martedì 12 dicembre 2017

Prima delle paralimpiadi: le mie attività sportive

      Negli anni dei miei studi scolastici lo spirito paralimpico non si era ancora diffuso in Italia. In quanto disabile, le mie opportunità di fare in qualche modo sport sono state pochissime.
      Di fatto, furono limitate agli anni delle Elementari, da me frequentate in una scuola speciale, prima del mio inserimento nelle scuole pubbliche a partire dalle Medie Inferiori. Ma anche allora fu una pratica "spontanea", fra noi scolari, non certo organizzata e seguita dalle istituzioni scolastiche.
      Dopo, non feci praticamente più sport, salvo qualche partitella di pallone all'oratorio in cui i miei compagni di classe delle Medie Inferiori ogni tanto mi coinvolgevano e, qualche anno dopo, qualche partita a bocce, l'unico sport che, per via dell'assenza del contato fisico con gli avversari, la mia disabilità mi consentiva di giocare alla pari con i normodotati.

      Alla Casa del Sole, come noi chiamavamo la scuola elementare ufficialmente intitolata "Padre Antonio Gemelli", facevamo il tempo pieno: una vera rarità per la prima metà degli anni '70.
      Tre ore di lezione alla mattina, dalle  9 alle 12, impartite da maestre e maestri non particolarmente motivati e in qualche caso anche poco preparati (con la sola, lodevole eccezione, del maestro Geremia Del Grosso, mio docente in Quarta e parte della Quinta, che dovette abbandonare perché il suo non stare zitto di fronte a quanto non funzionava dava fastidio parecchio "nei piani"), dalle 9 alle 12; pranzo (con cibo di qualità scadente) dalle 12 alle 13; riposino dalle 13 alle 14; e, dalle 14 alle 16, teorica ripresa delle lezioni, che in realtà non si svolgevano mai (salvo quelle "aggiuntive" di Disegno) ed erano sostituite da svago sia per gli scolari che per i maestri, nelle aule e nei corridoi durante la stagione invernale o nei giorni di cattivo tempo, all'aria aperta in autunno e in primavera su un prato inglese che si trovava davanti all'edificio scolastico. Alle 16 ci facevano salire sugli scuolabus che ci avrebbero riportati a casa.

      La nostra attività fisica alla Casa del Sole era costituita dall'ora di ginnastica e dalle partitelle pomeridiane.
      L'ora di ginnastica non era l'equivalente dell'ora di Educazione Fisica delle scuole normali, sia perché era ginnastica riabilitativa per i nostri tipi di problemi, sia perché non la facevamo tutti insieme: a turno, ognuno di noi veniva "prelevato" dall'aula e portato nella sala di ginnastica per fare gli esercizi prescrittigli; inutile aggiungere che si perdeva l'ora di lezione che si svolgeva contemporaneamente.
      Anche le fisioterapiste che ci seguivano non erano particolarmente motivate: ci impartivano le dritte sugli esercizi da fare ma raramente ci seguivano con attenzione e quasi mai ci correggevano se facevamo dei movimenti sbagliati.
      Le uniche due eccezioni furono rappresentate da una terapista inglese, che rimase in quella scuola fino all'anno scolastico in cui frequentai la Prima, e da una argentina.
      Quest'ultima non solo ci seguiva in modo solerte ma andava oltre gli esercizi prescritti dal manuale per farcene fare anche altri, più mirati a stimolare una maggiore possibilità di vita autosufficiente; ricordo ad esempio che a me, che nel mangiare sono stato imboccato fino all'età di 13-14 anni (poi, un po' alla volta ho imparato a cavarmela da solo), faceva mettere in mano un cucchiaio e con esso dovevo provare a prendere dell'acqua da un bicchiere e portarmela alla bocca come se mangiassi un piatto di minestra; allora non ci riuscii quasi mai ma l'input mi era stato dato.
      Un capolavoro professionale di quella fisioterapista fu il riuscire a far camminare in modo autonomo un mio compagno di classe, Edgardo. Ho ancora nella memoria visiva la gioia che brillava negli occhi di Edgardo quando, nei corridoi della scuola, ci faceva vedere che si muoveva con le sue gambe, senza più l'aiuto delle stampelle.
      Superfluo aggiungere che quella signora argentina “durò” poco alla Casa del Sole: entratavi quando io ero in Terza, all’inizio della Quinta era già andata via. L’ambiente della scuola mal sopportava di trattenere quella parte di personale che voleva veramente aiutare gli alunni a diventare il più possibile autonomi nella loro vita futura.
      Fisioterapista inglese, fisioterapista argentina: già allora gli stranieri lavoravano di più e meglio di molti cittadini italiani.
      La cosa più assurda di tutte, riguardo alla fisioterapia, era la gestione di un vogatore, che era stato fatto arrivare alla Casa del Sole grazie a una donazione benefica e sistemato nella sala di ginnastica.
      Quel vogatore, almeno secondo logica, avrebbe dovuto servire per far fare agli scolari degli esercizi fisici riabilitativi; e invece no: a loro era addirittura severamente proibito usarlo. Da chi veniva usato, allora, il vogatore? Dalle terapiste per tenersi in forma!
      Io, comunque, presi ad utilizzarlo di nascosto, come silenzioso atto di ribellione alla negazione dell’uso di quell’attrezzo da ginnastica: entravo nella sala di ginnastica durante l’ora di riposo che seguiva la pausa e si impegnavo in vigorose quanto disarticolate vogate. Già allora ero fatto così: non riuscivo a vedere delle cose ingiuste senza reagire in qualche modo.

      In quegli anni lo spirito paralimpico non esisteva. Noi disabili non sono non potevamo fare sport insieme agli altri ma nemmeno fra noi si poteva praticarlo in modo organizzato.
      L'unico sport che riuscivamo a praticare, sia pure in modo spontaneo, era il calcio, erano le partitelle che facevamo dalle 14 alle 16. Alle quali partecipavano anche i maestri della scuola.

