martedì 30 agosto 2016

Il trovatore errante

      Inquieto vaga per il mondo, per il suo mondo. Strade e sentieri dove compone i suoi poemi e i suoi canti, la cui metrica è cadenzata sul ritmo dei suoi passi. Manieri o città portuali, università di mercanti o comunità rurali.
      Ogni luogo lo ospita gratis e gli dà ascolto per la sua arte. In ogni posto trova nuovi amici, che ne apprezzano l’umanità e la capacità di regalare emozioni con le sue parole e con le sue note.
      Alcuni suoi colleghi si fermano a lungo dove hanno trovato non ricchezza ma solo pane ed estimatori: questo è per loro un premio sufficiente al sacro fuoco che brucia in loro, un riconoscimento sufficiente al dare forma comunicante ai sentimenti e alle idee.
      Ma lui no. Non riesce a star fermo. Basta un niente per farlo rimettere in cammino, fosse pure l’iscrizione del suo nome nel cartellone degli spettacoli che un borgomastro troppo oberato di impegni non riesce a fare in tempo prima che l’esile pazienza del trovatore si esaurisca.
      E allora eccolo di nuovo in cammino, lungo nuove strade e nuovi sentieri, verso nuovi borghi e nuove città. Lasciando dietro di sé il rimpianto di quelle persone che hanno imparato a volergli bene e ad ammirare la sua arte.

mercoledì 24 agosto 2016

Il condor vola

Il condor vola in alto libero,
nel ciel, nel cielo blu,
su tra le nuvole.

La cordigliera quieta dorme ancor,
al sol, al caldo sol,
con Viracocha su.

E secoli di Storia sono là
ad insegnar la civiltà.
E secoli di Storia sono là
ad insegnar la dignità
d'un grande popolo.

Il condor vola vigile lassù,
nel blu, nel chiaro blu,
con ali morbide.

La cordigliera alta svetta già
dal suol, dal bel Perù,
con cime candide.

E secoli di Storia sono là
ad insegnar l'incaica età.
E secoli di Storia sono là
ad insegnar la nobiltà
d'un grande popolo.

Il condor vola e guarda da lassù
resti di civiltà,
il Machu Picchu giù.

La cordigliera da corona fa
alle grandi città
d'incaica antichità.

E secoli di Storia sono là
ad indicar l'immensità.
E secoli di Storia sono là
ad indicar la vastità
dei Quattro Angoli.

Il condor vola su tante città,
Cuzco e Puno che
s'estendon placide.

La cordigliera l'ombra getta su
campi che sorgon su
terrazze pensili.

E secoli di Storia sono là
ad insegnar l'alacrità.
E secoli di Storia sono là
ad insegnar la probità
d'un grande popolo.

Il condor vola e sa che morirà
un dì, lontano ancor,
con gran serenità.

La cordigliera sempre grata è,
perché osserva giù
persone splendide.

E secoli di Storia sono là
ad insegnar moralità.
E secoli di Storia sono là
ad insegnar la umiltà
d'un grande popolo.

Cover della canzone El condor pasa.

All'amico Luis Alexander Valdivia Malrique in occasione del suo 36.mo compleanno.


martedì 23 agosto 2016

Poeta maledetto

      Poeta maledetto, eroico fu il tuo verseggiare, con l’ombra della Morte a seguire ogni tuo passo.
      Fame ti spinsero a vivere con un piede, forse con tutti e due, nell’illegalità. Furti, risse, osterie malfamate dove era facile dare di lama: ecco il mondo che ti vide spettatore, spesso attore.
      Ogni tuo verso vergato su carta unta d’olio o di vino non fu mai sfiorato da convenzioni stilistiche, da ricerca di pubblico, ma attinse alla verità della vita.
      Quante volte finisti accoltellato da ceffi peggiori di te o da mariti il cui onore contribuisti a violare?
      Quante volte pendesti dalla forca per un crimine commesso o per un sonetto sgradito al Potere?
      E quando, da François Villon diventassi Verlaine, quante volte trascinasti la tua vita fra miseria quotidiana e assenzio od oppio?
      Trasgressioni feconde, che videro il tuo corpo corrodersi per far sbocciare i sublimi fiori dei tuoi versi.

