Leggendo il capitolo che Francesco
Guccini ne Il dizionario delle
cose perdute dedica alle
iniezioni, ho constatato che nei vent'anni d'età che ci separano la
"procedura" delle iniezioni rimase pressoché la stessa, nel senso che
quella che lui, bambino, descrive per gli anni '40 del XX secolo sembra calzare
alla perfezione con quella che io, bambino, ho dovuto sopportare negli anni '60.
Fu solo verso la fine degli anni '70 che, col diffondersi delle siringhe
monouso ad aghi sottili, le cose migliorarono decisamente per i fondoschiena di
bambini ed adulti.
Iella ha voluto che da bambino io soffrissi spesso di tonsilliti.
E, all'epoca, tonsillite voleva dire iniezioni di penicillina. Per l'esattezza,
il mio pediatra mi prescriveva la Vicillina e, più, spesso, la Trivicillina,
antibiotici di diversa potenza ma dallo stesso effetto chiappico: il loro
liquido, appena entrava nel gluteo, faceva decisamente male. Una volta, poi, mi
presi una tonsillite a luglio, il mio pediatra era in ferie e il sostituto mi
prescrisse una variante ancora più terribile della penicillina, contenente
anche delle vitamine: farmaco talmente potente che se ne sentiva la puzza dalla
siringa e che, per dirla con Massimo Boldi, faceva un male pazzesco.
Non deve dunque sorprendere, dunque, che io abbia elaborato in quegli anni una
strategia difensiva in cui l'istinto di sopravvivenza si armonizzava alla
perfezione con l'elaborazione razionale: quando mi veniva una tonsillite,
negavo categoricamente di avere male alla gola. E la mia povera mamma
continuava a ripetere a parenti e conoscenti: "Ma come fa ad avere le
tonsille infiammate se non ha mal di gola!".
Tecnica che però, nonostante fosse sostenuta da una capacità di recitazione non
comune che mi faceva apparire pieno di salute quando invece stavo malissimo,
non funzionava mai. A causa di quel piccolo particolare clinico che fa sì che,
di solito, una tonsillite è accompagnata da febbre alta. E così si innescava la
catena di eventi che conduceva inevitabilmente alle iniezioni: la mamma mi
vedeva un po' giù, mi toccava la fronte, la sentiva calda e anche se io le
assicuravo che non avevo mal di gola mi misurava la temperatura, quel brutto
bastardo del termometro schizzava regolarmente oltre i 38 gradi, la mamma
chiamava il pediatra, il bravissimo dottor Piccato, il pediatra arrivava, si
faceva dare dalla mamma un cucchiaio pulito, mi faceva aprire la bocca, mi
infilava in bocca il manico del cucchiaio per bloccare la lingua e spalancare
le mascelle onde poter vedere meglio la gola e alla fine, scorgendovi evidente
arrossamento di tonsille e in qualche caso addirittura delle placche,
sentenziava la diagnosi di tonsillite. Da lì ad estrarre dalla borsa il blocco
per le ricette e scrivervi sopra il nome dell'antibiotico da farmi iniettare,
il passo era breve, molto breve, brevissimo.
Passata in giudicato la sentenza e recatasi in farmacia a prendere le fiale, la
mamma andava a chiamare la signora che nel condominio "sapeva fare le
punture".
Dicasi "signora che sa fare le punture" individuo umano di sesso
femminile che abbia acquisito conoscenza e pratica di fare le iniezioni senza
essere infermiera.
Lungo il corso della mia infanzia, ebbi due "signore che sapevano fare le
punture": dapprima la signora Caterina Mignacco, che abitava al piano di
sotto a quello dov'era l'alloggio dei miei genitori, e poi la signora Giuse
Buzzetti, che invece abitava al nostro stesso piano. In seguito, le iniezioni
me le fece la signorina Rita (Ritìn) Sobrà, la quale però era infermiera di
professione. Da adulto, invece, ad avere l'ambito onore di bucherellarmi il
sederino fu la signora Rita Contino ma ciò è stato in un'epoca in cui il farmi
fare le iniezioni non mi procurava e non mi procura più alcun patema.
Già, perché il mio rapporto con aghi e siringhe, com'è logico che sia per
tutti, si è evoluto col passare degli anni.
