All'amico Stefano Lo Russo
Era d'estate. Da anni ormai Stefano non
guardava più tanto i programmi televisivi; gli erano venuti a noia, fra gossip
insignificanti tranne che per i telespettatori morbosamente attratti dal sapere
gli affari altrui e i vari talk show dove predominava non ci diceva cose più
sensate ma chi starnazzava di più e le sparava più grosse, rivolgendosi a
quella parte ignorante e superficiale di pubblico che gli esperti avevano
definito "analfabeti di ritorno". Lo stesso recente, travolgente
successo social network, dopo un iniziale periodo di entusiasmo pericolosamente
euforico e di coinvolgimento pericolosamente sfociante in sogni in cui si era
visto alle prese coi vari commenti e i "mi piace", ora lo vedeva come
attore molto distaccato: manteneva sì attivo un suo account su Facebook e due
blog ma lo faceva in modo distaccato; pochi quarti d'ora al giorno gli erano
sufficienti per postare qualche scritto e mettere qualche commento sugli spazi
web delle persone che conosceva direttamente o che aveva imparato ad apprezzare
su internet. Si era sostanzialmente distaccato da quel mondo, che continuava a
seguire da lontano attraverso le porticine che aveva lasciato aperte pur
entrandoci raramente, perché disgustato dai vari commenti ai post ed agli
articoli dei periodici online: pieni di assenza di uso dei neuroni, carichi di
ignoranza e di presunzione, caratterizzati da caterve di insulti traboccanti di
odio e di rancore. A tal punto che si era domandato se fosse il caso, onde
evitare che dalla violenza verbale si degenerasse a quella fisica, di rendere obbligatoria
per legge la moderazione dei commenti, per responsabilizzare un po' tutti.
Aveva anche amaramente constatato che, almeno fino a quel momento, la libertà
di parola concessa a tutti i cittadini che fossero a portata di click non si
era tradotta in una grande occasione di confronto, se necessario aspro ma pur
sempre costruttivo e rispettoso, fra idee e posizioni diverse ma in un marasma
di scontri rozzi e volgari, in cui si mirava soltanto ad imporre la propria
visione delle cose, spesso priva di una sia pur minima base scientifica e morale,
e a criminalizzare chi aveva idee diverse, attribuendogli la responsabilità di
tutte le cose che non funzionavano nella società.
Stefano si era dunque rifugiato, durante
le sue ore di tempo libero, in quegli accoglienti appartamenti in cui del resto
non aveva mai smesso di abitare: quello della lettura e quello, adiacente e
comunicante, della scrittura.
Non
essendo quella sera nella predisposizione d'animo di mettersi a scrivere, Stefano
prese in mano un libro ed iniziò a leggerlo.
Il caldo sole di agosto aveva lasciato il
posto alla notte e ad una temperatura più fresca. Era la settimana centrale del
mese, periodo in cui la gente, anche quella che nel resto dell'anno si
lamentava di non avere i soldi per arrivare a fine mese, continuava ad andare
in ferie: evidentemente ad agosto i soldi per andare in vacanza li trovava.
Nella città di fatto deserta, si poteva tranquillamente leggere tenendo le
finestre aperte: il raro passaggio di un’automobile non disturbava granché la
lettura. D’altronde, sia sul lavoro che nello studio o semplicemente nella
lettura di qualche romanzo o di qualche giornale, Stefano non aveva mai avuto
problemi di concentrazione; negli anni dell'Università, aveva spesso studiato con
la radio accesa: non la sentiva neppure, era come se i suoni che uscivano
dall'apparecchio fossero come l'ovattato sottofondo rumoroso di un ruscello che
scorre lentamente; da quando poi aveva iniziato a lavorare, se quello che
stava facendo lo “prendeva” non avvertiva minimamente la presenza di colleghi
che chiacchierassero a voce alta o che discutessero animatamente; quando
qualcosa lo interessava, riusciva ad isolarsi dal mondo che lo circondava e che
non disturbava le sue letture o le sue riflessioni.
Era stato dunque con il disteso stato
d’animo di chi sa che si accinge a godersi s un’interessante lettura immerso
nella frescura notturna che Stefano aveva cominciato a leggere quel libro,
anzi, ne aveva ripreso la lettura a partire dalle due pagine in mezzo alle
quali aveva lasciato il segnalibro.
Stefano era solito servirsi di un tipo
particolare, “fai da te”, di segnalibro: un foglietto di carta su cui disegnava
una freccia con la punta disposta orizzontalmente. Poiché gli capitava di
avventurarsi in un libro per poi interromperne la lettura per qualche giorno o
per qualche settimana (leggeva sempre almeno tre o quattro libri
contemporaneamente, saltando da un volume all’altro), al momento di chiudere il
libro Stefano metteva quel segnalibro in modo che la freccia indicasse la
pagina in cui la lettura era stata interrotta: se la freccia era rivolta verso
sinistra, al momento di riprendere in mano il libro sapeva che doveva
ricominciare a leggere dalla pagina a sinistra, altrimenti avrebbe ripreso
dalla pagina a destra; in tal modo, era sicuro di non saltare alcun passo, se
per caso non si fosse ricordato del punto in cui si era fermato la volta
precedente.
