistra, ha come fine quello di anestetizzare il nervo che si dipana lungo la mandibola. Questo perché per i molari e in determinati casi anche per i premolari non basta anestetizzare l'area attorno al dente da curare, in quanto esso è in qualche modo a contatto col nervo "mandibolare".
      Il lato antipatico della tronculare non è l'ago lungo della siringa, che serve per raggiungere il fondo della bocca ma un effetto collaterale che a volte si presenta e di cui in quell'occasione ero ancora del tutto all'oscuro.
      Fatto sta che, quando il dottor Dino, che doveva estrarmi la radice di un molare, preparò la siringa, io aprii la bocca tutto rilassato e contento.
      Qualche attimo dopo, però, quando aveva già infilato l'ago nella gengiva, sentii una vera e propria scossa, alquanto dolorosa, corrermi lungo la mandibola. Naturalmente urlai: sono un tipo stoicamente ipersensibile al dolore.
      Il dottor Dino allora mi spiegò che a volte, quando l'ago tocca direttamente il nervo della mandibola, provoca un dolore simile a quello di una scossa elettrica. Non sempre, perché se si inietta l'anestetico in un punto dove l'ago non raggiunge il nervo, l'iniezione non causa alcuna sensazione di scossa.

      Non mi fece invece alcun male la prima tronculare che mi fece il dottor Paolo. Ma la sua origine fu tutta da ridere. A posteriori, naturalmente.
      Accadde il 31 dicembre 1984: certi eventi, si sa, ti segnano talmente che a distanza di anni te ne ricordi anche la data.
      Quella fu la prima volta, che però non fu purtroppo l'ultima, che ebbi un problema odontoiatrico in un periodo festivo. Capita di avere dei problemi nei giorni meno indicati, in cui si rischia di non trovarvi soluzione.
      Meno male che i dottori Cimma si sono sempre mostrati disponibili a ricevermi in seguito alle emergenze. Anni dopo, in un'altra occasione (anch'essa durante le Festività Natalizie), il dottor Paolo addirittura aprì lo studio apposta, interrompendo oltretutto le vacanze, per mettermi a posto un morale. Da persona signorile qual è, non me lo disse per non farmelo pesare ma io lo capii ugualmente.
      Ma torniamo al giorno di san Silvestro del 1984.
      Mi si era rotto un premolare inferiore: era saltata sia l'otturazione che un pezzo di dente; il premolare era ridotto a uno spuntone acuminato e mi faceva pure male.
      In quell'epoca, a curarmi i denti era il dottor Dino e lo sarebbe stato ancora per un po' di anni, prima che si ritirasse e dello studio il dottor Paolo divenisse l'unico titolare.
      Quella mattina però, sia per la data prefestiva, sia perché la mia era un'emergenza e quindi mi aveva ricevuto senza appuntamento, il dottor Dino era occupato con altri pazienti e chiese a suo fratello di prendersi cura di me.
      Come accade all'inizio di ogni seduta, il dottor Paolo prese in mano i due strumenti che servono per ispezionare i denti: lo specchietto e li specillo.
      Quest'ultimo è costituito da un manico con ad entrambe le estremità una punta aguzza e ricurva a mo' di uncino, che serve ad entrare nel dente per togliervi residui di otturazione o parti cariate. Se poi la punta incontra la parte del dente sensibile portata allo scoperto, l'escavatore diventa efficace come un radiotelescopio. Nel far vedere le stelle.
      E fu così che, quando il dottor Paolo toccò con lo specillo la polpa del mio molare, cacciai fuori un urlo che al confronto Tarzan faceva la figura dell'afono.
      Ma, d'istinto, chiusi di scatto la bocca e diedi al dottor Paolo un morsicone tale che la punta acuminata di quel mio premolare fece il suo deciso ingresso in un polpastrello del buon odontoiatra.
      Risultato: anche il dottor Paolo cacciò fuori un urlo che al confronto Tarzan faceva la figura dell'afono.
      Anzi, poiché presumo non passò più di un decimo di secondo fra una sensazione di dolore all'altra e quindi anche da un urlo all'altro, le due manifestazioni vocali di male pazzesco si fusero in un unico urlo bestiale.
      Ripresomi quasi subito dal dolore, vidi che il dottor Paolo si stava ancora tenendo il dito morsicato, sul cui polpastrello si vedeva un taglio di circa un centimetro.
      Dopo che si ebbe suturato il polpastrello con un cerotto, prese in mano la siringa dell'anestesia locale e dall'ago lungo compresi subito la crudele realtà: TRONCULARE!
      Esclamai: "Oh, no!".
      In tutta risposta, il dottor Paolo disse deciso: "Oh, sì!". E mi fece l'iniezione.
      Che però non mi fece alcun male.
      Nove anni dopo, essendo le condizioni di quel premolare peggiorate, il dottor Dino decise di devitalizzarmelo. Temevo la tronculare ma, dopo aver fatto la preliminare verifica con lo specchietto, egli mi disse: "Bene, è un premolare, come anestesia non c'è bisogno di una tronculare, basta  una locale".
     Tirai un sospiro di sollievo ma, dopo essere tornato a casa, mi venne il dubbio: "Quel fatidico 31 dicembre 1984, il dottor Paolo mi aveva fatto la tronculare per quel premolare perché era solito farla a tutti o per vendicasi del morsicone che gli avevo appena dato?".
      Non avrò mai una risposta certa a sì angosciante dilemma esistenziale ma il fatto che non mi aveva fatto male e che, in anni più recenti, mi fece la tronculare per un altro premolare depone per una legittima diversità di scelta fra odontoiatri e non per un attacco di vendicativo sadismo da parte del dottor Paolo.
      Quanto al dottor Dino, mi fece anch'egli altre volte la tronculare. In una di queste, mi confortò dicendomi: "Coraggio, è sempre meglio di una martellata su un dito".
      Non fui d'accordo ma non glielo dissi, anzi, mi misi pure a ridere (anche se di ridere non avevo voglia per niente) per non mostrarmi fifone e affrontai stoicamente l'ennesima sfida col dolore della possibile scossa lungo la mandibola.
      Diciamo che c'è martellata e martellata. Sicuramente la tronculare è molto meglio di una martellata sui coglioni (non foss'altro perché quest'ultima ha degli sgradevoli ed irreversibili effetti collaterali); quanto però alla martellata su un dito, francamente allora l'avrei preferita alla tronculare.