      Nelle belle giornate d’autunno e di primavera, le partitelle si svolgevano nella metà del prato inglese che era stata destinata allo scopo; se invece la pioggia o il freddo non lo consentivano, ci cimentavamo nell’arte pedatoria nei corridoi della scuola, a malapena tollerati dai maestri (che in quei casi non giocavano con noi) e dalle badanti (allora si chiamavano assistenti e si occupavano delle esigenze non scolastiche degli scolari).
      Per la verità, quando si stava all'aperto, il campo da gioco era a dir poco fantasioso: non solo entrambe le porte erano delimitate da una parte da un albero e dall’altra da un tombino ma non erano nemmeno allineate fra loro, per cui le azioni di gioco si svolgevano obliquamente; non parliamo poi della loro lunghezza, mai misurata ma che con tutta evidenza non era uguale. A volte, però, una delle due non veniva utilizzata ed era sostituita dalle classiche due maglie arrotolate o due cartelle che venivano poste in linea d’aria con l’altra porta.

      A causa della mia disabilità, io camminavo piuttosto male; quando poi si trattava di correre dietro ad un pallone, riuscivo a malapena a tenermi in equilibrio. Tant’è che, commentando il mio arrancare dietro agli altri alunni, molti dei quali erano stati colti da spasticità solo negli arti superiori e dunque potevano correre come un normodotato, maestri e badanti dicevano che era un miracolo se non cadessi ogni minuto. Ma l’agonismo e la voglia di non arrendersi non mi facevano desistere dal giocare a pallone.
      Fatto sta che non potei raccogliere grande gloria sul campo di gioco della Casa del Sole.
      Di gol veramente belli in tutti quegli anni ne feci soltanto uno. Fu quando mi trovai smarcato, ricevetti la palla e, quando il portiere mi venne incontro, lo dribblai e calciai il pallone in mezzo a due difensori che, chissà come mai, erano rimasti fermi appostati ciascuno in prossimità di un “palo” della porta.
      In quell'occasione il portiere era Fulgenzo. Egli era, calcisticamente parlando, un “montato”, non solo perché era tifoso del Milan (che in quegli anni stava sempre nelle posizioni alte della classifica del campionato di Serie A e ai vertici delle competizioni europee:  si sa, le persone tifano spesso e volentieri per le squadre vincenti ...) ma anche e soprattutto perché suo padre in gioventù aveva giocato a calcio in Serie C in una società veneta.
      Fulgenzio era un patito dei regolamenti del calcio, che voleva venissero applicati scrupolosamente anche durante le nostre partite. Una volta litigò accanitamente col maestro Del Grosso, perché aveva fatto giocare agli scolari una partitella di venti minuti per tempo. Dando letteralmente in escandescenze (probabilmente perché la sua squadra aveva perso), Fulgenzio protestò affermando che le partite di calcio dovevano durare 45 minuti per tempo, cosa alquanto ardua da attuarsi per dei ragazzini, che per giunta avevano, chi più chi meno, problemi di deambulazione; il maestro Del Grosso gli rispose ironico: "Se tu giochi per 90 minuti, muori".
      Fulgenzio bisticciò ripetutamente anche con me, a proposito di Lino. Siccome quest’ultimo soffriva di cuore e si stancava a stare in piedi, gli veniva sempre assegnato il ruolo del portiere: si sedeva per terra in mezzo alla porta e, quando gli attaccanti avversari gli arrivavano davanti, cercava di respingerne i tiri o buttandosi da una parte o alzando il braccio non menomato dall’emiparesi spastica per intercettare le palle alte. Di ciò approfittava cinicamente Fulgenzio, tirando a un’altezza alla quale Lino non poteva arrivare. Invano cercai più volte di fargli capire che quei gol andavano annullato perché Lino non poteva prendere il pallone; Fulgenzio rispondeva sempre con veemenza che l’altezza regolamentare delle porte era di due metri e venti, e che, se lui tirava più basso, il gol era valido.
      Ma non era solo a difesa di Lino che diventavo il bersaglio degli strali “regolamentari” di Fulgenzio. Alla Casa del Sole si giocava, con suo sommo sdegno dell’aspirante campione veneto, senza troppe regole e, poiché io non riuscivo a correre né bene né molto, approfittando di questo modo di giocare alla buona, il più delle volte mi piazzavo a due metri dal portiere cercando di raggiungere la palla e di calciarla in rete quando capitava nei paraggi; ero, pur con tutte le immense sproporzioni del caso, una specie di Pippo Inzaghi, con la differenza che SuperPippo scattava sempre sul filo dell’offside mentre io in fuorigioco stavo proprio quasi sempre. Il che faceva imbufalire Fulgenzio, che quasi ogni pomeriggio mi sbraitava dietro: "Tu stai sempre in fuorigioco! Tu stai sempre in fuorigioco!". La sua esasperazione giunse al punto tale che una volta, mentre ci trovavamo entrambi nella zona di centrocampo, mi rifilò da dietro, a freddo, un calcione alla caviglia (come quello che Totti ha mollato a Balotelli nella finale di Coppa Italia svoltasi il 5 maggio 2010). Passatogli il dolore, gli chiesi spiegazioni di quel calcione improvviso e Fulgenzio mi rispose piccato: "Così impari a giocare sempre in fuorigioco!". Roba non solo da cartellino rosso ma da dieci giornate di squalifica.

