domenica 22 novembre 2015

Per una versione umoristica de I Promessi Sposi: prolegomeni del progetto

Il titolo di questo post, ricalcando i titoli di articoli su riviste scientifiche nei quali gli autori spiegano i perché e i percome di un percorso di ricerca che si accingono a intraprendere, è volutamente autoironico nella sua ampollosità.
La satira utilizza anche questo strumento: ingrandire ed enfatizzare l'importanza di una cosa in modo talmente accentuato da far capire che in realtà si vuole ironizzare su quella cosa.

I promessi sposi di Alessandro Manzoni entrarono per la prima volta nella mia vita con lo sceneggiato televisivo della seconda metà degli anni '60 del XX secolo girato da Sandro Bolchi e interpretato da fior di attori, che rividi, con ben maggiore consapevolezza, nel 1974.
Era estate e, nell'anno scolastico appena conclusosi, avevo fatto il mio primo incontro col capolavoro manzoniano sotto forma di alcuni brani tratti da esso che facevano parte del programma di Italiano di Terza Media.
Ricordo un'interrogazione di Antologia, che mi andò particolarmente bene perché seppi spiegare la conversione dell'Innominato in un modo che piacque alla prof.ssa Aggeri. In realtà, mi ero ricordato tutti i punti da lei spiegati nelle lezioni precedenti e la prof.ssa Aggeri gradiva molto quanto, alle interrogazioni, gli studenti si rifacevano a quello che ella aveva detto nel corso delle sue lezioni.

Feci un'esperienza più approfondita con I promessi sposi nei due anni successivi, cioè in Prima e Seconda Superiore. Non sorprenda il fatto che nel biennio si studiasse un capolavoro della letteratura italiana del XIX secolo, mentre nel triennio successivo il programma di Lettere era incentrato sulla Comoedia di Dante. Non vi era alcunché di cronologico in quella scelta ma solo il retaggio di programmi scolastici ormai datati che includevano I promessi sposi come esempio di lingua italiana e la Divina Commedia come esempio di poesia. Ovvio che l'italiano usato dal Manzoni fosse da tempo superato ma se non altro era un'occasione per conoscerne l'opera più importante e i docenti intendevano il loro insegnamento proprio in quella direzione.
La prof.ssa Bertola ci fece tenere un quaderno in cui, per ogni capitolo letto, dovevamo annotare il riassunto, le frasi più importanti, le ironie manzoniane che vi avevamo scorto e le nostre considerazioni.
Proprio quel quaderno fu la causa delle mie prime nottate passate sui libri. A pochi giorni dalla fine della Prima, la prof.ssa Bertola ci disse: "Bene, dopo il ponte del Primo Maggio voglio vedere i vostri quaderni su I promessi sposi". Anch'io, come quasi tutti i miei compagni di classe, col quaderno mi ero fermato ai primi capitoli del 18 che facevano parte del programma di Prima. Nei pochi giorni di quel ponte, lessi, riassunsi e "appuntai" una dozzina di capitoli, studiando indefessamente dalla mattina presto alla sera inoltrata. Ne valse però la pena: la prof.ssa Bertola annotò un "Bravissimo" in calce ai miei appunti sul diciottesimo capitolo.
Pleonastico aggiungere, almeno per chi mi conosce, che la parte a me più gradita di quel lavoro fu la ricerca delle ironie manzoniane, da don Abbondio che se ne tornava "bel bello" dalla sua passeggiata, ai bravi che non erano"morti nemmeno per quello" (l'ennesima grida emanata contro di loro), ai soffi del conte zio.