      Non che le locali (le anestesie limitate alla zona del dente da mettere a posto) siano sempre indolori.
      Capita a volte che un dentista e, quel che è peggio, un paziente si imbattano in uno stock di fiale di anestetico inefficaci.
      Una sera il dottor Dino doveva trapanarmi un premolare superiore. Mi fece le due proverbiali punture, una sulla gengiva esterna e l'altra su quella esterna, lasciò passare i minuti necessari all'anestetico per fare effetto, iniziò a trapanare e, appena giunse alla polpa, cacciai fuori un urlo.
      Ritenendo di non avermi iniettato sufficiente anestetico, inserì un'altra fiala nella siringa e mi fece due nuove punture. Con lo stesso effetto: appena toccata la polpa, mi esibii in un nuovo urlo di Tarzan.
      Fece un terzo tentativo. Identica sorte. Lamentandosi delle fiale difettose, mi fece alzare dalla poltrona e mi diede appuntamento per la settimana successiva.
      Quando le cose filarono lisce: l'anestetico fece subito effetto e il dottor Dino poté trapanarmi il premolare senza alcun problema e, soprattutto, senza alcun urlo bestiale da parte mia.

      A un certo punto il dottor Dino smise di occuparsi di odontoiatria e anch'io passai alle cura del dottor Paolo.
      Accadde però che, pochi mesi dopo, incappai in una nuova emergenza:  un male cane a un incisivo inferiore. Recatomi allo studio, vi trovai il dottor Dino, che salutai con vivo piacere.
      Il dottor Paolo mi aveva trovato un buco fra un appuntamento e l'altro ma, visto che il dottor Dino era lì, si misero d'accordo che quest'ultimo si sarebbe preso cura di me.
      Effettuata la valutazione del dente, il dottor Dino mi disse che l'unica cosa da farlo era toglierlo.
      La cosa non mi turbò più di tanto: ho una dentatura un po' strana, coi denti inferiori che, dagli incisivi ai canini, sono più piccoli di quelli superiori, tant'è che anche quando sorrido non si vedono e inoltre, gli incisivi non mi avevano mai aiutato a masticare a dovere. La prospettiva di privarmene di un altro (quelli centrali mi erano stati estratti già nel 1979, prima di conoscere i dottori Cimma) non mi creava alcuna angoscia.
      Inoltre, avevo molto dolore da giorni e, come si suol dire, quando si ha male anche il rimedio più drastico non solo non è detestato ma, anzi, è auspicato.
      Infine, per gli incisivi l'anestesia praticata è la locale, non la temuta tronculare.
      Anche questa volta, però, feci i conti senza l'oste, che in quel caso era rappresentato da un processo chimico che, in presenza di un ascesso o comunque di un'infiammazione a denti e gengive, porta l'anestesia a non sortire efficacia alcuna.
      E fu così che, appena il dottor Dino prese in mano le proverbiali tenaglie e provò a strapparmi via il dente, mi misi ad urlare.
      Anche in questo caso, seconda iniezione e seconda attesa che l'anestetico facesse effetto. Poi, al secondo tentativo di estrarre il dente, nuovo urlo da spennato vivo.
      Vuoi la guerra? - Si dice. - E guerra sia!
      Il dottor Dino passò alla tronculare. Ormai il terrore delle tenaglie si era talmente impadronito di me che benedii anche la tronculare e quasi non avvertii la scossa che mi diede al nervo della parte sinistra della mandibola.
      Nuova attesa di qualche minuto, nuovo tentativo di strappata e nuovo acuto da urlatore da parte mia. Tony Dallara, al mio confronto, era già diventato un sussurratore di frasi gentili alle orecchie delle signore.
      Vidi un'espressione sconsolata negli occhi del dottor Dino.
      Fu allora che Patrizia, l'infermiera di sala, gli suggerì: "E provare con l'intraligamentare, dottore?".
      Termine ostrogoto per indicare quell'iniezione che prevede la penetrazione dell'ago in profondità infilandolo fra il dente e la gengiva.
       Il dottor Dino accolse il suggerimento e mi fece l'intraligamentare. Un male pazzesco! E un nuovo urlo da parte mia, di intensità direttamente proporzionale al dolore pazzesco. Sarebbe stato molto meglio se mi avesse dato una martellata su un dito e francamente non credo che un calcio nei testicoli mi avrebbe fatto meno male. Calcio inguinale comunque sempre da evitare, per via degli irreversibili effetti collaterali.