A parte quel bel gol che feci dopo aver dribblato il portiere, la mia “carriera” calcistica non conobbe altri acuti. Pur giocando "alla pari", cioè con bambini con difficoltà deambulatorie simili alle mie, Le reti che realizzavo non superarono mai la decina ogni anno. E dire che a pallone giocavo praticamente tutti i giorni e gli scolari calcisticamente più dotati di gol ne facevano due o tre ogni pomeriggio! Lo ammetto: come calciatore ero decisamente scarso.
      Non mancarono da parte nemmeno i “lisci” e i tiri sbagliati, ben più numerosi dei miei pochi gol.
      In una occasione feci arrabbiare il maestro Del Grosso per un suo tiro a colpo sicuro che inavvertitamente deviai con la mano perché, come al solito, si trovava vicino al portiere. Il buon maestro mi redarguì dicendomi: "Giocasti almeno nell’altra squadra, così avremmo avuto il rigore!". Superfluo aggiungere che, anche quella volta, nonostante l’azione fosse stata vanificata proprio da me con quel fallo di mano, Fulgenzio si mise a protestare perché era sempre in fuorigioco.
      Dei pochi gol che feci negli anni della Casa del Sole, due furono comici, due veri e propri gollonzi. Il primo, all’apparenza bello, fu una rete che realizzai “in spaccata” su un cross rasoterra; peccato però che colpii la palla col piede non su mia iniziativa ma perché un ragazzino mi aveva spinto alle spalle facendomi cadere con le gambe in avanti e di conseguenza facendomi sbattere violentemente il fondoschiena per terra. Il risultato fu che, anziché gioire per il gol, mi rialzai a fatica lamentandomi per il dolore che stavo provando. E venni per giunta sbeffeggiato da Lino, che commentò la realizzazione con un perfido: "Ma che brutta rete!". Bella gratitudine verso di me, che cercavo sempre di fare annullare i gol che Fulgenzio gli faceva tirando la palla ben oltre la portata delle sue braccia.
      Il secondo gol comico che feci fu un rigore, che però calciai con talmente tanta foga che dopo aver colpito il pallone persi l’equilibrio e caddi sul prato, facendo ancora in tempo a vedere bocconi la sfera superare la linea di rete.
      Né raccolsi maggior gloria quando toccava a me stare in porta: cosa che mi capitava spesso perché ero talmente scarso che i miei compagni di squadra mi mandavano tra i pali perché là avrei fatto meno danni. Si fa per dire.
      Una volta presi un gol nel modo più ridicolo possibile, cioè facendo di passare il pallone in mezzo alle gambe. E dire che non era nemmeno un tiro particolarmente forte! Ma tant’è: mi coordinai male e, quando non riuscii a prendere la palla con le mani, quest’ultima mi passò proprio in mezzo alle gambe nel più umiliante dei tunnel e finì in gol. Tutti i presenti si misero a ridere a crepapelle, compreso Roberto, il suo migliore amico di allora. La presi male e lasciai il campo da gioco imbufalito, urlando: "Offeso! Mi avete offeso!". Subito dopo, però, Roberto, che in quegli anni si era abituato a calmarmi ogni volta che mi inalberavo per qualche motivo, venne a consolarmi con una pacca sulle spalle e riuscì a far sbollirmi la rabbia, cosicché tornai in porta.
       In un’altra occasione incassai un gol in maniera ancor più imbarazzante: mi scappava la pipì e lasciai la porta sguarnita per andare a farla contro la parete interna del muro di recinzione della scuola. Risultato: proprio allora qualcuno da metà campo calciò il pallone, che andò a infilarsi nella porta da me lasciata vuota! Nemmeno il Copparoni della partita di Coppa U.E.F.A. Tyrol-Torino del marzo 1988 (col suo clamoroso liscio su calcio d’angolo di Hansi Mueller che tanto fece godere gli juventini) avrebbe rimediato una simile figuraccia.

      Legata alle partite del pomeriggio fu una vendetta che consumai a freddo nei confronti di un bambino di una classe diversa dalla mia che mi aveva picchiato.
      Era stata un’aggressione del tutto immotivata: non avevo mai fatto niente a quel bambino eppure, un pomeriggio me l'ero visto davanti e me le ero prese di santa ragione, come se il mio picchiatore fosse stato preda di un raptus improvviso.
      Apro e chiudo subito una piccola parentesi: la Casa del Sole era ufficialmente una scuola speciale per bambini spastici ma veniva anche utilizzata come luogo di parcheggio di bambini con altre problematiche, come deficit intellettivi o aggressività nelle relazioni interpersonali. Di fatto, quando non si sapeva dove "piazzare" un bambino "difficile", lo si mandava alla Casa del Sole. Con grave danno di istruzione e di riabilitazione per tutti gli scolari, perché metodi didattici e riabilitativi dovevano essere tarati su un minimo comun denominatore che inevitabilmente comportava vistose lacune nell'offerta scolastica sia per i bambini spastici che per quelli con altre problematiche.
      Tornando a quell'episodio, in precedenza avevo sempre preso le botte limitandomi a difendermi o a restituirle al momento della lite o dell’aggressione e non mi era concesso vendette di sorta. Quella volta, invece, forse perché le avevo prese senza alcuna ragione o forse perché ciò rappresentava la goccia che faceva traboccare il vaso, decisi che il manesco non l’avrebbe passata liscia.
      Il giorno dopo, dunque, quando iniziò la partitella pomeridiana, mi disinteressai completamente del gioco: il mio obiettivo era raggiungere quel bambino e suonargliele. Chi dall’alto di una tribuna avesse potuto assistere alla scena e fosse stato a conoscenza delle mie intenzioni avrebbe notato una doppia gara in quel teatro di gioco: gli altri bambini correvano dietro al pallone e io inseguivo l’oggetto della mia vendetta.
      Con senno del poi e in particolare di quello che avvenne in una partita di Serie A Milan-Juventus del campionato 1978-79, sembravo il Tardelli di quel match, quando, al fischio d’inizio, senza guardare dove andava la palla il centrocampista bianconero piombò subito su Rivera e fece un fallaccio che gli costò l’espulsione.
      Io, naturalmente, impiegai ben più dei trenta secondi che furono sufficienti al grande centrocampista bianconero per stendere l’Abatino. Ma dopo alcuni minuti riuscii finalmente a raggiungere il mio bersaglio ed a rifilargli un violento pugno in faccia; e con piena soddisfazione.
      Alle badanti e ai maestri, accorsi dopo aver assistito al gancio destro, spiegai che il mio atto era dovuto al fatto che quel bambino mi aveva picchiato il giorno prima. Probabilmente erano a conoscenza del carattere problematico di quel bambino e compresero la mia pur premeditata reazione, cosicché non venni né sgridato né punito.
      Subito dopo,  però, provai un po’ di rimorso, perché il bambino in questione portava un apparecchio acustico a un orecchio r il mio pugno vendicatore glielo aveva fatto saltare via e cadere per terra: rimorso non per l’apparecchio, del quale non ebbi modo di appurare se si ruppe oppure no, ma per avere fatto del male a quel bambino col mio cazzottone.
      La vendetta, si sa, è un piatto amaro e spesso, dopo averla compiuta, uno se ne pente, perché il male arrecato non solo non pone rimedio a quello subito in precedenza ma fa sorgere dei sensi di colpa.