Proprio in quel biennio ricevetti due input, che poi, combinati insieme, mi fornirono l'ispirazione per quello che scrissi parecchi anni dopo.
Il primo fu un suggerimento che mi diede la prof.ssa Bertola: sapendo che a me piacevano molto le cose che fanno ridere, mi consigliò di leggere una parodia del capolavoro manzoniano, I promessi sposi made in U.S.A. Non ebbi modo di seguire quel suggerimento ma intanto lo spunto mi era stato dato e lo avevo immagazzinato nel mio inconscio.
Il secondo input fu una specie di gioco che alcune mie compagne di classe fecero una mattina in attesa di un'interrogazione su I promessi sposi: assegnarono ad ognuno di noi il personaggio che più ci assomigliava, per pregi e, soprattutto, per difetti. A distanza di tanti anni, me ne ricordo solo due: io divenni Fra' Cristoforo, mentre Richetto venne ben più beffardamente identificato come don Abbondio. Ho un vago sospetto su chi potesse essere etichettato come Renzo e chi come Lucia (erano i nostri primi due compagni di classe a "filare" insieme) e su chi venisse considerato il nostro don Rodrigo ma, in assenza di evidenze mnemoniche ormai svanite, preferisco prudentemente tacere.

Passarono gli anni. Un giorno, nella software house dove lavoravo il discorso cadde su I promessi sposi e qualcuno iniziò lo stesso giochetto di attribuire i ruoli dei vari personaggi ai vari colleghi e, soprattutto, ehm, dirigenti.
Fin dai primi mesi della mia assunzione avevo preso l'abitudine di scrivere simpatiche cosette o su argomenti di satira in generale o su situazioni che riguardavano fatti e persone dell'azienda di cui ero dipendente.
Ricordo una rima che feci dopo la nomina a vicepresidente di uno laureato in ingegneria: "Qui si scavan le miniere / con a capo l'ingegnere". Lo giuro: quando la scrissi, non sapevo (me lo dissero dopo) che era specializzato in ingegneria mineraria.
Tornando a I promessi sposi, venni folgorato dal giochino personaggi-persone reali e iniziai a scrivere una versione del capolavoro manzoniano tutta tagliata su misura per l'azienda dove lavoravo, non solo nell'assegnare i vari personaggi a questo e a quel collega o dirigente ma anche nell'immettervi vicende e, perché no?, gossip attinenti alla realtà di quella software house.
Perfino la peste, che pure personaggio non è, divenne in quello scritto la peste sgobbonica (anziché bubbonica), forma di malattia mortale che colpiva i dipendenti facendoli lavorare fino a morirne.
Quella mia versione venne da me intitolata I promessi sposi informatici.
Non sta a me giudicare le qualità letterarie di quello scritto. Mi fece però piacere quando alcuni colleghi, a cui l'avevo dato stampato, mi dissero di averlo portato a casa, di averne iniziato la lettura e di esserne stati talmente presi da aver fatto le ore piccole per finire di leggerlo, spanciandosi dalle risate. Certo, alcune situazioni possono far ridere solo chi le conosce da diretto spettatore ma per un autore umoristico sentirsi dire da un lettore che ha riso dall'inizio alla fine è il più grande complimento che possa ricevere.

Qualche anno dopo, rifeci la versione umoristica adattandola a persone e cose dell'associazione culturale Il cerchio aperto, di cui facevo parte. E mietendo anche lì parecchie risate.
Forse fu un po' meno perfida rispetto a quella "lavorativa", perché fra gli amici di allora non ebbi modo di riscontrare comportamenti cattivi o meschini. Ma un po' di sale ce lo misi anche lì.

Ora sento che potrei riprendere il progetto per la terza volta, anzi, mi sto già preparando predisponendo un testo di base da cui partire. Sono solo indeciso se riscrivere, ampliandolo, il testo de I promessi sposi informatici oppure se scrivere un romanzo umoristico ex novo, senza alcun riferimento a quella versione. Come avrebbe detto lo stesso Manzoni: "Ai posteri l'ardua sentenza".

sabato 7 novembre 2015

Il biennio del "Tumalin"