     Subito dopo, però, avvertii delle sensazioni positive: il dente sembrava finalmente desensibilizzato e non avvertivo più dolore alla già tanto martirizzata area.
      Il dottor Dino prese allora di nuovo in mano le tenaglie e finalmente riuscì ad estrarmi il dente, senza farmi alcun male.
     Col senno del poi, sarebbe stata molto meglio l'anestesia che Padre Pedro (Bud Spencer) pratica nel film Porgi l'altra guancia per levare un dente: una botta in testa e il dente viene strappato via prima che il paziente riprenda conoscenza.
      Ero talmente sollevato dalla fine delle torture che mi misi a profondermi in sinceri ringraziamenti al dottor Dino per aver posto fine alle mie sofferenze dentarie.
      Mi ero già alzato dalla poltrona quando entrò il dottor Paolo dalla sala vicina dove stava curando un'altra persona e, riferendosi alle mie urla di dolore, ci disse ridendo: "Mi fate scappare tutti i pazienti!".
      In effetti, essere in sala d'attesa e sentire le urla di dolore è sotto le cure di un odontoiatra non è il massimo per prepararsi psicologicamente al meglio per la seduta.

giovedì 22 ottobre 2015

L'epoca delle punture

      Leggendo il capitolo che Francesco Guccini ne Il dizionario delle cose perdute dedica alle iniezioni, ho constatato che nei vent'anni d'età che ci separano la "procedura" delle iniezioni rimase pressoché la stessa, nel senso che quella che lui, bambino, descrive per gli anni '40 del XX secolo sembra calzare alla perfezione con quella che io, bambino, ho dovuto sopportare negli anni '60.
     Fu solo verso la fine degli anni '70 che, col diffondersi delle siringhe monouso ad aghi sottili, le cose migliorarono decisamente per i fondoschiena di bambini ed adulti.

      Iella ha voluto che da bambino io soffrissi spesso di tonsilliti. E, all'epoca, tonsillite voleva dire iniezioni di penicillina. Per l'esattezza, il mio pediatra mi prescriveva la Vicillina e, più, spesso, la Trivicillina, antibiotici di diversa potenza ma dallo stesso effetto chiappico: il loro liquido, appena entrava nel gluteo, faceva decisamente male. Una volta, poi, mi presi una tonsillite a luglio, il mio pediatra era in ferie e il sostituto mi prescrisse una variante ancora più terribile della penicillina, contenente anche delle vitamine: farmaco talmente potente che se ne sentiva la puzza dalla siringa e che, per dirla con Massimo Boldi, faceva un male pazzesco.
      Non deve dunque sorprendere, dunque, che io abbia elaborato in quegli anni una strategia difensiva in cui l'istinto di sopravvivenza si armonizzava alla perfezione con l'elaborazione razionale: quando mi veniva una tonsillite, negavo categoricamente di avere male alla gola. E la mia povera mamma continuava a ripetere a parenti e conoscenti: "Ma come fa ad avere le tonsille infiammate se non ha mal di gola!".
      Tecnica che però, nonostante fosse sostenuta da una capacità di recitazione non comune che mi faceva apparire pieno di salute quando invece stavo malissimo, non funzionava mai. A causa di quel piccolo particolare clinico che fa sì che, di solito, una tonsillite è accompagnata da febbre alta. E così si innescava la catena di eventi che conduceva inevitabilmente alle iniezioni: la mamma mi vedeva un po' giù, mi toccava la fronte, la sentiva calda e anche se io le assicuravo che non avevo mal di gola mi misurava la temperatura, quel brutto bastardo del termometro schizzava regolarmente oltre i 38 gradi, la mamma chiamava il pediatra, il bravissimo dottor Piccato, il pediatra arrivava, si faceva dare dalla mamma un cucchiaio pulito, mi faceva aprire la bocca, mi infilava in bocca il manico del cucchiaio per bloccare la lingua e spalancare le mascelle onde poter vedere meglio la gola e alla fine, scorgendovi evidente arrossamento di tonsille e in qualche caso addirittura delle placche, sentenziava la diagnosi di tonsillite. Da lì ad estrarre dalla borsa il blocco per le ricette e scrivervi sopra il nome dell'antibiotico da farmi iniettare, il passo era breve, molto breve, brevissimo.