Da piccolino ero letteralmente terrorizzato dalle iniezioni. Non solo: cercavo
in tutti i modi di impedirle: piangevo, urlavo, mi dimenavo, scalciavo.
Il primo ricordo che ho delle punture risale a quando i miei genitori mi
portarono a fare un vaccino in un ambulatorio pubblico. Dovrò avere avuto sui
quattro anni d'età. Mi rivedo piangente e tutto intenzionato a non stare fermo
ma non ricordo altro di quel giorno. Mia madre mi avrebbe poi raccontato che la
malcapitata infermiera incaricata di inocularmi il vaccino fece le proverbiali
fatiche di Ercole per riuscire infine a farmi la puntura.
A farne le spese fu la signora Mignacco, la prima che mi fece le punture a
domicilio, proprio perché coprì tutta la fase dei miei strazianti tentativi di
ribellione.
Il riuscire a farmi un'iniezione comportava all'epoca un sofisticato gioco di
squadra. Dopo che i miei genitori con tutte le blandizie del caso erano
riusciti a farmi mettere a pancia in già e a scoprirmi il culetto, arrivava la
signora Mignacco con lo strumento di tortura in mano.
Allora mia madre mi placcava letteralmente premendomi sulle spalle, mentre mio
padre mi teneva lunghe e ferme le gambe impugnando le mie caviglie con le mani.
E nonostante fossi piccolo e pure gracile di costituzione, nemmeno così il
risultato era garantito, tant'è che spesso la signora Mignacco riusciva ad
infilarmi l'ago della siringa in un gluteo solo dopo due o tre punture.
A questo quadro, già drammatico di per sé, si aggiungeva il particolare che il
contenuto della siringa doveva essere inoculato senza perdere troppo tempo,
altrimenti il liquido si sarebbe solidificato e l'iniezione non avrebbe potuto
essere fatta. In sostanza, la piccola belva in gabbia che ero io in quei
momenti, pur con tutta la gentilezza possibile, andava punturata senza indugi e
quindi con una certa dose di decisione.
Ebbi questi atteggiamenti da resistenza disperata nei confronti delle iniezioni
fino all'età di otto anni circa, quando un episodio cambiò il mio modo di
affrontare sì dure prove di vita, anche se non diminuì minimamente la mia paura
verso aghi e siringhe.
I miei genitori e quelli di una mia compagna di classe, Cristina, si erano
messi d'accordo per portarci insieme dal pediatra per farci fare la
vaccinazione antitetanica e antidifterica.
Arrivati che fummo nello suo studio, il dott. Piccato ci fece entrare insieme,
con le nostre rispettive mamme, e chiese: "A chi faccio il vaccino per
primo?".
Vedendo che Cristina cominciava già a piagnucolare, ebbi l'intuizione:
offrendomi volontario, potevo prendere due piccioni con una fava ossia farmi
vedere coraggioso davanti a lei e levarmi il fastidio, anzi, la paura per l'iniezione
il prima possibile.
E così feci. Dissi che volevo andare io. Il pediatra, naturalmente, non mi fece
alcun male, appena un pizzicotto (quel tipo di vaccino, d'altronde, ha un
liquido assolutamente indolore) e mi liberai subito dal patema.
Dopo di che, provai una sadica e non
preventivata soddisfazione: vedere Cristina disperarsi nell'affrontare il
supplizio, mentre io bello rilassato già sospiravo di sollievo.
Da quel giorno non ho più fatto i capricci per gli aghi e le siringhe, pur
continuando ad avere una fifa boia. Ma l'orgoglio di non farmi vedere vigliacco
e piagnone ebbe la meglio sulla paura per le punture.
Del resto, stavo imparando a distinguere i vari tipi di iniezioni e,
genericamente, di punture in indolori e in dolorose.
Fra le punture buone c'erano i vaccini e i prelievi di sangue, e smisi di
averne paura.
Fra quelle cattive, quelle cioè che facevano un male pazzesco, c'erano le
iniezioni di penicillina.