Non so chi, in Prima Superiore, iniziò a chiamare Antonio col soprannome di Tumalin. Di sicuro so che Antonio iniziò subito ad incazzarsi come una bestia, reagendo in modo veemente (sia pure mai violento) ogni volta che si sentiva chiamare con quel nomignolo in qualche modo simile al suo cognome.
Che poi, in sé, quel soprannome non era nemmeno offensivo, essendo un vezzeggiativo piemontese di Bartolomeo.
Fatto sta che, come in ogni situazione oggetto di lazzi, più Antonio si imbufaliva e più di frequente in classe lo chiamavano Tumalin.
Per alcuni di noi, soprattutto maschi (le ragazze, si sa, maturano prima degli uomini e a 15 anni d'età non hanno più tanta propensione ad abbandonarsi a celie goliardiche), quel soprannome divenne una sorta di allegra ossessione.
In ogni parola simile trovavamo dei riferimenti a Tumalin e il sentirla o leggerla diventava motivo di ilarità: l'aggettivo "tumido"; il proverbio "dire Roma per Toma"; il protagonista di una serie indiana di telefilm per ragazzi andata in onda nella stagione 1974-75, Tomai; l'orango tang divenne, nel nostro gergo, l'orango tuma; etc. Ogni assonanza con Tumalin era fonte di risa e naturalmente di ripetizione davanti al diretto interessato, che reagiva come ho sopra descritto.
Ossessione che investì anche la versione onomatopeica del suono della linea telefonica libera, "tu-tuuu, tu-tuuu". Alcuni di noi, me compreso, a volte di pomeriggio a casa alzavamo la cornetta solo per sentire "tu-tuuu, tu-tuuu" e farci due risate.
E ci mettemmo pure a storpiare vari nomi per rincarare la dose. La Nutella, ad esempio, divenne Tumella. Vedrete fra un po' quale gaffe micidiale ebbe origine dalla "Tumella".
Da Tumalin derivarono per il povero Antonio altri soprannomi: Tolomeo, ad esempio; da Tolomeo derivò Tolomeo Bifetta; da Tolomeo Bifetta derivò Bifettarola Joe. Ho ancora nella mente la memoria visiva della caricatura di Bifettarola Joe che Walter disegnò su un banco: Antonio nelle vesti di un pistolero del West, che però nelle fondine al posto delle colt aveva due banane.

Questi soprannomi affibbiati ad Antonio furono la causa di due numeri micidiali.
Ultima interrogazione di Storia in Prima. La prof.ssa Bertola dice a Michelino: "Parlami della dinastia dei Tolomei". E Michelino, pensando immediatamente al nostro "Tolomeo", invece di proferire parola viene colto da una ridarella inarrestabile.
Per un paio di minuti lo scenario fu questo: Michelino che rideva come un pazzo; la prof. che lo guardava sbigottita e non si capacitava di cosa ci fosse da ridere sui faraoni egizi di età ellenistica; Antonio che di fianco a Michelino inveiva rabbiosamente contro di lui; e noi altri che, chi più chi meno, ridevamo. Ricordo che a un certo punto, incrociai lo sguardo con Richetto, ci guardammo un attimo e poi riprendemmo a ridere, accasciandoci sui rispettivi banchi.
La situazione, comicamente imbarazzante, venne risolta dalla provvidenziale entrata in aula di un bidello, che portava una circolare del preside da leggere alle classi. Il tempo di declamarla da parte della prof.ssa Bertola e Michelino riuscì a ricomporsi, iniziando finalmente a raccontare qualcosa della benedetta dinastia dei Tolomei.