      Chi sono io in confronto a te, poeta maledetto?
      Io non rischio niente, io non mi danneggio quando, nel comodo della mia stanza, delle mie ore libere non minacciate da alcunché, scrivo poesie che non oso paragonare alle tue.

sabato 20 agosto 2016

L'insettino sulla pagina aperta

All'amico Stefano Lo Russo

      Era d'estate. Da anni ormai Stefano non guardava più tanto i programmi televisivi; gli erano venuti a noia, fra gossip insignificanti tranne che per i telespettatori morbosamente attratti dal sapere gli affari altrui e i vari talk show dove predominava non ci diceva cose più sensate ma chi starnazzava di più e le sparava più grosse, rivolgendosi a quella parte ignorante e superficiale di pubblico che gli esperti avevano definito "analfabeti di ritorno". Lo stesso recente, travolgente successo social network, dopo un iniziale periodo di entusiasmo pericolosamente euforico e di coinvolgimento pericolosamente sfociante in sogni in cui si era visto alle prese coi vari commenti e i "mi piace", ora lo vedeva come attore molto distaccato: manteneva sì attivo un suo account su Facebook e due blog ma lo faceva in modo distaccato; pochi quarti d'ora al giorno gli erano sufficienti per postare qualche scritto e mettere qualche commento sugli spazi web delle persone che conosceva direttamente o che aveva imparato ad apprezzare su internet. Si era sostanzialmente distaccato da quel mondo, che continuava a seguire da lontano attraverso le porticine che aveva lasciato aperte pur entrandoci raramente, perché disgustato dai vari commenti ai post ed agli articoli dei periodici online: pieni di assenza di uso dei neuroni, carichi di ignoranza e di presunzione, caratterizzati da caterve di insulti traboccanti di odio e di rancore. A tal punto che si era domandato se fosse il caso, onde evitare che dalla violenza verbale si degenerasse a quella fisica, di rendere obbligatoria per legge la moderazione dei commenti, per responsabilizzare un po' tutti. Aveva anche amaramente constatato che, almeno fino a quel momento, la libertà di parola concessa a tutti i cittadini che fossero a portata di click non si era tradotta in una grande occasione di confronto, se necessario aspro ma pur sempre costruttivo e rispettoso, fra idee e posizioni diverse ma in un marasma di scontri rozzi e volgari, in cui si mirava soltanto ad imporre la propria visione delle cose, spesso priva di una sia pur minima base scientifica e morale, e a criminalizzare chi aveva idee diverse, attribuendogli la responsabilità di tutte le cose che non funzionavano nella società.
       Stefano si era dunque rifugiato, durante le sue ore di tempo libero, in quegli accoglienti appartamenti in cui del resto non aveva mai smesso di abitare: quello della lettura e quello, adiacente e comunicante, della scrittura.
      Non essendo quella sera nella predisposizione d'animo di mettersi a scrivere, Stefano prese in mano un libro ed iniziò a leggerlo.
      Il caldo sole di agosto aveva lasciato il posto alla notte e ad una temperatura più fresca. Era la settimana centrale del mese, periodo in cui la gente, anche quella che nel resto dell'anno si lamentava di non avere i soldi per arrivare a fine mese, continuava ad andare in ferie: evidentemente ad agosto i soldi per andare in vacanza li trovava. Nella città di fatto deserta, si poteva tranquillamente leggere tenendo le finestre aperte: il raro passaggio di un’automobile non disturbava granché la lettura. D’altronde, sia sul lavoro che nello studio o semplicemente nella lettura di qualche romanzo o di qualche giornale, Stefano non aveva mai avuto problemi di concentrazione; negli anni dell'Università, aveva spesso studiato con la radio accesa: non la sentiva neppure, era come se i suoni che uscivano dall'apparecchio fossero come l'ovattato sottofondo rumoroso di un ruscello che scorre lentamente; da quando poi aveva iniziato a lavorare, se quello che stava facendo lo “prendeva” non avvertiva minimamente la presenza di colleghi che chiacchierassero a voce alta o che discutessero animatamente; quando qualcosa lo interessava, riusciva ad isolarsi dal mondo che lo circondava e che non disturbava le sue letture o le sue riflessioni.

