lunedì 25 gennaio 2016

Bungalow Park

      Per cinque anni, dal 1970 al 1974, abbiamo passato un paio di settimane di vacanze al mare al Bungalow Park di Marina di Carrara.
      Era un campeggio quasi completamente occupato da bungalow (un incendio successivo al 1974 ne distrusse la gran parte e l’area lasciata libera venne destinata alle tende), ubicato al confine, segnato da un rivolo maleodorante, fra Marina di Carrara e Marina di Massa. L’ultimo tratto di strada che conduceva ad esso non era nemmeno asfaltato, anzi, la strada (che separava il camping dal mare) terminava a Marina di Carrara, per cui si godeva di una tranquillità assoluta, nemmeno turbata dalla ferrovia secondaria che correva alle spalle del campeggio, lungo la quale passavano pochissimi treni al giorno.
      Le automobili dei villeggianti venivano parcheggiate fuori dal campeggio, in posti auto coperti da una tettoia di stuoie. Non erano ancora arrivati i tempi in cui ti rubano la macchina sotto casa.
      Il mare davanti al Bungalow Park non aveva spiaggia e bagnava una costa fatta di massi e pietre, che veniva “rifornita” ogni tanto dal materiale di scarto che portavano dalle cavi di marmo delle vicine Alpi Apuane. I primi due anni i miei genitori mi portavano in spiaggia sul lato esterno del molo del porto, sito più a nord: una spiaggia senza sabbia, costituita da pietre nella parte non bagnata dal mare e da ghiaia nella battigia; successivamente, venimmo a sapere che, “sconfinando” a Marina di Massa, c’era una bella spiaggia sabbiosa e andammo là.
      Ma si poteva fare il bagno anche all’interno del camping, dotato com’era di una piccola piscina che i gestori pulivano regolarmente e riempivano metà con acqua marina e metà con acqua dolce.
      Di solito, non solo noi ma anche gli altri ospiti andavano in spiaggia alla mattina e facevano il bagno in piscina al pomeriggio. La piscina interna era comoda soprattutto per le mamme, che potevano sorvegliare i bambini e i ragazzi a bordo vasca senza timore che uscissero dal campeggio.
      E così le giornate scorrevano con un ritmo che si tramandava di anno in anno: colazione al mattino con pizza bianca appena sfornata, acquistata in un negozio poco distante; bagni di sole e di mare in spiaggia; pranzo, a base di pesce o di fritto misto; riposino pomeridiano; tuffi in piscina; cena. Alla sera c’erano varie alternative: fare una passeggiata a piedi seguendo la costa (il lungomare vero e proprio, dotato cioè di passaggio lastricato e di balaustre, non c’era), guardare la tv presso quei pochi ospiti del camping che avevano il televisore portatile; andare a vedere un film nel cinema all’aperto poco distante; fare una capatina in macchina nel centro di Marina di Carrara, dove si parcheggiava l’auto e si facevano quattro passi a piedi.

      Proprio nel centro della località toscana assistemmo ad una scena divertente, che ancora oggi rallegra le nostre chiacchierate a base di ricordi. All’uscita da una trattoria c’era un signore, abbastanza avanti con gli anni e con addosso la maglietta a strisce orizzontali tipica dei marinai; era palesemente ubriaco, come si evinceva dallo sguardo assente e dai movimenti imprecisi, e all’improvviso si mise a cantare ripetendo il ritornello: “Voglio un bel piatto di gnocchi! Voglio un bel piatto di gnocchi!”.