Qualche giorno prima, era stato invece Richetto a fare una gaffe che ebbe per lui conseguenze fisicamente dolorose.
Un lunedì mattina Richetto si presentò al Barocchietto con una vistosa fasciatura alla mano destra.
Nell'intervallo, io e Michelino gli chiedendo cosa si era fatto, ed egli rispose: "Sabato pomeriggio per fare merenda mi sono tagliato con un coltello mentre mi stavo preparando pane e Nutella".
Qualche minuto dopo ci raggiunge Tumalin e formula a Richetto la stessa domanda, e quest'ultimo, commettendo il lapsus meno opportuno che potesse essere, gli risponde: "Sabato pomeriggio mi sono tagliato con un coltello mentre mi preparavo pane e Tumella".
Resosi immediatamente conto della gaffe, su Richetto comparve un sorriso forzatissimo, comprensivo di digrignamento di denti per l'imbarazzo.
Contrariamente al solito, questa volta Tumalin non mostrò alcuna animosità ma, con sguardo e voce impassibili, disse: "Richetto, la mano".
A cosa si stava riferendo?
Tumalin, accessi di indignazione verbale a parte, non andava oltre con nessuno di noi, tranne che con Richetto e Michelino, ai quali, se in qualche modo mancavano di rispetto nei suoi confronti, impartiva punizioni corporali. Erano un po' succubi di lui, certo, ma nessuna di queste punizioni si avvicinò mai ad episodi di bullismo: erano solo goliardate un po' energiche, in fondo condivise spontaneamente dalle stesse "vittime".
La "tortura" della mano, in particolare, consisteva nel farsi porgere la mano dal colpevole di lesa maestà e stringergliela in modo talmente forte da fargli scricchiolare le ossa.
Ad onor del vero, quella mattina Richetto tentò una qualche difesa, cercando di spiegare a Tumalin che aveva la mano ferita, ma Antonio non volle sentire ragioni e ripeté: "Richetto, la mano".
A questo punto, invece di rifiutarsi categoricamente di dargli la mano, Richetto masochisticamente la porse a Tumalin, il quale gliela strinse energicamente.
Udibilissimo fu il grido di dolore di Richetto, non altissimo ma soffocato: il dolore lancinante gli aveva addirittura impedito di urlare forte.
Dopo di che, Tumalin se ne andò, come se niente fosse accaduto.
Non passarono più di 30 secondi che la fasciatura della mano di Richetto iniziò a colorarsi di macchie rosso scure. Sciolse la fasciatura e fu evidente a tutti i presenti che la cicatrice del taglio si era aperta e la ferita aveva ripreso a sanguinare, sia pure non in modo copioso.
A Richetto non rimase altro da fare che recarsi in bagno tamponandosi la ferita con un fazzoletto, mettere il palmo della mano sotto l'acqua per pulire la ferita e fermare la piccola emorragia, e rifarsi la fasciatura.

In Seconda, il ricorso al "Tumalin" per chiamare Antonio si diradò a poco a poco fino a scomparire a fine anno scolastico, tant'è vero che dalla Terza in poi nessuno fece più ricorso a quel soprannome.
Probabilmente fu perché, come si suol dire, un bel gioco dura poco e anche a poco a poco Antonio smise di arrabbiarsi, e allora perché infierire ancora su di lui?
Non a caso, non ricordo che si adirò quando, appunto in Seconda, il "Tumalin" ebbe la sua ultima manifestazione clamorosa, il suo canto del cigno.
Accadeva nella nostra classe che ogni tanto mettevamo in scena la parodia di qualche evento dall'ampia diffusione mediatica.
Ricordo, ad esempio, una parodia un tantino irriverente della Messa, durante la quale l'officiante Nick (attore nato, oltre che bravissimo disegnatore) iniziò l'omelia con un esilarante quanto surreale: "Figlioli, oggi è festa perché vengono a Torino gli Emerson, Lake & Palmer".
Or bene, una mattina decidemmo di fare una macchietta del telegiornale, con notizie riguardanti fatti della nostra classe. Io diedi una mano per i testi: fu un esordio in un'attività, quella del prendere per i fondelli amici e conoscenti, che anni dopo praticai a lungo negli ambienti lavorativi in cui mi trovai a guadagnarmi la pagnotta.
Individuati gli speaker, si trattò di far ricorso alla sigla del TG1, che modificammo rendendola, come dire?, cantata ed onomatopeica.
Venne fuori l'inequivocabile riferimento ad Antonio: "Tu-tu-tu Tumalin, tu-tu-tu-tu-tu ma-lin!".
Lo ammetto senza alcun imbarazzo: ancora oggi, a quasi 40 anni di distanza, quando sento la sigla musicale del TG1, mi viene da ridere pensando a Tumalin.