      Era stato dunque con il disteso stato d’animo di chi sa che si accinge a godersi s un’interessante lettura immerso nella frescura notturna che Stefano aveva cominciato a leggere quel libro, anzi, ne aveva ripreso la lettura a partire dalle due pagine in mezzo alle quali aveva lasciato il segnalibro.
      Stefano era solito servirsi di un tipo particolare, “fai da te”, di segnalibro: un foglietto di carta su cui disegnava una freccia con la punta disposta orizzontalmente. Poiché gli capitava di avventurarsi in un libro per poi interromperne la lettura per qualche giorno o per qualche settimana (leggeva sempre almeno tre o quattro libri contemporaneamente, saltando da un volume all’altro), al momento di chiudere il libro Stefano metteva quel segnalibro in modo che la freccia indicasse la pagina in cui la lettura era stata interrotta: se la freccia era rivolta verso sinistra, al momento di riprendere in mano il libro sapeva che doveva ricominciare a leggere dalla pagina a sinistra, altrimenti avrebbe ripreso dalla pagina a destra; in tal modo, era sicuro di non saltare alcun passo, se per caso non si fosse ricordato del punto in cui si era fermato la volta precedente.
      Come tutti i bibliofili, Stefano amava i libri rilegati, dalla copertina rigida; davano, come dire?, un’impressione di solidità e di durata, oltre ad essere belli alla vista e, nella maggior parte dei casi, gradevoli al tatto, tranne nei casi in cui il rivestimento della copertina era ruvido o provocava sui polpastrelli la sensazione di una stoffa sgradevole al tatto.
      I volumi dalla copertina rigida erano però un po’ scomodi da maneggiare. La sovracopertina di cui di solito erano dotati si spostava ogni volta che il libro veniva aperto (solo anni dopo Stefano avrebbe imparato a toglierla dai libri che stava leggendo, per poi rimetterla a lettura finita). Era anche un po' difficoltoso tenere aperti i libri con quel formato o, quantomeno, impedire che alcune pagine si muovessero per inerzia o per un soffio di vento, col rischio di lasciarli aperti ad una pagina, allontanarsi per qualche minuto e poi ritrovare il libro aperto qualche pagina indietro o avanti rispetto al punto in cui la lettura era stata interrotta. C’era, sì, il modo per evitare quest’ultimo inconveniente: aprire il libro più o meno alla profondità delle pagine centrali ed esercitarvi sopra una pressione fin quasi a porre in posizione parallela la prima e la seconda di copertina con la terza e la quarta; ma, facendo ciò, si rischiava di rompere la costola del volume o di staccare l’insieme delle pagine da almeno uno dei due lati della copertina.
      Preferiva, dunque, per le letture si cui si fermava ogni tanto a riflettere su un passo o su una frase i volumi dalla copertina morbida. Col tempo, acquisendo quella malizia che solo l’esperienza conferisce in ogni genere di attività, Stefano aveva preso l’abitudine, ogni volta che iniziava la lettura di un libro, di aprirlo preliminarmente alle pagine centrali, premere su di esso due o tre volte e, se si accorgeva che il volume non stava aperto “da solo” alle pagine desiderate (spesso i libri erano composti da molte pagine), ripetere l’operazione alla profondità di circa un quarto e di circa tre quarti del totale del numero delle pagine, il modo che il volume presentasse allo scorrimento quattro blocchi di pagine. Quando otteneva il risultato desiderato, poteva iniziare la lettura del volume e interromperla senza il pericolo di ritrovarsi in seguito a riprenderne l’esplorazione trovandosi sotto gli occhi una pagine diversa da quella lasciata aperta in precedenza. In tal modo, una ventata improvvisa non avrebbe fatto danni: avrebbe sì potuto portare via il segnalibro ma non avrebbe mosso le pagine.
      Il libro che Stefano stava leggendo quella sera era una pubblicazione sul Museo Egizio di Torino illustrata da molte fotografie. Aveva sì la copertina rigida ma in compenso era composto da appena un'ottantina di pagine e dunque, grazie anche alla sue dimensioni (l’altezza e la larghezza delle pagine erano maggiori di quelle di un volume di medio formato), poteva tranquillamente essere lasciato aperto su un tavolo o su una scrivania senza timore di ritornare a prenderlo in mano aperto su due pagine diverse da quelle di poco prima: i fogli larghi, e pure di carta patinata più spessa e quindi più pesante del solito, opponevano una resistenza maggiore e, soprattutto, vincente alle eventuali folate d'aria, di vento o di brezza che fossero.
      A un certo punto Stefano interruppe la lettura col volume aperto su due pagine riportanti ciascuna la statua di un faraone egizio, rispettivamente di Tutmosi III e di Amenofi III, sculture conservate nello statuario del Museo Egizio. Sentiva il bisogno, più che di riflettere su qualcosa, di lasciar scorrere i pensieri che scorrendo dentro di lui; sapeva che, finché non fosse riuscito a "svuotare" la parte conscia della sua mente da quell'affollarsi di ricordi, analogie e rimandi, non avrebbe potuto affrontare con la dovuta concentrazione la lettura delle successive pagine e la visione delle foto in esse riprodotte.