      Passata in giudicato la sentenza e recatasi in farmacia a prendere le fiale, la mamma andava a chiamare la signora che nel condominio "sapeva fare le punture".
      Dicasi "signora che sa fare le punture" individuo umano di sesso femminile che abbia acquisito conoscenza e pratica di fare le iniezioni senza essere infermiera.
      Lungo il corso della mia infanzia, ebbi due "signore che sapevano fare le punture": dapprima la signora Caterina Mignacco, che abitava al piano di sotto a quello dov'era l'alloggio dei miei genitori, e poi la signora Giuse Buzzetti, che invece abitava al nostro stesso piano. In seguito, le iniezioni me le fece la signorina Rita (Ritìn) Sobrà, la quale però era infermiera di professione. Da adulto, invece, ad avere l'ambito onore di bucherellarmi il sederino fu la signora Rita Contino ma ciò è stato in un'epoca in cui il farmi fare le iniezioni non mi procurava e non mi procura più alcun patema.
      Già, perché il mio rapporto con aghi e siringhe, com'è logico che sia per tutti, si è evoluto col passare degli anni.

     Da piccolino ero letteralmente terrorizzato dalle iniezioni. Non solo: cercavo in tutti i modi di impedirle: piangevo, urlavo, mi dimenavo, scalciavo.
      Il primo ricordo che ho delle punture risale a quando i miei genitori mi portarono a fare un vaccino in un ambulatorio pubblico. Dovrò avere avuto sui quattro anni d'età. Mi rivedo piangente e tutto intenzionato a non stare fermo ma non ricordo altro di quel giorno. Mia madre mi avrebbe poi raccontato che la malcapitata infermiera incaricata di inocularmi il vaccino fece le proverbiali fatiche di Ercole per riuscire infine a farmi la puntura.
      A farne le spese fu la signora Mignacco, la prima che mi fece le punture a domicilio, proprio perché coprì tutta la fase dei miei strazianti tentativi di ribellione.
      Il riuscire a farmi un'iniezione comportava all'epoca un sofisticato gioco di squadra. Dopo che i miei genitori con tutte le blandizie del caso erano riusciti a farmi mettere a pancia in già e a scoprirmi il culetto, arrivava la signora Mignacco con lo strumento di tortura in mano.
      Allora mia madre mi placcava letteralmente premendomi sulle spalle, mentre mio padre mi teneva lunghe e ferme le gambe impugnando le mie caviglie con le mani.
      E nonostante fossi piccolo e pure gracile di costituzione, nemmeno così il risultato era garantito, tant'è che spesso la signora Mignacco riusciva ad infilarmi l'ago della siringa in un gluteo solo dopo due o tre punture.
      A questo quadro, già drammatico di per sé, si aggiungeva il particolare che il contenuto della siringa doveva essere inoculato senza perdere troppo tempo, altrimenti il liquido si sarebbe solidificato e l'iniezione non avrebbe potuto essere fatta. In sostanza, la piccola belva in gabbia che ero io in quei momenti, pur con tutta la gentilezza possibile, andava punturata senza indugi e quindi con una certa dose di decisione.