Postilla. Per rispetto delle persone e della loro privacy, ho indicato alcune di esse con nomi fittizi.

sabato 7 ottobre 2017

Augusto

Il tuo tronco fiero e robusto
purtroppo s’è alla fine arreso:
ed ora anche su di te, Augusto,
tristemente è planato, disceso

il lugubre velo di una Morte
che sembrava mille miglia lontana
da un uomo così buono e forte,
da una così limpida fontana,

nella quale hanno gai zampillato
i nobili e grandi ideali
che sovente ci hanno aiutato
a sopportare meglio tanti mali.

Sulla breccia da stoico sei rimasto
fino alla fine tu a cantare,
mentre da fiero, incolto contrasto
continuava coerente a fare

il tuo bell’aspetto esteriore,
che ribelle sempre hai mantenuto,
contro un mondo che esser migliore
avrebbe senza fatica potuto

se molti altri avesser seguito
le tue orme chiare, profonde,
se avessero almeno capito
che pure fra le agitate onde

della vita d’ognuno quotidiana
in te potevano sempre trovare
l'àncora che, vicina o lontana,
mai via la barca non fa andare

di ogni personale esistenza,
che a veri valori attaccati
si poteva restare e che senza
di essi si è come sradicati.

E mentre la nostra mesta tristezza
per fortuna non riesce a stingere
in noi il ricordo e la dolcezza
del tuo cantare e dipingere,

in questo duro e triste momento
prima che all'artista apprezzato
il pensiero va con vero sgomento
all'uomo da noi tutti ammirato,

che purtroppo adesso abbiam perso,
un uomo sensibile, generoso,
alla meschinità sempre avverso,
un uomo sincero e coraggioso.

Provo un'impacciata sensazione
ad ascoltar la tua voce buona
e limpida con grande commozione,
voce che purtroppo non più risuona

dal tuo respiro ormai cessato;
ma mi faccio forza a continuare
a sentirti dal nastro registrato,
perché è cosa giusta ricordare

sia pur in questo modo  modesto
un amico che ci ha or lasciato,
un amico che sempre fu onesto
e che non sarà mai dimenticato.

Il mio umore ora è stanco,
dalla tristezza inciso, eroso
come fosse l'argilla d’un calanco,
ma come un dono molto prezioso

di te, Augusto, sempre conserverò
un ricordo indelebile, chiaro,
e certamente non dimenticherò
l'animo tuo, che mai fu avaro.

      Alla memoria di Augusto Daolio,  guida dei Nomadi.
      Di solito una persona muore due volte, quando si spegne fisicamente e quando viene dimenticata. Augusto è stato uno dei pochi a morire una volta sola.
      Augusto continua a vivere nei nostri cuori.

mercoledì 27 settembre 2017

Ti ringrazio, o Verbo Incarnato

Ti ringrazio, o Verbo Incarnato,
fonte di gioia e di tenerezza,
perché sulla Terra ci hai portato
il dono celeste della Salvezza,

che il Signore misericordioso
nonostante la nostra malvagità
ha elargito in modo grandioso
per la redenzione dell'Umanità.

Ti ringrazio, o Verbo Incarnato,
sorgente di pace e di dolcezza,
perché il Tuo sacrificio ha dato
a tutti noi consapevolezza

che soltanto il legame con Dio
e l'aprirci alla Sua vicinanza
non ci faran cader nell'oblio:
ci salverà la Nuova Alleanza.

A padre Giuseppe Calvano e a padre Danilo Palumbo.

lunedì 4 settembre 2017

Lettera a Manuela

Amica mia carissima,
      mi immagino, sai, io e te in un film di Rohmer, in Racconto d'inverno.
      Immagino noi come Charles e Dora, due amici che, quando si incontrano, si dicono tutto uno dell'altra.
      Ci può essere legame più forte di questo? Nemmeno alla persona amata si confida tutto, per non urtare la sua sensibilità con amori passati, per non rischiare di oscurare un rapporto con cose che lei non gradisce, in certi casi anche per proteggerla. Fra amici, invece, ci si può confidare tutto, certi di ricevere sostegno e comprensione.
      Così siamo noi, Manuela. Così saremo noi.
      Sempre ci racconteremo delle primavere che rallegreranno i nostri cuori, degli inverni che ci faranno conoscere il gelo nei nostri cuori, delle nostre speranze e delle nostre delusioni, dei nostri progetti e delle nostre rese.
      Sempre ci sosterremo a vicenda, in un rapporto personale che ha e avrà come muri maestri la confidenza, la fiducia, la sincerità.
      Non sarà come l'Amore, l'amore di coppia, quello che abbiamo cercato per anni ciascuno inseguendo le sue chimere. Sarà amore fraterno, più solido; sarà duraturo perché non offuscato dalla paura di perderci.
      Sarà alcova ma non di amplessi. Sarà alcova di sfoghi, di condivisione di gioie, di lacrime e di risa.
      Non sarà il caldo sole d'estate, con le sue vane promesse d'eternità, ma il tiepido sole di primavera, portatore di brezza e di sorrisi, o il tenue sole d'autunno, dispensatore di saggezza un po' malinconica.
      Sarà amore fraterno, amore intriso di affetto e non di passione, robusta fiamma che dura nel tempo e non si spegne per uno spiffero inaspettato.
      Stammi vicino, Manuela. Stammi vicino in queste settimane in cui sembro sereno e forte e in cui il mio cuore è tornato a battere col ritmo più armonico, così come stammi vicino nelle settimane future, in cui potrò forse tornare ad essere l'essere debole e friabile dalla corazza di ferro.
      Io cercherò di fare altrettanto con te.
      I nostri destini saranno meno duri. Le nostre solitudini saranno meno sole e, se anche dovessero svanire per almeno uno di noi, il nostro legame rimarrà solido, come un albero di vite attorno a cui sarà cresciuta una rosa rampicante.
      Ti voglio bene, ti voglio fraternamente bene, splendida creatura.
            Gian Contardo.