      Posò il libro aperto sulla scrivania e si mise a camminare avanti e indietro nella sua stanza: passi lenti, privi di quel nervosismo che di solito è associato all’espressione “camminare avanti e indietro”. Alcuni pensano seduti, ad occhi aperti o chiusi; Stefano era solito pensare, soprattutto quando una cosa lo prendeva in modo intenso, camminando. Era simile al don Rodrigo che me I promessi sposi si sfoga andando su e giù nel salotto dopo la lite con fra' Cristoforo e non al don Abbondio che solleva gli occhi dal libro e, rimanendo seduto, si chiede chi sia Carneade. Ed era talmente abituato a camminare per riflettere che lo faceva anche in presenza di amici e colleghi, tant'è che una sua compagna di lavoro un giorno gli aveva scherzosamente detto: "Tu pensi con i piedi". Stefano ne aveva riso, perché l'autoironia non gli veniva mai meno.
      Quella sera, camminando avanti e indietro nella stanza, Stefano si accorse che su una delle due pagine aperte si era posato un insettino, di forma rotonda e più piccolo di una comune mosca.
      Quando si sentì pronto per ricominciare a leggere, vide che l'insettino non si era ancora mosso dalla pagina. Per non spaventare l’insettino, che era rimasto immobile al suo avvicinarsi, si sedette ma non riprese in mano il libro, limitandosi a leggere sulle pagine aperte.
      Quando però giunse alla fine della seconda pagina, si pose il problema di come proseguire la lettura, visto che l’insettino non voleva proprio saperne di volare via: sembrava un cucciolo addormentatosi su quel lucido, cartaceo letto.
      Schiacciarlo (cioè ucciderlo) e poi soffiarne via i resti dal libro aperto era cosa che Stefano non voleva proprio fare, visto che voleva bene agli animali. Poteva girare la pagina sperando che, sentendosi spostare, l’insettino volasse via; ma c’era il pericolo che non si muovesse, col risultato di schiacciarlo voltando la pagina. Prendere in mano il libro, scuoterlo per far sloggiare il minuscolo intruso era una soluzione meno cruenta ma Stefano non voleva nemmeno spaventarlo; e lo stesso valeva per la soluzione di soffiargli addosso: il peso esiguo dell’insenttino non avrebbe resistito allo spostamento d’aria provocato dal soffio di Stefano ma anche ciò sarebbe stato traumatico per l’animaletto.
      Indeciso sul da farsi, Stefano diede un’altra occhiata all’insettino e notò che si era posato proprio sulla zona del cuore di una delle due statue. Cuore, si sa, fa rima con amore e amore, egli lo sapeva benissimo, in senso cristiano è dato dalla parola “agape”. Poteva Stefano compiere un’azione contraria all’amore inteso nel senso cristiano? Decisamente no.
      Stefano optò allora per la soluzione più saggia: attendere. Era davvero così importante proseguire subito la lettura del libro, anche a costo di mettere a repentaglio l’incolumità di un essere vivente? No.
      Era già da alcuni anni abituato a porsi quella domanda (“E’ davvero così importante?”), ogni qual volta la sua testardaggine lo portava ad insistere su una cosa senza riuscire a trovare ad essa una soluzione o senza valutare le conseguenze di quella soluzione. Domanda a cui nella maggior parte dei casi rispondeva di no; ciò lo stava gradualmente portando a prendere la vita con più serenità, a cambiare i suoi programmi da un momento all’altro senza provare la rabbiosa frustrazione dei “precisini” che non sopportano né l’eventualità di fare qualcosa che non sia perfetto né l’idea di dover interrompere quello che stanno facendo; in altre parole, quella domanda lo stava portando a vivere meglio, educandosi alla calma e a fare le cose solo quando potevano essere fatte e non prima.
     Anche quella sera si era posto quella domanda ("E' davvero importante?"), rispondendo dentro di sé che la prosecuzione della lettura del libro non valeva assolutamente la vita dell’insettino.
      Stefano si mise così in tranquilla attesa, guardando senza angoscia il libro aperto e gettando divertiti sguardi alla simpatica figura dell’animaletto.
      Come se l’insettino volesse premiarlo per il rispetto che aveva avuto verso di lui, pochi minuti dopo si alzò in volo e lasciò il libro aperto, consentendo a Stefano di girare la pagina e di riprendere la lettura.
      Nei giorni e nei mesi successivi, Stefano ripensò varie volte a quell’episodio. Partendo dalla considerazione che la lettura di un libro, per quanto interessante esso sia, non vale la vita di un essere vivente, rifletté sul significato della cultura e giunse a una duplice conclusione.
      Innanzitutto, a livello immediato, che l’acquisizione della cultura non ti deve impedire di interromperla se qualcuno ha bisogno di te. In quella circostanza era stato l’insettino ad aver bisogno della paziente attesa di Stefano; ma, se si fosse verificato il caso di qualcuno che si fosse sentito male vicino a Stefano, interrompere immediatamente la lettura o la riflessione sarebbe stato ancor di più un imperativo categorico a cui non si sarebbe dovuto sottrarre.
      In senso lato, Stefano trasse da quell’episodio l’insegnamento che la cultura fine a se stessa, insensibile alle sofferenze delle persone e al rispetto verso gli esseri viventi, non solo è inutile ma può anche diventare pericolosa. L’unica cultura che vale la pena di apprendere è quella a servizio delle persone, è quella che può aiutare chi ha bisogno e che insegna a rispettare e a proteggere i diritti degli altri.