      Ebbi questi atteggiamenti da resistenza disperata nei confronti delle iniezioni fino all'età di otto anni circa, quando un episodio cambiò il mio modo di affrontare sì dure prove di vita, anche se non diminuì minimamente la mia paura verso aghi e siringhe.
      I miei genitori e quelli di una mia compagna di classe, Cristina, si erano messi d'accordo per portarci insieme dal pediatra per farci fare la vaccinazione antitetanica e antidifterica.
      Arrivati che fummo nello suo studio, il dott. Piccato ci fece entrare insieme, con le nostre rispettive mamme, e chiese: "A chi faccio il vaccino per primo?".
      Vedendo che Cristina cominciava già a piagnucolare, ebbi l'intuizione: offrendomi volontario, potevo prendere due piccioni con una fava ossia farmi vedere coraggioso davanti a lei e levarmi il fastidio, anzi, la paura per l'iniezione il prima possibile.
      E così feci. Dissi che volevo andare io. Il pediatra, naturalmente, non mi fece alcun male, appena un pizzicotto (quel tipo di vaccino, d'altronde, ha un liquido assolutamente indolore) e mi liberai subito dal patema.
      Dopo di che, provai una sadica e non preventivata soddisfazione: vedere Cristina disperarsi nell'affrontare il supplizio, mentre io bello rilassato già sospiravo di sollievo.
      Da quel giorno non ho più fatto i capricci per gli aghi e le siringhe, pur continuando ad avere una fifa boia. Ma l'orgoglio di non farmi vedere vigliacco e piagnone ebbe la meglio sulla paura per le punture.

      Del resto, stavo imparando a distinguere i vari tipi di iniezioni e, genericamente, di punture in indolori e in dolorose.
      Fra le punture buone c'erano i vaccini e i prelievi di sangue, e smisi di  averne paura.
      Fra quelle cattive, quelle cioè che facevano un male pazzesco, c'erano le iniezioni di penicillina.
      Con queste ultime ebbi parecchi contatti. Non solo mi venivano fatte per curarmi le tonsilliti ma anche mi venivano propinate a scopo "preventivo". E' che, a sei anni d'età, accampando l'assurda scusa di un rischio nell'anestesia dovuto alla mia spasticità (panzana vera e propria, visto che in quegli anni andavo a farmi togliere i dentini da latte in narcosi con etere e non ci fu mai alcuna complicazione), non vollero operarmi di tonsillectomia e così il pediatra, basandosi sulle conoscenze scientifiche dell'epoca, mi prescrisse una profilassi di regolari iniezioni di penicillina ad ampio spettro, dapprima una ogni quindici giorni, poi una al mese (quando i valori del Titolo ASLO tornarono nella norma) e infine una ogni tre mesi: l'ultima che feci, ormai tredicenne, fu nel luglio del 1973. Oggi un medico che prescrivesse antibiotici come profilassi verrebbe radiato dall'albo professionale ma allora si credeva che potessero essere efficaci. Ma ovviamente non lo erano, tant'è vero che, fino alla fine delle Elementari, le tonsilliti continuarono a perseguitarmi, con ulteriori e più numerose iniezioni.

      Già, perché quando il pediatra veniva chiamato e mi trovava febbricitante e con la gola arrossata, il minimo che prescriveva erano due punture al giorno per tre giorni, poi ripassava a visitarmi e, se ero migliorato, mi attendevano altri tre-quattro giorni di una iniezione al dì.
      Nel caso del giorno in cui il mio sederino doveva suo malgrado concedere il bis, gli orari della bucherellatura erano collocati alla mattina dopo colazione e alla sera dopo cena.
      La mattina, grazie all'essere io ancora mezzo addormentato, la tensione per l'imminente tortura era quasi nulla: giusto appena il tempo di svegliarmi, ingurgitare il tè con due biscotti e mi ritrovavo col culetto per aria e la signora Mignacco o la signora Buzzetti in camera mia con la siringa in mano.
      Tiravo un sospiro di sollievo: era andata anche questa! Poi, fino a pranzo, filava tutto liscio e senza ansia. Dopo pranzo, invece, iniziava ad assalirmi l'apprensione per l'iniezione serale, paura che cresceva man mano che passavano le ore e toccava il suo fatale approdo quando il suono del campanello di casa annunciava l'arrivo della "signora che sapeva fare le punture".
       Secondo giornaliero sospiro di sollievo e poi, una volta guardata un po' di tv, a nanna tranquillo e beato. Stranamente, le iniezioni non popolarono mai i sogni delle mie notti da malatino.