A Manuela, con infinita amicizia.

lunedì 17 luglio 2017

Io perdono

      Io perdono tutti quelli che nella mia parrocchia, verso la fine degli anni '60, si disinteressarono di assicurarmi la preparazione alla Cresima.
      Dio grande e misericordioso non mi abbandonò, facendomi poi trovare per la mia Cresima la parrocchia di Maria Madre della Chiesa, dove conobbi don Matteo, uomo meraviglioso e pastore amorevole.

      Io perdono tutti i presenti nel santuario della mia parrocchia quella mattina di gennaio del 2012, quando, con mia madre in coma, chiesi disperato se qualcuno mi aiutassero ad accendere un cero alla santa e tutti mi voltarono le spalle.
      Dio grande e misericordioso non mi abbandonò, facendomi poi trovare nella chiesa dell'ospedale delle Molinette conferma della Sua esistenza.

      Io perdono chi nella mia parrocchia si comportò a più riprese in modo sgarbato con noi e l'ultima volta cacciò via me e mio padre perché a suo dire eravamo seduti in posti riservati, nella chiesa che in quel momento era vuota.
      Dio grande e misericordioso non ci abbandonò, facendoci poi trovare nella parrocchia di Maria Madre della Chiesa un amorevole rifugio, dove tutti ci hanno accolto col sorriso anche quando andavamo semplicemente a pregare.

      Io perdono chi si è comportato in modo freddo e disumano durante il funerale di mio padre Vincenzo.
      Dio grande e misericordioso non mi ha abbandonato, facendomi conoscere don Francesco Saverio, uomo meraviglioso e pastore amorevole.

      Io perdono tutti quelli che nella mia parrocchia mi hanno fatto del male, con la loro indifferenza o con le loro sgarberie.
      Dio grande e misericordioso non mi ha abbandonato, facendo sì che in quelle prove di grande amarezza io non perdessi la fede.

mercoledì 12 luglio 2017

Commemorazione di mio padre Vincenzo





Vincenzo Colombari
25/8/1922 – 8/7/2017



      Nel timore che l’emozione e le mie difficoltà di parola mi impediscano di essere comprensibile, delego l’amico fraterno Maurizio De Bortoli, che ringrazio con tutto il cuore, a leggere questo breve ricordo di mio padre.

      Desidero innanzitutto ringraziare le persone che ci sono state vicino in questo periodo. In primis le signore Laura Saracco e Iman Dewidar e il signor Karim Ismail, che in questi anni si sono presi cura di mio padre e l'hanno accudito con affetto e premure filiali. Ringrazio don Matteo Sorasio, che mi è stato vicino in questi giorni: la sua sollecitudine ha reso dolce la mia tristezza. Ringrazio tutte le persone che in queste ultime settimane sono passate a fare visita a mio padre, anche più di una volta, come il signor Giuseppe Chiarello e la maestra Teresa Mignacco. Ringrazio per l'aiuto e il sostegno che abbiamo ricevuto Mariuccia, Franco e Claudio Tomatis, Anna e Luciano Fontana, e la famiglia Contino-Gavello, soprattutto Gabriella Contino, che si può dire non abbia lasciato passare un solo giorno senza informarsi e offrire aiuto. Ringrazio gli angeli dell'Ospedalizzazione a Domicilio delle Molinette di Torino, che hanno curato mio padre con impeccabile professionalità e commovente umanità, in special modo la dottoressa Elena Guida e il dottor Davide Sardi. Ringrazio tutti gli amici che su Facebook mi hanno fatto sentire la loro vicinanza e il loro affetto. Ringrazio, last but not least, le mie cugine Cristina Cassinadri, per la costante sollecitudine con cui si è fatta viva per chiedere notizie di mio padre e per infondermi coraggio, e Livia Colombari, sia per aver fatto negli ultimi mesi la spola tra Villa Minozzo e Torino per esserci vicino, sia perché è stata la causa dell'ultima gioia di mio padre; il giorno prima di andare in coma, quando gli dicemmo che Livia sarebbe di nuovo venuta a trovarci, sul volto di mio padre Vincenzo comparve un sorriso, il suo ultimo sorriso.

      Chi era mio padre? Chi è e continua ad essere, nel Regno di Dio, mio padre?
      Un uomo onesto e un padre di famiglia, un padre di famiglia cristiana.
      Qualche anno fa, durante una breve crisi di sconforto, mi disse con amarezza: "Io sono sempre stato una persona onesta". Come a dire: mi sono sempre comportato onestamente e adesso perché mi sento così giù?
     E che sia sempre stato onesto lo dimostra anche solo un episodio: un encomio che ebbe dalla Fiat, dove ha lavorato per oltre vent'anni, per avere trovato in un corridoio un portafoglio e averlo consegnato ai suoi superiori affinché venisse restituito al legittimo proprietario.
      E' stato anche un esemplare padre di famiglia, dopo una vita lunga sì ma anche estremamente dura.
      A quattro anni andava già a pascolare le pecore. A diciannove anni venne arruolato negli Alpini, per poi essere mandato a fare la Campagna di Russia. Ritornato in Italia, si aggregò ai Partigiani della Federazione Italiana Volontari della Libertà. Poi emigrò per sei anni in Australia, facendo anche lavori massacranti come tagliare canna da zucchero.
      Al suo rientro, formò una famiglia con mia madre, Giuseppina Massa.
      In tutti questi anni si è preso amorevolmente cura prima di me, facendo ogni sorta di sacrifici e di rinunce per assicurarmi un futuro migliore, e poi di mia madre, quando lei si ammalò e passò i suoi ultimi sei anni di vita in un letto. Quella di Vincenzo non fu solo una vicinanza a Pina spirituale e affettiva ma anche fisica: in tutti quei sei anni dormì sul divano accanto al letto ortopedico della mamma, compromettendo la salute delle sue articolazioni, che si è poi fatta dolorosamente sentire.
       Una presenza costante, fondata sull'amore coniugale. Una presenza silenziosa.
      Il mio grandissimo amico Paolo Stefano Riccadonna non a torto l'ha paragonato a san Giuseppe, che non si fa sentire ma c'è sempre.
      Vincenzo è stato un padre di famiglia cristiana, da lui sostenuta con dedizione totale, senza se e senza ma, seguendo l'esempio di Gesù: "... non è venuto per essere servito, ma per servire ..." (Vangelo secondo Marco, 10,45).
      Pensate: ancora pochissimi giorni prima del peggioramento definitivo delle sue condizioni di salute, quando vedeva in casa qualcuno fare qualcosa mio padre chiedeva subito: "Hai bisogno di una mano?". Pur essendo già su una sedia a rotelle. Vincenzo è venuto su questa Terra per servire, fino alla fine.
      Era anche sempre pronto a ricercare l'armonia fra le persone, sempre pronto a cercare di placare le liti fra parenti, che qualche volta scoppiano.
      Era sempre pronto a ricordarmi il dovere e l'utilità del perdono, a me che non sono propriamente incline a perdonare. Una volta mi disse una cosa che mi stupì e mi fece riflettere: "Perdonare è anche una questione di intelligenza".