giovedì 18 agosto 2016

Franto's, semplicemente fraternità

      Qualche settimana fa, avendo bisogno di sostituire persone che sostituissero la nostra badante durante il periodo delle sue ferie, ho conosciuto la Franto's, associazione peruviana di badanti che ha sede in corso Allamano 94 a Torino.
      Fin dal primo incontro con Luis Alfredo Rodriguez, fondatore e generosissimo cuore pulsante della Franto's (fra parentesi, l'ha chiamata così accorpando le prime lettere dei nomi delle sue figlie, Francesca e Antonella), l'impressione è stata ottima. Un po' di esperienze passate, non sempre positive, col mondo dell'assistenza alle persone mi ha reso in grado di riconoscere a prima vista chi sa unire l'umanità alla professionalità e alla preparazione. E questo mi è risultato subito evidente dalla disponibilità, dal sorriso e dalla competenza di Luis Alfredo nel gestire l'organizzazione dell'assistenza a domicilio.
      Fin da bambino avevo acquisito un punto fermo: mestieri come il medico e l'insegnante devono essere svolti solo da chi ha la vocazione per queste attività. Da qualche anno a queste due professioni se ne deve aggiungere una: quella della badante (o del badante). Quando si deve lavorare per aiutare delle persone, si deve avere il carattere adatto, in primo luogo dimostrare pazienza e gentilezza, e si deve essere disponibili in ogni minuto della collaborazione domestica.
      In pari tempo, da anni ho maturato un altro fermo convincimento: quello della badante (o del badante) non è un mestiere di serie B, al contrario, è un mestiere altamente meritorio e impegnativo che richiede preparazione e conoscenze di altissimo livello, perché le problematiche delle persone che devono essere assistite (si pensi ai disabili gravi e agli anziani che soffrono di Alzheimer) sono tali che non si deve lasciare nulla al caso, non si deve assolutamente affidare la loro assistenza ad un approccio superficiale e basato solo sulla buona volontà.
      Queste due coordinate cartesiane nel formare le persone destinate all'assistenza, umanità e professionalità, ho trovato al 100 % non solo in Luis Alfredo ma anche nei due operatori che egli mi ha mandato, Luis Alexander e Renzo. Fin dal colloquio introduttivo, ho visto che erano, che sono persone del tutto affidabili.
       Aggiungo che la nostra situazione familiare è alquanto difficile: io sono disabile e mio padre, ultranovantenne, è affetto da Alzheimer e in certi momenti prendersi cura di lui è veramente difficile, oltre ad essere doloroso nel vedere una persona cara stare così male.
      Ebbene, sia Luis Alexander che Renzo sono sempre stati all'altezza dei loro compiti, con dedizione, con serietà professionale e anche con quella serena e pacata allegria che ha consentito di sdrammatizzare alcuni momenti difficili.
      In particolare, a Luis Alexander è toccato gestire un momento estremamente difficile, quella sera in cui mio padre ha avuto una fibrillazione atriale con perdita di conoscenza ed è stato portato al Pronto Soccorso, crisi per fortuna superata. Luis Alexander è stato encomiabile, non solo nel gestire la chiamata al 118 ma anche nell'accompagnarmi all'Ospedale, nello starmi vicino, nel farmi coraggio.