Come tutti i bibliofili, Stefano amava i
libri rilegati, dalla copertina rigida; davano, come dire?, un’impressione di
solidità e di durata, oltre ad essere belli alla vista e, nella maggior parte
dei casi, gradevoli al tatto, tranne nei casi in cui il rivestimento della
copertina era ruvido o provocava sui polpastrelli la sensazione di una stoffa
sgradevole al tatto.
I
volumi dalla copertina rigida erano però un po’ scomodi da maneggiare. La
sovracopertina di cui di solito erano dotati si spostava ogni volta che il
libro veniva aperto (solo anni dopo Stefano avrebbe imparato a toglierla dai
libri che stava leggendo, per poi rimetterla a lettura finita). Era anche un
po' difficoltoso tenere aperti i libri con quel formato o, quantomeno, impedire
che alcune pagine si muovessero per inerzia o per un soffio di vento, col
rischio di lasciarli aperti ad una pagina, allontanarsi per qualche minuto e
poi ritrovare il libro aperto qualche pagina indietro o avanti rispetto al
punto in cui la lettura era stata interrotta. C’era, sì, il modo per evitare
quest’ultimo inconveniente: aprire il libro più o meno alla profondità delle
pagine centrali ed esercitarvi sopra una pressione fin quasi a porre in
posizione parallela la prima e la seconda di copertina con la terza e la
quarta; ma, facendo ciò, si rischiava di rompere la costola del volume o di
staccare l’insieme delle pagine da almeno uno dei due lati della copertina.
Preferiva, dunque, per le letture si cui
si fermava ogni tanto a riflettere su un passo o su una frase i volumi dalla
copertina morbida. Col tempo, acquisendo quella malizia che solo l’esperienza
conferisce in ogni genere di attività, Stefano aveva preso l’abitudine, ogni
volta che iniziava la lettura di un libro, di aprirlo preliminarmente alle
pagine centrali, premere su di esso due o tre volte e, se si accorgeva che il
volume non stava aperto “da solo” alle pagine desiderate (spesso i libri erano
composti da molte pagine), ripetere l’operazione alla profondità di circa un
quarto e di circa tre quarti del totale del numero delle pagine, il modo che il
volume presentasse allo scorrimento quattro blocchi di pagine. Quando otteneva
il risultato desiderato, poteva iniziare la lettura del volume e interromperla
senza il pericolo di ritrovarsi in seguito a riprenderne l’esplorazione
trovandosi sotto gli occhi una pagine diversa da quella lasciata aperta in
precedenza. In tal modo, una ventata improvvisa non avrebbe fatto danni:
avrebbe sì potuto portare via il segnalibro ma non avrebbe mosso le pagine.
Il libro che Stefano stava leggendo quella
sera era una pubblicazione sul Museo Egizio di Torino illustrata da molte
fotografie. Aveva sì la copertina rigida ma in compenso era composto da appena
un'ottantina di pagine e dunque, grazie anche alla sue dimensioni (l’altezza e
la larghezza delle pagine erano maggiori di quelle di un volume di medio
formato), poteva tranquillamente essere lasciato aperto su un tavolo o su una
scrivania senza timore di ritornare a prenderlo in mano aperto su due pagine
diverse da quelle di poco prima: i fogli larghi, e pure di carta patinata più
spessa e quindi più pesante del solito, opponevano una resistenza maggiore e,
soprattutto, vincente alle eventuali folate d'aria, di vento o di brezza che
fossero.
A un certo punto Stefano interruppe la
lettura col volume aperto su due pagine riportanti ciascuna la statua di un
faraone egizio, rispettivamente di Tutmosi III e di Amenofi III, sculture
conservate nello statuario del Museo Egizio. Sentiva il bisogno, più che di
riflettere su qualcosa, di lasciar scorrere i pensieri che scorrendo dentro di
lui; sapeva che, finché non fosse riuscito a "svuotare" la parte
conscia della sua mente da quell'affollarsi di ricordi, analogie e rimandi, non
avrebbe potuto affrontare con la dovuta concentrazione la lettura delle
successive pagine e la visione delle foto in esse riprodotte.
Posò
il libro aperto sulla scrivania e si mise a camminare avanti e indietro nella
sua stanza: passi lenti, privi di quel nervosismo che di solito è associato
all’espressione “camminare avanti e indietro”. Alcuni pensano seduti, ad occhi
aperti o chiusi; Stefano era solito pensare, soprattutto quando una cosa lo
prendeva in modo intenso, camminando. Era simile al don Rodrigo che me I promessi sposi si sfoga andando su e
giù nel salotto dopo la lite con fra' Cristoforo e non al don Abbondio che
solleva gli occhi dal libro e, rimanendo seduto, si chiede chi sia Carneade. Ed
era talmente abituato a camminare per riflettere che lo faceva anche in
presenza di amici e colleghi, tant'è che una sua compagna di lavoro un giorno
gli aveva scherzosamente detto: "Tu pensi con i piedi". Stefano ne
aveva riso, perché l'autoironia non gli veniva mai meno.