lunedì 2 novembre 2015

Come mi cavai fuori dai guai durante i compiti in classe

Nel film Operazione Sottoveste il tenente Nick Holden (Tony Curtis) dice al comandante Sherman (Cary Grant): "Da ragazzo ero vittima di una propaganda tendenziosa che sosteneva che i soldi non sono importanti nella vita. Poi ho scoperto che chi lo diceva i soldi li aveva e non voleva che gli altri glieli prendessero".
Parafrasando questa considerazione, io da ragazzino rimasi vittima della propaganda tendenziosa secondo cui non bisognava copiare durante i compiti in classe (oggi si chiamano "verifiche") in quanto non era onesto. Poi, vedendo che i miei compagni di classe, chi più e chi meno, copiavano tutti, mi sono chiesto: "Ma perché devo essere l'unico fesso che prende voti meno alti solo perché non si deve copiare?".
Ma procediamo con ordine.

Alle Medie Inferiori, copiai una sola volta. In Terza. In previsione dell'esame di licenza, che prevedeva la scelta fra un compito di Matematica e una relazione di Scienze, la prof.ssa Zocco ci fece fare come compito in classe una relazione di Scienze.
Io Scienze non l'ho mai digerita come materia. La relazione da scrivere, poi, si presentava come una scalata all'Everest senza bombole d'ossigeno. Mi rassegnai al dover fare di necessità virtù e mi preparai qualche bigliettino con le nozioni principali.
Per essere la prima volta, il mio battesimo del fuoco, la mia perdita della verginità, me la cavai piuttosto bene nel copiare durante il compito in classe.
Si dice che i cali di tensione quando il traguardo è vicino possono costar cari: vero.
Avevo appena finito di copiare l'ultima informazione che mi serviva quando mi cadde di mano il bigliettino da cui l'avevo attinta. E il pezzetto di carta planò sul pavimento in un punto da cui era visibilissimo dalla prof.!
Forse quella fu la prima volta in cui tirai fuori da dentro di me quel mix di intuizione e improvvisazione che viene anche chiamato istinto di sopravvivenza. Allungai un poco una gamba e misi il relativo piede sul biglietto, coprendolo del tutto.
Mancavano dieci minuti buoni alla fine dell'ora, tempo che passai in quella invero innaturale posizione e con una buona dose di ansia. Poi, quando la campanella suonò e la prof. ci invitò a consegnare la relazione, mi alzai, spingendo indietro il biglietto con la suola della scarpa, andai a consegnare la relazione e tornai al mio banco, approfittando del movimento del sedermi per chinarmi un po' di più e raccogliere il compromettente quadrato (o rettangolo, non ricordo bene) di carta. Pericolo scampato.
E risultato eccellente: avendo copiato bene (già, perché occorre anche saper copiare con intelligenza e preparazione), per quella relazione presi 9 e mezzo. E senza alcun rimorso postumo.