      Si dice che gli amici si vedono nel momento del bisogno. In passato, purtroppo, ho avuto esperienze non molto positive, quando mia madre, scomparsa l'anno successivo, ebbe il primo grave problema di salute e una delle badanti di allora si dileguò letteralmente, accampando ogni scusa possibile per non rimanerle vicino in ospedale. Questa volta, per fortuna, è accaduto il contrario: l'amico Luis Alexander mi è rimasto sempre vicino, non mi ha abbandonato nei momenti in cui avevo più bisogno di sostegno.
      Così come sia lui che Renzo ci hanno sempre assistito nel migliore dei modi, aiutandoci nelle nostre necessità quotidiane e somministrando con puntualità a mio padre i farmaci prescritti.
      Merito di Luis Alexander e di Renzo, certamente, ma anche merito delle persone come Luis Alfredo, che selezionano e formano le badanti e i badanti.
       Concludo dicendo che questa mia esperienza con la Franto's si è conclusa come meglio non poteva concludersi: non solo ho trovato un solidissimo punto di riferimento per l'assistenza familiare ma ho anche trovato degli amici. E gli amici, si sa, sono il sale della vita.

lunedì 15 agosto 2016

Ferragosto con "Il sorpasso"

      Lo ammetto: mi piacciono le abitudini, le consuetudini. Pur non essendo un precisino maniacale, anzi, detestando chi è incapace di cambiare una decisione al volo per un imprevisto, penso che certe consuetudini consentono un ritmo ordinato e quindi salutare di vita. E a volte sono anche gradevoli.
      Fra queste ultime, vi sono quelle cinematografiche. Amo vedere certi film in periodi dell'anno che corrispondono alla collocazione temporale della storia narrata nei film medesimi. Ad esempio, sono solito guardare in periodo autunnale Racconto d’autunno di Erich Rohmer e, durante le feste di fine anno, Raccondo d'inverno, sempre di Rohmer.

      Ma la consuetudine cinefila di più antica data è per me costituita dalla visione in cassetta de Il sorpasso di Dino Risi, ambientato a Ferragosto. Naturalmente lo guardo il 15 di agosto. E mi accingo a farlo anche domani.
      E' per me un capolavoro, in cui i ritmi veloci e quelli lenti si alternano mirabilmente, risultando assemblati in modo perfetto. Il finale, poi, è da incorniciare: crudo, brutale, amaro, anticonformista, negazione della logica del lieto fine.
      Il Ferragosto dell'Italia del boom economico, dell'inizio del turismo di massa, vi è rappresentato in modo efficace. Un'Italia popolata da persone sbruffone e cialtrone, come il Bruno Cortona magistralmente interpretato dall'indimenticabile Vittorio Gassman.
      La storiografia del cinema ha poi rivelato che questo ruolo avrebbe dovuto essere di Alberto Sordi. Ho provato a immaginare quest'ultimo a bordo del duetto impegnato a duettare col Roberto Mariani interpretato dall'allora giovane Jean-Louis Trintignant. Francamente, non credo che avrebbe sostenuto il ruolo di Bruno Cortona come l'ha fatto il grande Gassman, non fosse altro che per l'alta statura di quest'ultimo, che anche fisicamente rendeva evidente la soggezione psicologica che il suo personaggio incuteva a Roberto Mariani.
      Oggi l'Italia sembra cambiata: almeno, le città a Ferragosto non si svuotano più come negli anni '60. Ma il fatto che sia ancora piena di gente come Bruno Cortona e che questa gente conti ancora di più di 40-45 anni fa, costituisce la prova che di progresso civico il nostro Paese ne ha fatto ben poco.