      Adesso mio padre Vincenzo si trova nella Casa del Padre. Sono certo che il Signore l'ha accolto con un paterno ed eterno abbraccio, ringraziandolo per essere stato per tanti anni un Suo docile ed umile strumento.
      Così come sono certo che si è già ricongiunto con tutti i suoi cari, soprattutto con la sua mamma, Anna Maria Cavalletti, con sua moglie Pina e con suo fratello e mio padrino Ennio, di quindici anni più anziano di lui e che è stato per lui come un secondo padre.
      Mi mancherà tutto di lui, a cominciare dai vezzeggiativi con cui anche negli ultimi tempi continuava a chiamarmi: "Cocco" e "Gioia bella".
      Di lui voglio qui ricordare l'ultimo scambio di frasi che ebbi con lui, prima che le nebbie della malattia lo inghiottissero. Una sera mi avvicinai alla sua carrozzina e, nel dargli un bacio, gli dissi: "Un bacetto che ti voglio bene". E lui, con un filo di voce, mi rispose: "Anch'io".
      Ora non potrò più dirti che ti voglio bene, papà, ma continuerò a volertene. Per sempre.
      Riposa in pace nella luce di Dio, papà.
      E grazie per tutto quello che hai fatto per noi.

10 luglio 2017.

sabato 1 luglio 2017

Il Signore è il mio pastore

Il Signore è il mio pastore
e di agape sempre mi sazia.
Il Suo sguardo è consolatore,
quando il mondo terreno mi strazia.

Ci ha mandato Cristo Salvatore,
nato dalla Regina della Grazia,
e per questo sacrificio d'amore
chi è persona pia Lo ringrazia.

Il Signore detta la Sua legge,
che libero sono io di seguire,
come pecorella del Suo gregge,

per potere l'amor perseguire
e per perdonare tutte le schegge
di odio che mi posson colpire.

lunedì 26 giugno 2017

Ave, Maria Consolatrice

Ave, Maria Consolatrice.
Tu sei la fonte da cui sgorga
la limpida fonte delle preghiere,
balsamo per l'anima di chi
a te si rivolge con l'apertura della fede,
protezione per l'anima di chi
non ha ancora risposto
all'abbraccio di Dio.

Ave, Maria Consolatrice.
Le tue preci vanno ai peccatori,
perché non cadano
nei tranelli delle loro debolezze
o perché possano accedere
al perdono di Dio.

Ave, Maria Consolatrice.
Tu privi la morte di paura e di tristezza,
perché durante la sua ora
le tue preghiere accompagnano il distacco
con la materna dolcezza dell'Amore,
con la serena certezza dell'approdo
al Regno di Dio.

Amen.

lunedì 12 giugno 2017

Ave, Mamma Ausiliatrice

Ave, Mamma Ausiliatrice,
che col tuo amore
infondi protezione
a tutti i figli del mondo.

Ave, Mamma Ausiliatrice,
che dicesti subito
un sì senza riserve
per far crescere dentro di Te,
per far nascere il Figlio di Dio.

Ave, Mamma Ausiliatrice,
che prendesti su di Te
i sacrifici e le apprensioni
di tutte le mamme del mondo
e che fosti, sei e sarai
per loro un sublime esempio.

Ave, Mamma Ausiliatrice,
che accogli in Cielo
le mamme del mondo
dopo il loro servizio d'amore,
di rinunce e di gioia,
e che diventi mamma dei figli
che han dovuto dire
addio alla loro.

Ave, Maria Ausiliatrice,
proteggici tutti,
consolaci tutti,
prega ogni giorno per noi.

Amen.