      I periodi delle tonsilliti avevano almeno un vantaggio per ciò che concerneva la pratica bucherellatoria: ero a letto in camera mia e quindi non assistevo alla preparazione della siringa.
      Cosa che invece avveniva per le iniezioni della "profilassi" anti-tonsilliti.
      Di solito, mia madre sceglieva il sabato pomeriggio come giorno dell''esecuzione. "Così, - diceva a parenti e conoscenti, - la domenica non va a scuola e ha il tempo di riprendersi."
      Luogo dell'esecuzione era il tinello, con l'annesso cucinino per far bollire l'ago e la siringa, perché all'epoca non erano ancora in commercio le siringhe monouso sterilizzate.
      E così, una volta entrata la "signora che sapeva fare le punture", iniziava il sadico rituale.
      L'aguzzina prendeva la scatoletta metallica che conteneva ago, siringa e stantuffo, ne sollevava la barra che la chiudeva e la girava all'infuori affinché essa fungesse da manico, andava nel cucinino, vi versava dell'acqua corrente quasi fino all'orlo e la metteva a bollire.
      Quando l'acqua bolliva, spegneva il gas e portava nel tinello la scatola, depositandola su un asciugamano su cui mia madre aveva già depositato l'alcool, il cotone, la fiala dell'acqua distillata e la botticina della polvere dell'antibiotico nonché il seghetto per spezzare la fiala.
      Dopo di che, la "signora che sapeva fare le punture" lasciava passare un paio di minuti (per lasciare raffreddare un po' l'acqua che sommergeva l'ago e la siringa) e poi passava alla fase 2 della preparazione.
      Immergeva i polpastrelli nell'acqua per prendere siringa e stantuffo. A volte succedeva che l'acqua fosse ancora troppo calda e lei ritraesse di scatto le dita scottate. Mai abbastanza per impedirle per quel giorno di farmi l'iniezione.
      Con fare calmo e sicuro, la signora punturiera infilava lo stantuffo nella siringa e lo faceva andare su e giù due o tre volte per verificarne il funzionamento. Poi infilava l'ago sopra la siringa, uno di quegli aghi spessi che nulla avrebbero avuto a che fare con quelli sottili e indolori delle odierne siringhe monouso.
      Completato l'assemblaggio dell'arma impropria, passava ad immettervi il farmaco. Questa operazione constava di cinque passi:
         1) con un seghetto penetrava orizzontalmente fino a metà della fialetta dell'acqua distillata, che poi spezzava con una secca pressione delle dita; non sempre ci riusciva al primo tentativo;
         2) introduceva l'ago nella fiala spezzata e ne aspirava in contenuto nella siringa;
         3) infilava l'ago nel cappuccio di gomma nella boccettina contenente la polvere dell'antibiotico e vi iniettava l'acqua distillata;
         4) scuoteva la boccettina con la stessa controllata energia con cui un barman agita lo shaker contenente un cocktail da preparare; a questo punto mia madre mi diceva di tirarmi giù i pantaloni, sdraiarmi a pancia in giù sul sofà, scoprire il culetto ed espormi alla condizione di bersaglio umano;
         5) la "signora sapeva fare le punture", verificato che la polvere dell'antibiotico si fosse sciolta e perfettamente amalgamata con l'acqua distillata, aspirava il tutto nella siringa, la picchiettava con un'unghia per controllare che dentro non ci fossero bolle d'aria, spingeva leggermente lo stantuffo per far uscire un po' di farmaco dall'ago e poi, al termine di tutte queste azioni che ci si impiega più tempo a descrivere che a fare, era pronta a colpirmi con millimetrica precisione.
      Dopo di che, si avvicinava al sofà, si chinava su di me e dopo avermi strofinato un po' con un batuffolo di cotone imbevuto d'alcool la chiappa designata, pic!, mi faceva l'iniezione.
      Una volta finita la tortura, riprendeva in mano il cotone e mi massaggiava un po' la parte anatomica sì crudelmente ferita. Operazione di sollievo che, dopo alcuni secondi, veniva continuata da mia madre, che si faceva allo scopo consegnare il batuffolo imbevuto d'alcool.
      E, anche se dopo la famosa antitetanica non strillavo più e non opponevo più resistenza (mia madre, comunque, a letto malato o sul sofà in buona salute che fossi, durante le iniezioni per prudenza continuava a chinarsi su di me per placcarmi le spalle), dopo la paura delle ore precedenti e il male che il liquido dell'iniezione mi aveva procurato, dovevo pure, per educazione, dire grazie alla sadica "signora che sapeva fare le punture"!