Con queste ultime ebbi parecchi contatti. Non solo mi venivano fatte per
curarmi le tonsilliti ma anche mi venivano propinate a scopo
"preventivo". E' che, a sei anni d'età, accampando l'assurda scusa di
un rischio nell'anestesia dovuto alla mia spasticità (panzana vera e propria,
visto che in quegli anni andavo a farmi togliere i dentini da latte in narcosi
con etere e non ci fu mai alcuna complicazione), non vollero operarmi di
tonsillectomia e così il pediatra, basandosi sulle conoscenze scientifiche
dell'epoca, mi prescrisse una profilassi di regolari iniezioni di penicillina
ad ampio spettro, dapprima una ogni quindici giorni, poi una al mese (quando i
valori del Titolo ASLO tornarono nella norma) e infine una ogni tre mesi:
l'ultima che feci, ormai tredicenne, fu nel luglio del 1973. Oggi un medico che
prescrivesse antibiotici come profilassi verrebbe radiato dall'albo
professionale ma allora si credeva che potessero essere efficaci. Ma ovviamente
non lo erano, tant'è vero che, fino alla fine delle Elementari, le tonsilliti
continuarono a perseguitarmi, con ulteriori e più numerose iniezioni.
Già, perché quando il pediatra veniva chiamato e mi trovava febbricitante e con
la gola arrossata, il minimo che prescriveva erano due punture al giorno per
tre giorni, poi ripassava a visitarmi e, se ero migliorato, mi attendevano
altri tre-quattro giorni di una iniezione al dì.
Nel caso del giorno in cui il mio sederino doveva suo malgrado concedere il
bis, gli orari della bucherellatura erano collocati alla mattina dopo colazione
e alla sera dopo cena.
La mattina, grazie all'essere io ancora mezzo addormentato, la tensione per
l'imminente tortura era quasi nulla: giusto appena il tempo di svegliarmi,
ingurgitare il tè con due biscotti e mi ritrovavo col culetto per aria e la
signora Mignacco o la signora Buzzetti in camera mia con la siringa in mano.
Tiravo un sospiro di sollievo: era andata anche questa! Poi, fino a pranzo,
filava tutto liscio e senza ansia. Dopo pranzo, invece, iniziava ad assalirmi
l'apprensione per l'iniezione serale, paura che cresceva man mano che passavano
le ore e toccava il suo fatale approdo quando il suono del campanello di casa
annunciava l'arrivo della "signora che sapeva fare le punture".
Secondo giornaliero sospiro di sollievo e poi, una volta guardata un po' di tv,
a nanna tranquillo e beato. Stranamente, le iniezioni non popolarono mai i
sogni delle mie notti da malatino.
I periodi delle tonsilliti avevano almeno un vantaggio per ciò che concerneva
la pratica bucherellatoria: ero a letto in camera mia e quindi non assistevo
alla preparazione della siringa.
Cosa che invece avveniva per le iniezioni della "profilassi"
anti-tonsilliti.
Di solito, mia madre sceglieva il sabato pomeriggio come giorno
dell''esecuzione. "Così, - diceva a parenti e conoscenti, - la domenica
non va a scuola e ha il tempo di riprendersi."
Luogo dell'esecuzione era il tinello, con l'annesso cucinino per far bollire
l'ago e la siringa, perché all'epoca non erano ancora in commercio le siringhe
monouso sterilizzate.
E così, una volta entrata la "signora che sapeva fare le punture",
iniziava il sadico rituale.
L'aguzzina prendeva la scatoletta metallica che conteneva ago, siringa e
stantuffo, ne sollevava la barra che la chiudeva e la girava all'infuori
affinché essa fungesse da manico, andava nel cucinino, vi versava dell'acqua corrente
quasi fino all'orlo e la metteva a bollire.
Quando l'acqua bolliva, spegneva il gas e portava nel tinello la scatola,
depositandola su un asciugamano su cui mia madre aveva già depositato l'alcool,
il cotone, la fiala dell'acqua distillata e la botticina della polvere
dell'antibiotico nonché il seghetto per spezzare la fiala.
Dopo di che, la "signora che sapeva fare le punture" lasciava passare
un paio di minuti (per lasciare raffreddare un po' l'acqua che sommergeva l'ago
e la siringa) e poi passava alla fase 2 della preparazione.
Immergeva i polpastrelli nell'acqua per prendere siringa e stantuffo. A volte
succedeva che l'acqua fosse ancora troppo calda e lei ritraesse di scatto le
dita scottate. Mai abbastanza per impedirle per quel giorno di farmi l'iniezione.