Alle Medie Superiori, invece, copiai ogni volta che potei. In certi casi, raggiungendo, mi si conceda l'iperbole, altissime vette di spudorata spudoratezza.
In Seconda, la prof.ssa Barra, di Chimica, decise di sostituire l'ultima interrogazione dell'anno scolastico con un compito in classe. Panico generale.
Il giorno prima della fatidica prova scritta, fra una telefonata e l'altra coi compagni di classe per chiederci a vicenda cosa cavolo dovevamo preparare, a casa scrissi su un foglio protocollo (4 pagine, dunque) tutte le formule chimiche apprese durante i precedenti mesi di lezione. Prima di iniziare, però, non so se per un eccesso di formalità o per una sorta di preveggenza, scrissi in testa alla prima pagina quello che di solito si scriveva su ogni compito in classe e cioè: data del compito in classe, cognome e nome, e la dicitura "COMPITO IN CLASSE DI" seguita dal nome della materia.
Il giorno dopo, la prof. entrò in classe e, anziché elencarci le domande a cui rispondere, ci disse: "Scrivete tutte le formule che avete imparato quest'anno".
Botta di culo galattica!
Avevo il compito già fatto. E per giunta esatto, a meno che non fossi stato così pirla da copiare a casa in modo sbagliato.
E così passai quell'ora a scrivere con calma qualcosa sul foglio "ufficiale", poi al momento di consegnare lo scritto lo sostituii con quello preparato a casa e che avevo tenuto sotto il banco e diedi quest'ultimo alla prof.
Voto altissimo, anche in questa occasione.

Voti un po' meno alti prendevo in Matematica, materia che non mi è mai andata giù.
Alle Medie Inferiori avevo rimediato la mia buona dose di insufficienze. Alle Medie Superiori non mi capitò mai ma la "Mate" continuò a non andarmi giù. E per cavarmela non esitai a prendere le vie traverse.
In Seconda, con la severissima prof.ssa Luciano, durante un compito in classe andai nel pallone su un'equazione. Poi, eureka!, ebbi l'illuminazione, non buddista ma di salvataggio. Afferrai che la prof. ci aveva dettato l'equazione non da appunti da lei preparati ma da un manuale di Algebra che non era comunque il nostro libro di testo.
Ora, ehm, nei libri di testo accanto ad ogni equazione era riportato anche il risultato. E dal risultato si può a ritroso risalire al modo di risolverla o, quanto meno, si può sapere se la si è svolta correttamente oppure no ...
Allora mi alzai, andai alla cattedra e, con la faccia tosta di un attore consumato, dissi alla prof.: "Scusi, ho paura di aver scritto male il testo di un'equazione quando Lei l'ha dettato. Posso controllare?".
La prof.ssa Luciano, che pure era difficilissimo infinocchiare, ci cascò in pieno e mi fece visionare il manuale da cui aveva pescato gli esercizi da farci svolgere. Io controllai l'equazione incriminata, facendo finta di leggere con attenzione il testo quando invece mi era bastato vederne il risultato, poi tornai al mio banco.
In effetti, detto risultato non coincideva con quello a cui ero giunto io e così, andando a ritroso, riuscii a identificare l'errore e ad arrivare al risultato giusto.

L'anno successivo la prof.ssa Luciano stette a casa in maternità e al suo posto venne una giovane supplente alquanto impreparata e fannullona. La soprannominammo Ceccé, perché, non riuscendo a togliersi la pronuncia della Sicilia, da cui proveniva, ogni volta che nello spiegare un esempio doveva leggere due volte di fila il numero 3, anziché dire "tre tre" pronunciava "ce ce".
Una volta ci portò un compito in classe corretto e col voto, e come da consuetudine ci distribuii i nostri elaborati affinché potessimo visionarli.
Con mio sommo sdegno, mi accorsi che mi aveva dato 7-. Mi arrabbiai non per il voto in sé ma perché Tumalin e Richetto avevano preso 7+, pur avendo copiato esattamente nello stesso modo in cui l'avevo fatto io! Vissi la cosa come una profonda ingiustizia.
Andare a protestare sarebbe stato inutile. Oltretutto, mica potevo motivare la mia contestazione con l'avere copiato, ehm, in fotocopia con due miei compagni di classe che avevano avuto mezzo voto di più.
La rabbia il più delle volte fa perdere lucidità. In quella occasione, però, dovette suggerirmi di comportarmi in modo razionale, evitando di fare scenate inutili e potenzialmente controproducenti, e dandomi quella calma in cui cercare la soluzione.
Che di lì a un paio di minuti venne. Identificatala, passai subito all'azione.
Sapendo benissimo che la prof. non solo non trascriveva mai i voti sul registro prima di distribuirci gli elaborati ma era talmente fannullona che non li trascriveva nemmeno dopo, incaricando uno di noi di prendere il malloppo degli scritti e di scrivere in vece sua i voti sul registro, prima di consegnare il mio mi feci prestare da una compagna di classe una penna rossa (il colore con cui la prof. metteva i voti sui compiti in classe) e sul "-" tracciai una lineetta verticale facendolo diventare un "+".
L'epilogo rispecchiò la fannulloneria della prof.: raccattati tutti gli scritti, porse il "faldone" a una mia compagna di classe e le ordinò di trascrivere i voti sul registro.
E così quella volta Ceccé mi diede 7+ a sua insaputa.