      La quale divenne per me fonte di terrificanti ossessioni. Nei due giorni precedenti ogni iniezione "programmata" fantasticavo su tutte le possibili malattie o incidenti che potesse avere per essere impossibilitata a punturarmi. A mio onore va riconosciuto che non giunsi mai ad augurarle di morire.
      Naturalmente le provvidenziali influente e gli altrettanto provvidenziali incidenti stradali non si verificavano mai. Solo una volta ... ero ormai rassegnato all'iniezione, suonò il campanello di casa e la signora Mignacco, con le dita fasciate ci disse che aveva un problema dermatologico e non poteva farmi la puntura. Quando lasciò il nostro appartamento, mi prese un'esultanza paragonabile a quella di don Rodrigo quando seppe che Renzo era ricercato come sedizioso e a quella che prende il tipo che si mette a fare bidibodibù nella pubblicità della Ondaflex.
      Per fortuna, l'augurare malattie e infortuni vari non solo porta ai risultati sperati ma, come si suol dire, allunga la vita. Come egregiamente dimostra la signora Mignacco, che nel momento in qui scrivo questo post ha raggiunto la veneranda età di 96 anni.
       Comunque, tale era la mia paura della "signora che sapeva fare le punture" che, quando veniva inaspettatamente a farci visita (il che accadeva spesso, visto che eravamo in ottimi rapporti con lei e in quegli anni tra vicini di casa ci si frequentava molto di più che non oggi), mi veniva il terrore che fosse venuta a farmi un'iniezione di cui i miei genitori non mi avevano informato e, se ero passato inosservato, correvo a nascondermi in tutti meandri possibili e immaginabili del nostro piccolo appartamento.
      Una volta avevo trovato una via di fuga verso il bagno, mi ci chiusi dentro e là rimasi per più di due ore: la durata della visita della signora Mignacco.

      Con la signora Buzzetti le cose andarono un po' meglio. Ero un po' più grandicello, sui dieci anni d'età, e dominavo meglio la paura delle punture.
      Inoltre, era più decisa nell'infilare l'ago nel sederino, forse perché aveva imparato in famiglia l'arte delle iniezioni dal padre, che era stato un illustre medico, e dai fratelli, entrambi medici. Fatto sta che, invece di infilare l'ago con delicatezza, usava la siringa come una freccetta da lanciare con forza contro il bersaglio rotondo e spesso un colpo secco fa meno male di una puntura meno veloce.

      Cosa succede quando si ha bisogno di farsi fare un'iniezione in vacanza e non si può ricorrere alla "signora che sa fare le punture" o a un'infermiera professionale? Si cerca un sostituto, naturalmente.
     A Villa Minozzo, nel Reggiano, a farmi l'iniezione mensile di antibiotico era la zia Tilde.
      Di tutte le zie, paterne e materne, era la più simpatica, energica ma anche ironica, sempre con la battuta pronta.
      E, fra tutte le "signore che sapevano fare le punture", era quella che le faceva meglio, addirittura meglio, come il mio sederino sperimentò anni dopo, di tante infermiere di professione. Sapeva unire, ed era qualità rara, decisione e delicatezza nell'iniettare i farmaci.
      Fatto sta che, simpatia unita al fatto che la zia Tilde non mi faceva male (a parte il bruciore del liquido, ovviamente non imputabile a lei), vissi le mie iniezioni "vacanziere" con molta minore apprensione di quelle "ordinarie".

      Le quali ultime, anzi, per meglio dire, l'attesa delle quali ultime mi provocavano spesso un effetto che, negli anni della mia infanzia, era tutt'altro che negativo.
      Alle Elementari soffrivo di perenne stitichezza, causata congiuntamente dallo stress di vivere in un ambiente pessimo com'era la scuola che allora frequentavo e dal pessimo livello della mensa scolastica.
      Or bene, la paura fa 90 e, nel caso della paura delle iniezioni, fa anche cagarella. E così i giorni in cui attendevo le punture erano quelli in cui andavo di corpo con grande facilità, anzi, con perfino eccessiva facilità.
      Come si suol dire, non tutto il male viene per nuocere.
      Ciò dimostra inoltre che alcuni detti popolari sono tutt'altro che privi di fondamento scientifico. Se per la paura non solo si compiono atti vili ma si viene colpiti da diarrea, ecco spiegata l'espressione: "Cagarsi addosso".