Con fare calmo e sicuro, la signora punturiera infilava lo stantuffo nella
siringa e lo faceva andare su e giù due o tre volte per verificarne il
funzionamento. Poi infilava l'ago sopra la siringa, uno di quegli aghi spessi
che nulla avrebbero avuto a che fare con quelli sottili e indolori delle
odierne siringhe monouso.
Completato l'assemblaggio dell'arma impropria, passava ad immettervi il
farmaco. Questa operazione constava di cinque passi:
1) con un seghetto penetrava orizzontalmente fino a metà della fialetta
dell'acqua distillata, che poi spezzava con una secca pressione delle dita; non
sempre ci riusciva al primo tentativo;
2) introduceva l'ago nella fiala spezzata e ne aspirava in contenuto nella
siringa;
3) infilava l'ago nel cappuccio di gomma
nella boccettina contenente la polvere dell'antibiotico e vi iniettava l'acqua
distillata;
4) scuoteva la boccettina con la stessa controllata energia con cui un barman
agita lo shaker contenente un cocktail da preparare; a questo punto mia madre
mi diceva di tirarmi giù i pantaloni, sdraiarmi a pancia in giù sul sofà,
scoprire il culetto ed espormi alla condizione di bersaglio umano;
5) la "signora sapeva fare le punture", verificato che la polvere
dell'antibiotico si fosse sciolta e perfettamente amalgamata con l'acqua
distillata, aspirava il tutto nella siringa, la picchiettava con un'unghia per
controllare che dentro non ci fossero bolle d'aria, spingeva leggermente lo
stantuffo per far uscire un po' di farmaco dall'ago e poi, al termine di tutte
queste azioni che ci si impiega più tempo a descrivere che a fare, era pronta a
colpirmi con millimetrica precisione.
Dopo di che, si avvicinava al sofà, si chinava su di me e dopo avermi strofinato
un po' con un batuffolo di cotone imbevuto d'alcool la chiappa designata, pic!,
mi faceva l'iniezione.
Una volta finita la tortura, riprendeva in mano il cotone e mi massaggiava un
po' la parte anatomica sì crudelmente ferita. Operazione di sollievo che, dopo
alcuni secondi, veniva continuata da mia madre, che si faceva allo scopo
consegnare il batuffolo imbevuto d'alcool.
E, anche se dopo la famosa antitetanica non strillavo più e non opponevo più
resistenza (mia madre, comunque, a letto malato o sul sofà in buona salute che
fossi, durante le iniezioni per prudenza continuava a chinarsi su di me per
placcarmi le spalle), dopo la paura delle ore precedenti e il male che il
liquido dell'iniezione mi aveva procurato, dovevo pure, per educazione, dire
grazie alla sadica "signora che sapeva fare le punture"!
La quale divenne per me fonte di terrificanti ossessioni. Nei due giorni
precedenti ogni iniezione "programmata" fantasticavo su tutte le
possibili malattie o incidenti che potesse avere per essere impossibilitata a
punturarmi. A mio onore va riconosciuto che non giunsi mai ad augurarle di
morire.
Naturalmente le provvidenziali influente e gli altrettanto provvidenziali
incidenti stradali non si verificavano mai. Solo una volta ... ero ormai
rassegnato all'iniezione, suonò il campanello di casa e la signora Mignacco,
con le dita fasciate ci disse che aveva un problema dermatologico e non poteva
farmi la puntura. Quando lasciò il nostro appartamento, mi prese un'esultanza
paragonabile a quella di don Rodrigo quando seppe che Renzo era ricercato come
sedizioso e a quella che prende il tipo che si mette a fare bidibodibù nella
pubblicità della Ondaflex.
Per fortuna, l'augurare malattie e infortuni vari non solo porta ai risultati
sperati ma, come si suol dire, allunga la vita. Come egregiamente dimostra la
signora Mignacco, che nel momento in qui scrivo questo post ha raggiunto la
veneranda età di 96 anni.
Comunque, tale era la mia paura della "signora che sapeva fare le
punture" che, quando veniva inaspettatamente a farci visita (il che
accadeva spesso, visto che eravamo in ottimi rapporti con lei e in quegli anni
tra vicini di casa ci si frequentava molto di più che non oggi), mi veniva il
terrore che fosse venuta a farmi un'iniezione di cui i miei genitori non mi
avevano informato e, se ero passato inosservato, correvo a nascondermi in tutti
meandri possibili e immaginabili del nostro piccolo appartamento.
