martedì 27 settembre 2016

Scherzi degli anni '70

      In uno dei suoi articoli, poi riuniti nel volume Sette anni di desiderio, Umberto Eco notava come ciò che fa scattare la risata è il rovesciamento della realtà. O, quanto meno, un evento che produce effetti non prevedibili.
      Anche gli effetti di uno scherzo rispondono a questa "legge", essendo lo scopo dello scherzo riempire di ridicolo chi non se lo aspetta. A maggior ragione se la "vittima" non sa stare agli scherzi.
      La risata per uno scherzo riuscito è un fatto istintivo e, come per le barzellette, segue sia uno scherzo simpatico che uno scherzo bastardo. Poi, vagliando l'evento sotto la lente della morale, è doveroso prendere le distanze da azioni cattive o che comunque, anche senza intenzione da chi le ha compiute, hanno prodotto sofferenza, fisica o morale che sia.
      Ammetto di essere uno che ride di gusto per una barzelletta stronza o per uno scherzo idiota. Ma, da un po' di anni a questa parte, mi fermo lì: l'etica mi impone di non raccontare una barzelletta cattiva che ho sentito e di non fare scherzi che mi hanno raccontato.
      Mai e poi mai, dunque, inviterei chicchessia a ripetere gli scherzi che andavano per la maggiore negli anni '70 del secolo scorso. Ma forse posso rievocarli con un minimo di ironia e senza alcuna perfidia.

      Cominciamo dalle "stecche". La stecca, pratica diffusa nei primi anni '70, consisteva nello sfiorare con la nocca di un dito (di solito il medio, per via delle sue dimensioni maggiori) il sedere di una ragazza con un rapido movimento dall'alto verso il basso: l'effetto era di farle fare un bel salto, soprattutto se aveva il busto piegato in avanti.
       Verso la metà del decennio, qualche sadico si inventò una variazione: infilarsi al dito un anello metallico e con esso sfiorare il fondoschiena della vittima. A detta delle poveracce che sperimentarono sulla propria pelle questa evoluzione della stecca, la sensazione provata era quella di sentirsi sfiorare il lato B da un ferro rovente.

      La stecca venne alfine abbandonata ed ecco spuntare all'orizzonte uno scherzo ben più pesante. E DA NON FARE, NEMMENO AL GIORNO D'OGGI. Quello cioè delle pacche motorizzate.
      La dinamica era questa: un ragazzaccio si caricava un passeggero sul motorino (azione ora vietata dal codice della strada) e rifilava una pacca sul sedere ad una ragazza che si trovava a passeggiare sulla strada e che era stata individuata come bersaglio. E via proseguendo, con la corsa in moto e con le pacche ad altre ragazze.
      Qualcuno però esagerava e, scherzi a parte (è proprio il caso di dirlo), rischiava di compiere una tragedia. Come accadde al cugino di un mio ex compagno di classe alle Medie Inferiori. Cosa fece l'idiota?
      Salì come passeggero non su un motorino ma su una moto di media cilindrata e diede ordine al centauro di piombare a tutto gas su una ragazza che aveva individuato come target. Ma, a differenza dei motorini (che consentivano ai "paccheggiatori" di raggiungere gli ambiti glutei a una velocità di circa 30 km/ h), la moto raggiunse il bersaglio a 70 km/h. Il risultato inevitabile fu che, per il contatto mano-fondoschiena, il cugino del mio amico venne sbalzato di sella e cadde rovinosamente sull'asfalto rompendosi una gamba, mentre la povera ragazza rimase per delle settimane col segno di cinque dita stampate sul fondoschiena.

      Anche le pacche motorizzate PER FORTUNA passarono di moda e vennero sostituite, verso la fine del decennio, dai gavettoni con sacchetto. A differenza dei tradizionali e innocui gavettoni col secchio, che consistevano nel gettare acqua addosso agli amici, quelli con sacchetto erano decisamente bastardi: un sacchetto di plastica veniva riempito d'acqua e poi gettato sui passanti dal passeggero di una moto in corsa. Ovvio che l'impatto era molto più traumatico e potenzialmente pericoloso.
      Vi era però un'altra versione del gavettone con sacchetto: quello che veniva tirato, in verticale, dai balconi. Potevano colpire le persone che passavano di sotto, e la cosa non era per niente piacevole in quanto la massa del sacchetto pieno d'acqua era decisamente superiore all'acqua tirata col gavettone tradizionale, oppure essere indirizzati sulle automobili parcheggiate in strada, con danni di non poco conto, come ammaccature al tetto o parabrezza mandato in frantumi.
      Ricordo che all'epoca una delle più scatenate praticanti dei gavettoni dai balconi era una ragazza che abitava nel condominio dove vivevo anch'io, col suo ragazzo che le andava dietro. Ironia della sorte: come nel finale di film come American Graffiti e Animal House, in cui si vede quello che sarebbero diventati i protagonisti vent'anni o più dopo, quella ragazza è ora una seria insegnante di materie umanistiche in un liceo classico e il suo fidanzato di allora è diventato un noto e stimatissimo docente universitario. E' proprio vero che si cambia nel corso della vita.