martedì 23 maggio 2017

Cinque anni fa. Funere mersit

      Nel cuore della notte il risveglio improvviso: con tatto Karim mi disse se potevo venire un attimo a vedere.
      Mi bastò un’occhiata per capire: nel cuore della notte il tuo cuore più non batteva.
      La testa leggermente reclinata a destra reclinata; gli occhi chiusi, ormai destinati al Riposo; il viso privo delle sofferenze trascinate a lungo; il torace fermo, ormai alieno al respiro; braccia e mani distese lungo i fianchi distese, finalmente distese, non più tese nella spasmodica resistenza al dolore.
      La tua ultima immagine prima della fatale constatazione, la tua prima immagine dopo il distacco definitivo, l’immagine che porterò con me per ogni mio restante giorno terreno.
      Dopo, un mesto susseguirsi di tristi atti.
      L’accarezzarti il volto, sentendo dalla tua pelle la freddezza della morte.
      Lo stetoscopio posato sul tuo torace e l’assenza di battiti: ulteriore conferma.
      Il prendere la cornetta, svegliando la signora Rita, che non si fece mai  negare ogni volta che avesti bisogno di lei avesti bisogno; il suo accorrere per constatare ciò che già sapevo.
      Lo svegliare papà per comunicargli impacciato la fine dei tuoi giorni con noi.
      L’inizio dei due giorni dell’ultimo commiato, con noi che lentamente iniziammo ad essere sommersi dalla tua assenza.
      Il vederti nel ligneo sarcofago deposta, il porgerti sussurri di carezze alle tue orecchie ormai mute, il ringraziarti e il chiederti perdono per i sacrifici che facesti per me.
      Il vederti con le cose destinate a farti compagnia nel tuo ultimo viaggio: attorno al tuo collo il foulard che ti regalai, perché io volli che nel sepolcro portasti con te un pegno del mio amore filiale; un mazzetto dei fiori recisi dalla pianta che George ti portò, perché io volli che nel sepolcro portasti con te anche qualcosa dell’altro bambino che con amore allevasti; fra le tue dita la statuina della Signora di Lourdes, la cui fosforescenza sperai potesse per un po’ il tuo riposo illuminare di una dolce luce, pallido riflesso della tua immensa bontà, della Sua immensa bontà; una rosa, che la signora Rita depose accanto a te.
      L’ultimo mio saluto: due volte la parola “Grazie”, in un breve intervallo di lacrime, e un bacio sulla tua amatissima fronte.
      Spalle generose, soprattutto quelle del cugino Fernando, su cui piangere prima e dopo la chiusura del feretro, prima e dopo il mio ultimo sguardo su di te, ormai dormiente del sonno dei Giusti.
      Esequie, a cui assistetti fra scrosci di pianto.
      Il mesto percorso verso i giardini di pietra, l’ultima benedizione dal diacono impartita, l’ultimo bacio e l’ultima carezza al tuo feretro.
      Il chiamare Sara accanto a me, per averla vicina nel vederti scivolare nella tua ultima dimora terrena.
      Riposa in pace, mamma.

23 maggio 2017.

lunedì 15 maggio 2017

I miei scherzi scritti

      Fu negli anni delle Medie Superiori che iniziai ad usare la scrittura per scherzi e lazzi vari, abitudine che in seguito mantenni e intensificai negli ambienti lavorativi nei quali mi trovai inserito.
      All’I.T.C. "Elio Vittorini" scrissi finte lettere d’amore, dai contenuti un po’ licenziosi, indirizzate a compagne di classe alquanto inibite e timide, naturalmente spacciandole per opera di compagni di classe altrettanto inibiti e timidi. E scrissi anche poesiole beffarde e salaci, di quel genere letterario cioè che ancora oggi non disdegno di coltivare.
      Lo scherzo più idiota che feci con la scrittura si ridusse però ad una sola parola: vasectomia.
      Accadde che Monica, dopo essere stata operata di appendicite, tornò a scuola portando, come giustificazione per l’assenza di un mese, un certificato del suo medico della mutua dove era specificato il tipo di intervento chirurgico.
      Fu come fu, fatto sta che, prima che potesse consegnarlo al professore  che teneva la prima ora di lezione di quel giorno, il certificato medico cominciò a girare di banco in banco.
      Quando giunse a me, ebbi un’idea che credei geniale ma che in realtà era soltanto stronza: sopra (si badi bene: al di sopra e quindi non sovrapponendo) la parola “appendicectomia” vergata a mano dal medico di Monica, scrissi la parola “vasectomia”.
      L’effetto burlesco venne ovviamente esasperato dal fatto che, come ogni laureato in medicina può testimoniare, la vasectomia è la sterilizzazione maschile e non quella femminile, e Monica di sicuro maschio non era. E, intendiamoci, non lo è nemmeno adesso.
      Il certificato riprese a girare, provocando, com’era prevedibile, generale ilarità.
      Quando Monica si accorse della mia improvvida contraffazione, si adirò alquanto: espressione elegante che significa che si incazzò come una bestia.
      Mi sbatté il certificato sul banco e mi disse: "Io non lo consegno. Oggi tu vai dal mio medico e te ne fai rilasciare un altro".
      Fu Paola a porre rimedio a tutto: prese il foglietto e provò a cancellare la mia aggiunta; la parola incriminata sparì dopo qualche colpo di gomma, senza lasciare alcuna traccia.
      Così restaurato, il certificato medico venne riconsegnato a Monica, che lo diede al professore, quando questi entrò in classe.

      La povera Monica fu vittima di un altro scherzo da parte mia. Ma questa volta ebbi come complice Walter e come divulgatore un simpatico bigliettaio.
      Avevo scritto qualcosa di satirico su di lei: non ricordo né cosa né se fosse in prosa o in versi. Fatto sta che diedi il foglietto di sì alta prova letteraria a Walter e questi, all’uscita da scuola, si mise a sventagliarlo davanti agli occhi di Monica sull’autobus-navetta che li stava portando verso le rispettive abitazioni. A quel punto il bigliettaio (allora c’erano già le macchinette obliteratrici ma sulle navette per gli studenti il bigliettaio era presente), accortosi della burla, volle partecipare anch’egli, si fece consegnare il biglietto da Walter e si mise a declamarne ad alta voce il contenuto in presenza di almeno un centinaio di studenti. E di un po’ tutte le sezioni.
      Ripeto: a distanza di tanti anni, non ricordo più cosa scrissi allora ma il testo doveva essere pepato, se non addirittura osceno, visto che sull’autobus Monica si sentì avvampare dall’imbarazzo e il giorno dopo ce la menò un casino, a me e a Walter.
      Ringalluzzito da sì meraviglioso effetto, come direbbe Mike Bongiorno non volli lasciare ma raddoppiai.
      Scrissi la cover di una canzone di Gianni Nazzaro di qualche anno prima, Quanto è bella lei!
      Spezzoni di quella cover me li ricordo. Cominciava con:
           Ti prego, non mi dire
           che lui non è per me.
           anche se è un bigliettaio,
           adesso l’amerò.
      E poi, dopo qualche verso, proseguiva con:
           Quanto è bono lui,
            tu babbo non lo sai.
     Questa volta il frutto del mio ancora tutto da dimostrare talento letterario non giunse nelle mani del bigliettaio. Lo diedi a Walter, il quale per un paio di giorni lo sventolò sotto gli occhi di Monica, paventandole la possibilità di renderlo di pubblico dominio.
      Per lei furono due giorni di sofferenza. Non fece altro che implorare Walter di consegnarle il testo della mia cover. Giunse perfino a chiedere al prof. Podio, nostro insegnante di Religione, di ordinare a Walter di darle il foglietto malandrino, naturalmente senza specificargli il contenuto. Il prof. Podio, tuttavia, non intervenne.
      E forse per Monica fu un bene, viste e considerate le performances istrioniche che il buon Ferdinando Podio ci aveva già regalato. Chi lo sa? Avrebbe anche potuto farsi dare il testo della mia Quanto è bono lui! e, cosa più grave per Monica ed esilarante per noi, mettersi a cantarla davanti a tutta la classe!
     Lo scherzo finì come doveva finire. Appena Monica smise di pretendere la consegna della cover, non ce ne occupammo più. Il foglietto? O venne perso o venne distrutto.