sabato 13 agosto 2016

Ferragosto a Villa

      Risale al 1983 l'ultima volta che sono stato in vacanza a Villa Minozzo, paese natale di mio padre. Dopo di allora, ci sono tornato due volte: nel 2012 per un evento festoso, il matrimonio di mia cugina Federica e di Luca; e nel 2015 per un evento luttuoso, i funerali di mio cugino Fernando.
      Fino al 1971 eravamo andati in quella località dell'Appennino reggiano nel mese di agosto. Per un po' di anni (tranne nel periodo 1969-74, quando trascorrevamo le ferie di mio padre un po' al mare e un po' nell'Appennino), festeggiammo il Ferragosto a Villa (il Comune di Villa Minozzo è composto da 18 frazioni, tra cui Villa e Minozzo, per cui siamo abituati a chiamare il posto dove abitano i nostri parenti semplicemente "Villa").
      Ferragosto nel ramo paterno della mia famiglia aveva un significato tutto particolare.
      E' una festa dedicata alla Madonna e quindi la consideravamo un po' l'onomastico della mia nonnina, che si chiamava Anna Maria. Fino a che visse, era dunque la sua festa; da quando è morta, nel 1971, Ferragosto divenne per tutti noi un giorno in cui ricordarla.
      Inoltre, Ferragosto cade nel periodo in cui all'epoca quasi tutti andavano in ferie e a Villa si trovavano anche tutti quei suoi ex cittadini (compreso mio padre) che nel corso degli anni si erano sparpagliati altrove per cercare una vita migliore. Il 15 agosto, dunque, le famiglie si trovavano riunite, sia pure per pochi giorni.
      Soprattutto il mio padrino, lo zio Ennio, ci teneva tantissimo a vedere la famiglia riunita al pranzo di Ferragosto. Spesso veniva accontentato; altre volte no, soprattutto da quando i miei cugini, messa su famiglia, dovettero, come dire?, dividere le festività fra i parenti di sangue e quelli acquisiti.
      Non è che si facessero grandi cose ma ricordo ancora oggi con piacere e serenità quei Ferragosto in cui ci si sedeva tutti o quasi tutti allo stesso tavolo, si mangiava piatti più prelibati del solito (impossibile dimenticare gli squisiti ravioli alla ricotta conditi col ragù alla bolognese e con abbondanti cucchiaiate di parmigiano-reggiano grattugiato!) e si chiacchierava rilassati ed allegri.


      Nostalgia per l'atmosfera di quegli anni? Forse. Ma di sicuro i ricordi di quei Ferragosto sono ancora vivi in me e mi fanno ancora respirare un clima famigliare ormai lontano negli anni.

giovedì 4 agosto 2016

Pianta sui resti di una vita

Nei giardini di pietra,
consacrati al ricordo,
al ricordo di strazio
e di dolcezza intriso,

puoi trovare, al posto
di litiche lastre,
piantine che crescono
sopra i resti di vite,
sopra amate salme
alla Natura consegnate.

Pianta sui resti di una vita:
metafora della vita
che nell'oblio non cade,
del ricordo che non si scolora
e che continua a produrre
sorrisi, gratitudine,
vuoto e pianto.

Pianta sui resti di una vita:
innaffiata dalla pioggia
che cade dal cielo
e dalle lacrime che cadono
da occhi di cari dolenti.