Una volta avevo trovato una via di fuga verso il bagno, mi ci chiusi dentro e
là rimasi per più di due ore: la durata della visita della signora Mignacco.
Con la signora Buzzetti le cose andarono un po' meglio. Ero un po' più
grandicello, sui dieci anni d'età, e dominavo meglio la paura delle punture.
Inoltre, era più decisa nell'infilare l'ago nel sederino, forse perché aveva
imparato in famiglia l'arte delle iniezioni dal padre, che era stato un
illustre medico, e dai fratelli, entrambi medici. Fatto sta che, invece di
infilare l'ago con delicatezza, usava la siringa come una freccetta da lanciare
con forza contro il bersaglio rotondo e spesso un colpo secco fa meno male di
una puntura meno veloce.
Cosa succede quando si ha bisogno di farsi fare un'iniezione in vacanza e non
si può ricorrere alla "signora che sa fare le punture" o a
un'infermiera professionale? Si cerca un sostituto, naturalmente.
A Villa Minozzo, nel Reggiano, a farmi l'iniezione mensile di antibiotico era
la zia Tilde.
Di tutte le zie, paterne e materne, era la più simpatica, energica ma anche
ironica, sempre con la battuta pronta.
E, fra tutte le "signore che sapevano fare le punture", era quella
che le faceva meglio, addirittura meglio, come il mio sederino sperimentò anni
dopo, di tante infermiere di professione. Sapeva unire, ed era qualità rara,
decisione e delicatezza nell'iniettare i farmaci.
Fatto sta che, simpatia unita al fatto che la zia Tilde non mi faceva male (a
parte il bruciore del liquido, ovviamente non imputabile a lei), vissi le mie
iniezioni "vacanziere" con molta minore apprensione di quelle
"ordinarie".
Le quali ultime, anzi, per meglio dire, l'attesa delle quali ultime mi
provocavano spesso un effetto che, negli anni della mia infanzia, era
tutt'altro che negativo.
Alle Elementari soffrivo di perenne stitichezza, causata congiuntamente dallo
stress di vivere in un ambiente pessimo com'era la scuola che allora frequentavo
e dal pessimo livello della mensa scolastica.
Or bene, la paura fa 90 e, nel caso della paura delle iniezioni, fa anche
cagarella. E così i giorni in cui attendevo le punture erano quelli in cui
andavo di corpo con grande facilità, anzi, con perfino eccessiva facilità.
Come si suol dire, non tutto il male viene per nuocere.
Ciò dimostra inoltre che alcuni detti popolari sono tutt'altro che privi di
fondamento scientifico. Se per la paura non solo si compiono atti vili ma si
viene colpiti da diarrea, ecco spiegata l'espressione: "Cagarsi
addosso".
Fine agosto 1973. Era trascorso appena un mese da quello che poi si sarebbe
rivelato l'ultimo "richiamo" della profilassi con antibiotici.
Quei giorni segnarono una positiva evoluzione nel mio rapporto con le
iniezioni, nel senso che l'esperienza che vissi mi fecero passare
definitivamente la paura delle punture.
Al ritorno dalle vacanze estive venni colpito da un virus influenzale. Ne
parlarono anche i telegiornali: non del fatto che me ne fossi ammalato io,
naturalmente, ma perché era quanto meno insolito che un'epidemia di influenza
scoppiasse d'estate.
Da circa un anno ero passato dal pediatra, dottor Piccato, al medico di
famiglia, dottor Leonardis.
Quella fu la prima volta che venne a visitarmi a casa. Diagnosticò un influenza
e mi prescrisse l'Amplital, un antibiotico da prendere per bocca.
Constatai con piacere la novità: niente più iniezioni!
Ma come mai il pediatra mi aveva prescritto per anni le punture quando erano a
disposizione dei farmaci da somministrare per via orale?! E' proprio vero che
al sadismo umano non c'è limite.
La mia soddisfazione ebbe però breve durata. Nel senso che non riuscivo a
trattenere nello stomaco il medicinale: mia madre scioglieva il granulato
nell'acqua, me lo dava da bere e dopo pochi minuti lo rimettevo.
Provò anche a farmi mangiare un boccone di pane o un biscotto per rendere
tollerabile l'antibiotico ma il risultato non cambiava e finiva tutto con una
bella (???) vomitata.