Quella sera, camminando avanti e indietro
nella stanza, Stefano si accorse che su una delle due pagine aperte si era
posato un insettino, di forma rotonda e più piccolo di una comune mosca.
Quando si sentì pronto per ricominciare a
leggere, vide che l'insettino non si era ancora mosso dalla pagina. Per non
spaventare l’insettino, che era rimasto immobile al suo avvicinarsi, si sedette
ma non riprese in mano il libro, limitandosi a leggere sulle pagine aperte.
Quando però giunse alla fine della seconda
pagina, si pose il problema di come proseguire la lettura, visto che
l’insettino non voleva proprio saperne di volare via: sembrava un cucciolo
addormentatosi su quel lucido, cartaceo letto.
Schiacciarlo (cioè ucciderlo) e poi
soffiarne via i resti dal libro aperto era cosa che Stefano non voleva proprio
fare, visto che voleva bene agli animali. Poteva girare la pagina sperando che,
sentendosi spostare, l’insettino volasse via; ma c’era il pericolo che non si
muovesse, col risultato di schiacciarlo voltando la pagina. Prendere in mano il
libro, scuoterlo per far sloggiare il minuscolo intruso era una soluzione meno
cruenta ma Stefano non voleva nemmeno spaventarlo; e lo stesso valeva per la
soluzione di soffiargli addosso: il peso esiguo dell’insenttino non avrebbe
resistito allo spostamento d’aria provocato dal soffio di Stefano ma anche ciò
sarebbe stato traumatico per l’animaletto.
Indeciso sul da farsi, Stefano diede
un’altra occhiata all’insettino e notò che si era posato proprio sulla zona del
cuore di una delle due statue. Cuore, si sa, fa rima con amore e amore, egli lo
sapeva benissimo, in senso cristiano è dato dalla parola “agape”. Poteva Stefano
compiere un’azione contraria all’amore inteso nel senso cristiano? Decisamente
no.
Stefano optò allora per la soluzione più
saggia: attendere. Era davvero così importante proseguire subito la lettura del
libro, anche a costo di mettere a repentaglio l’incolumità di un essere
vivente? No.
Era già da alcuni anni abituato a porsi
quella domanda (“E’ davvero così importante?”), ogni qual volta la sua
testardaggine lo portava ad insistere su una cosa senza riuscire a trovare ad
essa una soluzione o senza valutare le conseguenze di quella soluzione. Domanda
a cui nella maggior parte dei casi rispondeva di no; ciò lo stava gradualmente
portando a prendere la vita con più serenità, a cambiare i suoi programmi da un
momento all’altro senza provare la rabbiosa frustrazione dei “precisini” che non
sopportano né l’eventualità di fare qualcosa che non sia perfetto né l’idea di
dover interrompere quello che stanno facendo; in altre parole, quella domanda
lo stava portando a vivere meglio, educandosi alla calma e a fare le cose solo
quando potevano essere fatte e non prima.
Anche quella sera si era posto quella
domanda ("E' davvero importante?"), rispondendo dentro di sé che la
prosecuzione della lettura del libro non valeva assolutamente la vita
dell’insettino.
Stefano si mise così in tranquilla
attesa, guardando senza angoscia il libro aperto e gettando divertiti sguardi
alla simpatica figura dell’animaletto.
Come se l’insettino volesse premiarlo per
il rispetto che aveva avuto verso di lui, pochi minuti dopo si alzò in volo e
lasciò il libro aperto, consentendo a Stefano di girare la pagina e di
riprendere la lettura.
Nei giorni e nei mesi successivi, Stefano
ripensò varie volte a quell’episodio. Partendo dalla considerazione che la
lettura di un libro, per quanto interessante esso sia, non vale la vita di un
essere vivente, rifletté sul significato della cultura e giunse a una duplice
conclusione.
Innanzitutto, a livello immediato, che
l’acquisizione della cultura non ti deve impedire di interromperla se qualcuno
ha bisogno di te. In quella circostanza era stato l’insettino ad aver bisogno
della paziente attesa di Stefano; ma, se si fosse verificato il caso di
qualcuno che si fosse sentito male vicino a Stefano, interrompere
immediatamente la lettura o la riflessione sarebbe stato ancor di più un
imperativo categorico a cui non si sarebbe dovuto sottrarre.
In senso lato, Stefano trasse da quell’episodio
l’insegnamento che la cultura fine a se stessa, insensibile alle sofferenze
delle persone e al rispetto verso gli esseri viventi, non solo è inutile ma può
anche diventare pericolosa. L’unica cultura che vale la pena di apprendere è
quella a servizio delle persone, è quella che può aiutare chi ha bisogno e che
insegna a rispettare e a proteggere i diritti degli altri.