      Fine agosto 1973. Era trascorso appena un mese da quello che poi si sarebbe rivelato l'ultimo "richiamo" della profilassi con antibiotici.
      Quei giorni segnarono una positiva evoluzione nel mio rapporto con le iniezioni, nel senso che l'esperienza che vissi mi fecero passare definitivamente la paura delle punture.
      Al ritorno dalle vacanze estive venni colpito da un virus influenzale. Ne parlarono anche i telegiornali: non del fatto che me ne fossi ammalato io, naturalmente, ma perché era quanto meno insolito che un'epidemia di influenza scoppiasse d'estate.
      Da circa un anno ero passato dal pediatra, dottor Piccato, al medico di famiglia, dottor Leonardis.
      Quella fu la prima volta che venne a visitarmi a casa. Diagnosticò un influenza e mi prescrisse l'Amplital, un antibiotico da prendere per bocca.
      Constatai con piacere la novità: niente più iniezioni!
      Ma come mai il pediatra mi aveva prescritto per anni le punture quando erano a disposizione dei farmaci da somministrare per via orale?! E' proprio vero che al sadismo umano non c'è limite.
      La mia soddisfazione ebbe però breve durata. Nel senso che non riuscivo a trattenere nello stomaco il medicinale: mia madre scioglieva il granulato nell'acqua, me lo dava da bere e dopo pochi minuti lo rimettevo.
      Provò anche a farmi mangiare un boccone di pane o un biscotto per rendere tollerabile l'antibiotico ma il risultato non cambiava e finiva tutto con una bella (???) vomitata.
      Il giorno dopo, poiché la febbre non diminuiva e l'antibiotico non riuscivo a reggerlo, venne di nuovo chiamato il medico e il dott. Leonardis disse: "Va be', gli avevo prescritto l'Amplital per via orale per evitargli il fastidio delle iniezioni ma, visto che non lo tollera, glielo prescrivo in fiale da iniettare".
      Probabilmente fu a causa del periodo estivo che cambiai "signora che sapeva fare le punture", essendo sia la signora Mignacco che la signora Buzzetti fuori città. Anzi, feci un avanzamento, visto che stavvolta a farmi le iniezioni fu un'infermiera professionale, la signorina ("tota", in piemontese) Rita Sobrà, che abitava anch'ella nel condominio insieme alla sorella Bianca, al cognato, l'indimenticabile signor Ettore Gennaro, e al nipote Pierluigi, che di lì a qualche mese si sarebbe laureato in Medicina a pieni voti.
      La "tota" Ritìn lavorava come infermiera all'Ospedale "San Luigi Gonzaga" di Orbassano. Per qualche anno sarebbe toccato a lei bucherellarmi il sederino all'occorrenza, sebbene non avrei avuto bisogno tante volte di farmi fare delle iniezioni.
     La svolta nel mio rapporto con le punture non avvenne tanto perché la signorina Sobrà le faceva meglio delle precedenti "signore che sapevano fare le punture": naturalmente le faceva bene, anche se non come la zia Tilde, ma né la signora Mignacco né la signora Buzzetti le facevano male. E nemmeno avvenne, la svolta, perché le fiale di Amplital contenevano un liquido meno doloroso dei precedenti antibiotici.
      No. La svolta avvenne perché il pomeriggio giorno dopo l'inizio delle iniezioni stetti talmente male (penso che mi venne una specie di colica ma facevo anche fatica a respirare)  che implorai i miei genitori di andare a chiamare Ritìn per farmi una puntura in più rispetto alla sola iniezione mattutina prescrittami dal dottor Leonardis. E, per chiedere che mi facessero una puntura in più, dovevo stare davvero male!
      I miei accondiscesero ai miei desideri, la signorina Sobrà accondiscese alla richiesta dei miei genitori e mi fece la seconda iniezione. Mio padre andò poi dal medico di famiglia e il dottor Leonardis cazziò tutti quanti, dicendo che non avrebbero dovuto farmi fare la seconda iniezione, del tutto inutile, e che avrebbero dovuto aspettare che il farmaco facesse il suo effetto assecondando il decorso naturale della malattia.
      Mi ripresi completamente dopo qualche giorno ma compresi finalmente che le iniezioni servono per far stare bene le persone. E, quando capisci che una metodica terapeutica è utile, lo stesso minimo dolore che essa può comportare diventa sopportabilissimo.
      Tant'è vero che durante quella fatidica iniezione "non autorizzata" non sentii alcun male.

      Fin qui ho disquisito del tipo di iniezioni di cui avevo paura, quella intramuscolare nel sedere.
      Quanto alla puntura in vena, quella dei prelievi di sangue per intenderci, non ne ebbi quasi mai paura.
      Il primo prelievo che feci fu a sei anni d'età. Incrociai un bambino che stava uscendo dalla "sala salassi" e nel vederlo sudato e paonazzo mi venne paura. Mi sedetti, stesi il braccio e il medico (mi pare di ricordare che all'epoca i prelievi di sangue venivano effettuati solo dai medici) mi mise il laccio emostatico. Quando sentii l'ago pungermi, iniziai a frignare; mia madre iniziò a consolarmi dicendomi: "Coraggio, a pranzo ti faccio una bella bistecca, così rimpiazzi il sangue che il dottore ti prende"; e il medico (all'epoca mi pare di ricordare che i prelievi li facessero solo i medici) confermò: "Sì, una volta a casa mangerai una bella bistecca); così smisi di piagnucolare, anche perché non provai alcun dolore. Per quelli successivi, non provai più né paura né stress.
      Poi, da adulto, sperimentai anche le iniezioni nel braccio, quelle dei vaccini antinfluenzali per intenderci, anch'esse del tutto indolori. Ma in ogni caso non avevo più alcun terrore delle punture.