Ma il tiro più grande, più geniale, più straordinario che giocai, anzi, che giocammo ad un prof. per cavarci dai guai in, anzi, dopo un compito in classe venne fatto in Quinta.
Compito in classe di Tecnica, docente prof. Belotti. Esercizio da svolgere: una registrazione di partita doppia.
A fine lavoro, consegnati gli elaborati, io e Tumalin ci accorgemmo di avere completamente sbagliato il compito in classe. Non per qualche errore di calcolo ma proprio nell'impostazione del DARE e dell'AVERE: l'avevamo fatto in modo esattamente contrario a quello giusto. Si profilava un 4 sicuro.
Mentre Tumalin imprecava ad alta voce, proferendo anche frasi irripetibili, io ebbi, modestia a parte, un colpo di genio.
E subito glielo comunicai: "Senti, - gli dissi, - non tutto è perduto. Adesso riscriviamo il compito in modo giusto, tanto alla prof. che viene non gliene frega niente se non ne ascoltiamo la lezione, poi andiamo da Belotti e gli diciamo che ci siamo sbagliati e gli abbiamo consegnato la brutta copia al posto della bella".
Dovetti impiegare un po' per convincere un perplesso e titubante Tumalin ma alla fine il mio amico acconsentì a condividere con me quel tentativo.
Scrivemmo il compito correttamente, badando però ad inserire qualche piccolo errorino per non destare sospetti. Quella era una strategia che mi aveva insegnato lo stesso Tumalin: nel copiare bisogna sempre mettere qualche sbaglio di poco conto; si rinuncia magari a un mezzo voto in più ma un compito in classe senza alcun errore desta sempre l'allarme dei professori.
Una volta terminato di scrivere le nostre, ehm, belle copie, chiedemmo il permesso dalla prof. di turno per recarci nella classe dove in quel momento il Belotti stava facendo lezione.
Attento come sono a curare ogni minimo particolare, fermai Tumalin davanti alla porta di quella classe e lo condussi nei bagni, dove gli dissi di bagnarsi con un po' d'acqua i capelli (cosa che feci anch'io) per dare l'impressione di persone sudate per l'affanno di correre dal prof. per avvertirlo di un'innocente dimenticanza.
Poi raggiungemmo di nuovo la classe, bussammo, entrammo e raccontammo al Belotti la balla della brutta copia consegnata al posto della bella.
Naturalmente, ci cascò in pieno, restituendoci la vera bella copia e prendendo la falsa, pardon, posticcia bella copia. E dire che, insomma, il fatto che non uno ma due studenti avessero durante  lo stesso compito in classe consegnato la brutta copia al posto della bella avrebbe dovuto indurlo a sospettare qualcosa.
Il voto, sia per me che per Tumalin, fu un gratificante 6/7 (dal sei al sette): il prof. Belotti era un rivoluzionario egualitarista che, disconoscendo il merito degli studenti, non dava mai voti superiori al 7; dare un 8 sarebbe stato per lui opera di qualunquismo.
Comunque, l'aver rimediato un 6/7 al posto di un 4 fu impresa davvero notevole.