Il giorno dopo, poiché la febbre non diminuiva e l'antibiotico non riuscivo a
reggerlo, venne di nuovo chiamato il medico e il dott. Leonardis disse:
"Va be', gli avevo prescritto l'Amplital per via orale per evitargli il
fastidio delle iniezioni ma, visto che non lo tollera, glielo prescrivo in
fiale da iniettare".
Probabilmente fu a causa del periodo estivo che cambiai "signora che
sapeva fare le punture", essendo sia la signora Mignacco che la signora Buzzetti
fuori città. Anzi, feci un avanzamento, visto che stavvolta a farmi le
iniezioni fu un'infermiera professionale, la signorina ("tota", in
piemontese) Rita Sobrà, che abitava anch'ella nel condominio insieme alla
sorella Bianca, al cognato, l'indimenticabile signor Ettore Gennaro, e al
nipote Pierluigi, che di lì a qualche mese si sarebbe laureato in Medicina a
pieni voti.
La "tota" Ritìn lavorava come infermiera all'Ospedale "San Luigi
Gonzaga" di Orbassano. Per qualche anno sarebbe toccato a lei
bucherellarmi il sederino all'occorrenza, sebbene non avrei avuto bisogno tante
volte di farmi fare delle iniezioni.
La svolta nel mio rapporto con le punture non avvenne tanto perché la signorina
Sobrà le faceva meglio delle precedenti "signore che sapevano fare le
punture": naturalmente le faceva bene, anche se non come la zia Tilde, ma
né la signora Mignacco né la signora Buzzetti le facevano male. E nemmeno
avvenne, la svolta, perché le fiale di Amplital contenevano un liquido meno
doloroso dei precedenti antibiotici.
No. La svolta avvenne perché il pomeriggio giorno dopo l'inizio delle iniezioni
stetti talmente male (penso che mi venne una specie di colica ma facevo anche
fatica a respirare) che implorai i miei genitori di andare a chiamare
Ritìn per farmi una puntura in più rispetto alla sola iniezione mattutina
prescrittami dal dottor Leonardis. E, per chiedere che mi facessero una puntura
in più, dovevo stare davvero male!
I miei accondiscesero ai miei desideri, la signorina Sobrà accondiscese alla
richiesta dei miei genitori e mi fece la seconda iniezione. Mio padre andò poi
dal medico di famiglia e il dottor Leonardis cazziò tutti quanti, dicendo che
non avrebbero dovuto farmi fare la seconda iniezione, del tutto inutile, e che avrebbero
dovuto aspettare che il farmaco facesse il suo effetto assecondando il decorso
naturale della malattia.
Mi ripresi completamente dopo qualche giorno ma compresi finalmente che le
iniezioni servono per far stare bene le persone. E, quando capisci che una
metodica terapeutica è utile, lo stesso minimo dolore che essa può comportare
diventa sopportabilissimo.
Tant'è vero che durante quella fatidica iniezione "non autorizzata"
non sentii alcun male.
Fin qui ho disquisito del tipo di
iniezioni di cui avevo paura, quella intramuscolare nel sedere.
Quanto alla puntura in vena, quella dei prelievi di sangue per intenderci, non
ne ebbi quasi mai paura.
Il primo prelievo che feci fu a sei anni d'età. Incrociai un bambino che stava
uscendo dalla "sala salassi" e nel vederlo sudato e paonazzo mi venne
paura. Mi sedetti, stesi il braccio e il medico (mi pare di ricordare che
all'epoca i prelievi di sangue venivano effettuati solo dai medici) mi mise il
laccio emostatico. Quando sentii l'ago pungermi, iniziai a frignare; mia madre
iniziò a consolarmi dicendomi: "Coraggio, a pranzo ti faccio una bella
bistecca, così rimpiazzi il sangue che il dottore ti prende"; e il medico
(all'epoca mi pare di ricordare che i prelievi li facessero solo i medici)
confermò: "Sì, una volta a casa mangerai una bella bistecca); così smisi
di piagnucolare, anche perché non provai alcun dolore. Per quelli successivi,
non provai più né paura né stress.
Poi, da adulto, sperimentai anche le iniezioni nel braccio,
quelle dei vaccini antinfluenzali per intenderci, anch'esse del tutto indolori.
Ma in ogni caso non avevo più alcun terrore delle punture.