      Sempre negli anni delle Medie Superiori, avevamo come compagni di classe un ragazzo che definire misogino risponde al vero (poi, per sua fortuna, finiti gli studi cambiò da così a così e divenne un tombeur des femmes di tutto rispetto) e una ragazza che definire sessualmente inibita è dir poco.
      Or bene, su incitazione di alcuni altri compagni di classe (mascalzoncelli come me), scrissi una lettera d'amore (non certo nel senso platonico del termine ...) indirizzata alla virginal fanciulla e firmata dal ragazzo. Firma falsa, naturalmente. Consegnai l'aretiniana missiva ai miei complici e uno di essi provvide a metterla nell'agenda della virginal fanciulla.

      Un altro falso fu quello che confezionai per prendermi burla del signor Ettore Gennaro.
      Il signor Gennaro abitava  in un appartamento dello stabile in cui anche la mia famiglia aveva l'alloggio. Pur essendo socialista, non poteva vedere Craxi. Già verbalmente, quando volevo prenderlo un po' in giro, al momento di accomiatarmi da lui gli dicevo: "Mi saluti Bettino", anche se magari non avevamo in alcun modo parlato di politica.
      Or bene, passando dalla burla orale a quella scritta, un giorno mi venne l'idea di scrivergli un'accorata lettera di riavvicinamento politico con la (falsa) firma di Craxi. Dopo che l'ebbi battuta a macchina e imbustata, la misi nella sua cassetta delle lettere.
      Naturalmente, il signor Gennaro non abboccò e mi identificò subito come autore della missiva.

      Il mio scherzo per lettera più bastardo fu però quello che feci a Donato. Anche perché ebbe come presupposto una sua imprudente confidenza.
      Mai fare certe confidenze agli amici, perché nove volte su dieci gli amici sono dei grandissimi stronzi e ne approfittano.
      Quando era ancora mio collega, un bel mattino in ufficio Donato mi confidò: "Stanotte ho fatto un sogno allucinante. Ho sognato che stavo spogliando una ragazza che mi piaceva tanto: le tolgo il vestito, le tolgo il reggiseno, le tolgo le mutandine e mi accorgo che al posto della farfalla ha una nerchia enorme! Ho provato talmente tanto orrore che mi sono svegliato urlando".
      Ci facemmo due risate e la cosa sembrò finire lì. A parte i lazzi di qualche nostro compagno di lavoro a cui Donato aveva fatto la stessa confidenza, lazzi incentrati un tantino pesantemente sul suo presunto essere gay. Cosa destituita di ogni fondamento, sia ben chiaro. Come avrebbe spiegato Alessandro Benvenuti a Ricky Tognazzi nel film Maniaci sentimentali, si trattava di un sogno rivelatore al contrario ossia rivelatore di ciò che in sognatore non era.
      Passò qualche anno, Donato non era più mio collega, era un po' che non si faceva vivo con me e un bel giorno d'estate mi venne in mente di fargli un bello scherzo a proposito di quel suo sogno, pardon, incubo erotico.
     Mi misi d'ingegno col word processor di cui allora disponevo (e che per la verità non garantiva il massimo della raffinatezza grafica) e composi una specie di diploma, con tanto di cornice: del tipo di quelli che riguardano il conferimento di titoli di studio o di attestati onorifici.
      Mi inventai anche il nome, con tanto di acronimo, di un'inesistente associazione gay e composi il testo del "diploma", che recitava così:

           La F.I.S.E.O.,

           Federazione
           Italiana
           Sognatori
           Erotici
           Omosessuali,

           esaminate tutte le testimonianze scritte e, soprattutto, orali,

           conferisce al signor

           Donato ***

           il diploma di socio onorario.

      Dopo di che, spedii la lettera al signor Donato ***.
      (Beninteso, tanto nel testo del "diploma" quanto nell'indicazione del destinatario della lettera, al posto degli asterischi scrissi il cognome di Donato.)
      Naturalmente, Donato comprese che si trattava di uno scherzo ma, stranamente, non sospettò di me.
      Credevo che il suo non telefonarmi o scrivermi in risposta fosse dovuto alla strategia di ignorare deliberatamente l'accaduto senza darmi corda per altri simpatici scherzi.
      Invece no. Quando lo incontrai di nuovo, circa un anno dopo l'invio della comunicazione dell'ambito riconoscimento, e gli accennai alla lettera della F.I.S.E.O., confessandogli di essere stato io a spedirgliela (non per scaricarmi la coscienza, perché quando faccio uno scherzo non ho mai rimorsi, ma perché volevo che mi riconoscesse come l'autore di quel colpo d'ala nell'arte della burla), scoppiò e ridere e mi disse: "Ah, così sei stato tu! E io che, nelle settimane dopo l'arrivo di quella lettera, ho telefonato a quasi tutti i nostri amici chiedendo ad ognuno se era stato lui a scrivere quella cazzata!".