sabato 17 settembre 2016

Pseudoarcheologia da film

Da qualche decennio nei film di avventura si è delineato un sottogenere che può essere definito archeologico o, per meglio dire pseudoarcheologico.
Intendiamoci: non ho alcunché in contrario a film come quelli che vedono come protagonisti Indiana Jones o Lara Croft e a serie come Relic Hunter o Jack Hunter. Anzi, a me piacciono.
Tuttavia, rischiano di fornire un pessimo servizio all'archeologia in particolare e alla ricerca scientifica in generale.
L'archeologia, infatti, è materia complessa, metodica, certosina, non certamente da eroi che assomigliano più ad agenti segreti superallenati che a studiosi che, prima ancora che negli scavi, si cimentano con testi e che, se fanno delle scoperte, le catalogano con assoluto rigore scientifico e mettono i loro studi a disposizione dei colleghi per una indispensabile verifica sperimentale. Senza tener conto del fatto, poi, che al giorno d'oggi le campagne di scavo vengono studiate a tavolino e la scelta dei siti non avviene più in modo empirico, cioè con intuizioni che possono anche rivelarsi esatte, come avveniva ai tempi di Heinrich Schliemann.
Così come è errata l'immagine che film e telefilm danno dell'archeologo "tuttologo", che si muove da esperto tanto nei siti egizi quanto in quelli maya, tanto nei siti greci quanto in quelli inca. Un archeologo, di solito, è specializzato in un solo ramo ed è già tanto che di quel ramo conosca quasi tutto, dai reperti rinvenuti nel corso dei secoli, alle epigrafi e ai testi antichi, alla sempre più vasta bibliografia, agli strumenti di ricerca e di analisi scientifica che la moderna tecnologia mette sempre di più a disposizione. Certo, per sua cultura e piacere personale, un egittologo potrà anche avere un'eccellente conoscenza delle civiltà precolombiane, così come un etruscologo potrà averla della civiltà della Magna Grecia, ma entrambi non saranno specialisti delle discipline che seguono a tempo perso.
Una realtà, quella dell'archeologo studioso, molto diversa dall'ambientazione avventurosa in cui cinema e televisione spesso lo collocano.

mercoledì 14 settembre 2016

Il giardiniere ambizioso

      C’era una volta un giardiniere. Viveva in un villaggio dove tutti lo stimavano e apprezzavano il modo con cui coltivava gerani, ortensie, petunie e rose. Lavorava i giardini di chi era abbastanza ricco da poterseli mantenere e nel tempo libero aveva un suo vivaio, dove coltivava fiori che vendeva a tutti gli abitanti del villaggio.
      Era sempre stato felice della vita che conduceva e del suo lavoro, che gli dava soddisfazioni non solo materiali. D’altronde, chi mai può essere scontento di un mestiere che non solo ti dà da vivere ma che ti consente anche di stare a contatto con la Natura e di produrre come risultato del tuo lavoro opere vive intrise di bellezza?
      Un giorno, però, passò per il villaggio un fioraio ambulante. Vendeva fiori esotici: ninfee, azalee, orchidee.
      Il giardiniere fu catturato da questi fiori, che non aveva mai visto prima di allora. Ne comprò alcuni ma soprattutto ne acquistò i semi, che provvide subito a piantare.
      Passarono le settimane; passarono i mesi. Il giardiniere non aveva occhi che per le zolle dove aveva piantato le ninfee, le azalee e le orchidee; le innaffiava di continuo, le proteggeva con delle serre, le osservava anche nei momenti liberi; e trascurava gli altri fiori del suo vivaio, come se rose, gerani, ortensie e petunie non avessero mai ricevuto le sue cure e non gli avessero mai dato da vivere. Soprattutto, non le innaffiava più abbastanza, perché incanalava gran parte dell’acqua che aveva a disposizione in enormi vasche che si era costruito apposta e in cui aveva posto le ninfee, piante galleggianti dal fiore bianco. Eh, sì, il vedere delle piante nutrirsi e crescere sull’acqua anziché avere le radici piantate nella terra costituiva per i suoi occhi una delizia che gli rendeva indifferente i miracoli della Natura a cui assisteva da anni e che consistevano nel germogliare e nel fiorire di tutte le altre piante.
      Quando si accorse che per il clima le ninfee, le azalee e le orchidee non riuscivano a spuntare dal terreno, il giardiniere tornò dai vecchi fiori che aveva trascurato e scoprì con dolore che erano tutti appassiti, morti.
      Solo allora si rese conto di avere avuto la bellezza a portata di mano e di non averne assaporato tutto il valore per correre dietro a qualcosa che credeva più bello ma che non era fatto per lui.

giovedì 8 settembre 2016

Che fine facesti, o ninfa?

      Che fine facesti, o ninfa, colpevole solo d'esserti abbandonata al più puro dei sentimenti, nel qual spirito e corpo si fondono in armonia perfetta?
      Sette anni d'amore, spartito col naufrago Odisseo, furon per te futura fonte di gioia sorgente dai ricordi o di perenne strazio, ben più artigliante d'una storia durata pochi giorni o mesi?
      Piangesti in eterno il mortale da te amato, tendendo l'orecchio all'ingresso dell'Averno per percepirne la cavernosa voce?
      Chiedesti a Zeus il privilegio di diventar mortale per buttarti da una rupe nel mare di Ogigia?
      Incontrasti nuovi amori, che consegnarono quello con Odisseo all'indice dei capitoli chiusi della vita, da rivedere con la lettura ma da non aggiornare con nuove glosse?
      Questo, Calipso, il cieco cantor non ci disse: a noi, mortali di millenni dopo, la libertà di assegnarti il destino da noi preferito, forse anche desiderato.