Pianta sui resti di una vita,
da cui sbocciano fiori
che rendono omaggio al defunto
e che ravvivano il ricordo,

fiori che in una stagione sbucano
da verdi e sottili rami
e che in un'altra cadono,
coi petali che vanno a ricoprire
con dolce e calda tenerezza
il terreno giaciglio dove
le amate spoglie riposano.

Pianta sui resti di una vita:
l'anno successivo altri fiori darà,
in una perenne alternanza
fra sguardi che mantengono saldo
il legame con chi non c'è più
e sguardi proiettati al futuro,
un futuro di vuoti incolmabili
e di cose da costruire,
nonostante tutto.



martedì 2 agosto 2016

Notturno torinese

      Il telefilm poliziesco francese è appena finito. Spengo la tv, spengo la luce. Il sonno non c’è, il balcone mi invita a gettare uno sguardo sul mondo: accolgo l’invito.
      L’aria è più fresca: il breve e mite temporale ha da poco vinto la sua partita con l’afa, pronta comunque a prendersi la rivincita al prossimo levarsi del sole.
      In strada pochi passanti, anonimi e silenziosi, passano seguendo la corrente della vita nuotando a piedi lungo i fiumi chiamati marciapiedi.
      Sotto casa c’è un crocchio di cani legati al guinzaglio: socializzano, accennano a sprazzi di gioco. Uno, di piccola mole, viene tirato via dalla sua padrona: resiste, allunga il guinzaglio per tornare indietro dai suoi simili. Al quarto tira e molla la padrona, peraltro senza alcuna rudezza, lo prende in braccio e se lo porta via, indennizzandolo con tenere coccole per la separazione dai suoi simili.
      Ai bordi d’un marciapiede è accostata un’autovettura, coi finestrini anteriori abbassati ed i lampeggianti in funzione. Si profila all’attenzione non della vista ma dell’udito: urla di un litigio tra fidanzati rivelano la sua presenza. La mente, senza volerlo, corre ai tanti omicidi passionali di cui son piene le cronache. Per un attimo temo possa trattarsi del prologo d’una nuova tragedia. Ma il proseguimento del dissidio per fortuna allontana i timori: lui non è aggressivo, anzi, sembra preda della rassegnazione di non poter venire a capo del loro piccolo dramma. E’ lei ad urlare, anche se sembra soltanto volere fargli comprendere la realtà d’una situazione che non vuole accettare e che sembra dividerli.
      Dall’altra parte della strada un’altra auto si ferma. Ne scende un uomo, estrae dal bagagliaio una sedia a rotelle e l’accosta a una portiera. Ha portato a casa un amico che non può camminare, a cui ha regalato una serata in mezzo agli altri. Se i due litigiosi ragazzi avessero occhi per questa bella scena, capirebbero che al mondo c’è gente che sta peggio di loro e forse darebbero altro tono al loro amoroso scontro.
      Ma il litigio prosegue, con parole urlate da lei e lui a subire, con la fronte sconsolatamente poggiata su una mano, incapace di trovare risposte alle grida di lei, pieno soltanto di un pianto che non vuole uscire dai suoi occhi. Prosegue la lite e gli strilli di lei, incurante del disturbo che arreca a chi riposa con le finestre aperte, vengono a tratti coperte dal rumore delle auto che sgranate sfrecciano lungo il nastro asfaltato. Prosegue la lite, con le urla di lei che si alternano a pause di silenzio, come per consentire ai suoi polmoni e alle sue argomentazioni di riprendere fiato; lui, intanto, solo ogni tanto risponde, rimanendo per lo più passivo a guardare di fuori, probabilmente non vedendo neanche la strada ma soltanto il suo futuro con lei andare in frantumi.
      Passa un gatto randagio, corre guardingo rasente i muri, come per tenersi lontano dalla furia che infuria all’interno dell’auto.
      Alla fine il litigio ha fine: lei apre la portiera, accenna a scendere; lui cerca di trattenerla ma, dopo una breve e incruente lotta, lei esce dall’auto, grida: ”Sono stufa!”, e attraversa la strada, verso il portone di casa. Lui mette in moto e, con una sgommata, lascia il posto dove forse è finito un amore.
      Cala il silenzio ma è solo una effimera tregua: auto isolate continueranno a tener sveglia la notte.

27 luglio 2012.