      In quegli anni non si era ancora diffusa la moda, che a volte è diventata mania, dei viaggi esotici, delle vacanze da passare a tutti i costi all’estero o comunque in un posto diverso da quello dell’anno precedente. E così ogni anno al Bungalow Park trovavamo quasi tutte le famiglie degli anni prima, cosicché anche in vacanza sembrava di essere a casa, in mezzo a persone conosciute, in una sorta di grande famiglia in cui il rilassamento delle ferie consentiva l’intrecciarsi di chiacchiere e conoscenze più aperte e distese di quelle che si coltivano nel periodo lavorativo dell’anno.
      Le famiglie provenivano per lo più da zone limitrofe alla provincia di Carrara: da Parma e da Reggio Emilia, da Prato e da Firenze. Ma c’erano anche i Piemontesi, come noi e come la famiglia di Luigi, che con moglie e due figli ancora bambini veniva da Abbadia Alpina (frazione del Comune di Pinerolo, nel Torinese).
      Sono tanti i ricordi di cose belle legate a Luigi.
      A lui devo la scoperta di due settimanali allora molto in voga (“L’Intrepido”, più orientato verso lo sport, e “Il Monello”, più orientato verso il mondo dello spettacolo) e in particolare delle avventure a fumetti in essi contenute, come Iber, Ghibli e il mitico Billy Bis.
      In un’epoca in cui i bungalow non erano dotati di televisore e non tutti avevano il portatile, era da Luigi che andavo a vedere qualche film o qualche evento sportivo. Il riunirsi attorno ad un apparecchio televisivo era allora anche una forma di aggregazione, a differenza del giorno d’oggi, in cui la tv per lo più isola le persone.
       Fu insieme a Luigi che nel 1972 vidi un esaltante e drammatico Mondiale di Ciclismo vinto da Marino Basso, che bruciò sul traguardo Franco Bitossi, raggiunto a pochi centimetri dal traguardo dopo una lunghissima fuga solitaria. Sullo sport in tv Luigi sosteneva che gli spettacoli più belli erano le riunioni di atletica leggera (che d’estate andavano in onda quasi tutti i mercoledì sera) e di ciclismo su pista (oggi praticamente sparite dai palinsesti televisive).
      Grande tifoso del Torino, Luigi era solito discutere di calcio, soprattutto con gli juventini. Ma sempre con ironia e senza cattiveria: in quegli anni il tifo non era ancora avvelenato dall’odio e dalla volgarità. E gli scherzi erano fatti da amico ad amico, per divertire e non per ferire.
      Ricordo quella volta in cui il signor Gualtiero, proprietario del camping e tifosissimo bianconero, la mattina dell’arrivo di Luigi e della sua famiglia gli fece trovare una foto della Juventus attaccata alla porta del bungalow da lui prenotato.
      Uno scherzo un po’ più pesante glielo fecero durante una delle vacanze successive. Luigi aveva preso un cane, un bel meticcio bianco di nome Tarzan. Or bene, qualche juventino del campeggio gli sequestrò per alcuni minuti la simpatica bestiola e gli dipinse sul corpo delle strisce con della vernice nera, facendolo così diventare un cane juventino. Superfluo aggiungere che, quando Tarzan venne liberato e tornò da suo padrone, Luigi provvide subito a lavarlo, per lavare … l’onta.
      A proposito di Tarzan, come non concludere questo post senza menzionare un episodio spassosissimo che vide Luigi come protagonista? Eravamo andati al cinema all’aperto per vedere un film su Tarzan e, dopo aver fatto i biglietti, stavamo aspettando che aprissero le porte; a un certo punto Luigi si mise a fare l’imitazione di Cita e lo fece talmente ben che sembrava proprio uno scimpanzé!

sabato 9 gennaio 2016

E dalla nebbia sbucò un signor dal cupo aspetto

      E' strana la memoria.
      Oggi, apprendendo della scomparsa di Gianni Rondolino, benemerito storico del cinema, mi è tornata in mente una mia figuraccia, che era rimasta sepolta decenni nel mio inconscio.
      E che nulla ebbe a che vedere col prof. Rondolino.
      Il fatto è che, quando frequentai Lettere e Filosofia a Torino, il prof. Rondolino era ordinario di Storia del Cinema e la mia mente ne ha associato la cattedra a quella di Storia del Teatro, che in quegli anni era retta da Gian Renzo Morteo.
      E proprio a proposito del prof. Morteo feci quella figura di merda.
      Non all'Università ma prima.

      Negli anni delle Medie Superiori, ogni tanto l'I.T.C. "Elio Vittorini", che frequentavo con discreto e, soprattutto, goliardico profitto, organizzava dei corsi pomeridiani al di fuori del programma scolastico.
      Se ricordo bene, fu in Quinta che organizzò una serie di lezioni di Storia del Teatro, che sarebbero state tenute dal prof. Morteo.
      La prof.ssa Vasario, nostra docente di Lettere e Storia, ci invitò ad andare all'incontro preliminare col prof. Morteo, incontro che avrebbe definito contenuti ed orari di quel corso.
      E così, un plumbeo tardo pomeriggio d'autunno, io e Richetto ci recammo a Grugliasco. Stranamente Antonio non era venuto; di solito formavamo un trio inseparabile.
      Poiché eravamo in anticipo, ci fermammo a chiacchierare un po' sulla balconata che dava sul parcheggio delle auto.
      Forse era novembre, il mese della nebbia. Fatto sta che la nebbia scese, riducendo a pochi metri la visibilità.
      A un certo punto, dall'umida coltre opaca sbucò un uomo: occhiali, sciarpa al collo, vestito di scuro, aspetto cupo, se non vagamente funebre.
      Si diresse verso l'ingresso dell'"Elio Vittorini", ubicato di lato rispetto alla balconata, e vi entrò.
      Dopo averlo visto passare in silenzio, rimasti di nuovo soli, io e Richetto, si può dire all'unisono, ci chiedemmo a vicenda: "Sarà mica quello Morteo?". E ci mettemmo a ridere.
      Dopo un po' arrivò la prof.ssa Vasario, arrivarono altre docenti, arrivarono gli altri studenti e studentesse interessate a quel corso. Entrammo anche noi, raggiungendo la sala dove era stato organizzato l'incontro.
      E al momento della presentazione del visiting professor io e Richetto scoprimmo di avere delle doti profetiche:il tipo dall'aspetto cupo era proprio il prof. Morteo!
      Che poi, cupo non era per niente, anzi: chi lo conobbe e lo frequentò, come colleghi e studenti universitari, concorda che aveva una notevole e raffinata ironia ed autoironia.
      Fatto sta che, durante quell'incontro, io e Richetto facemmo più attenzione a non metterci a ridere che a quello che si diceva. Distogliendo subitamente gli sguardi ogni volta che i nostri occhi ci incontravano, per non venire colti dalla ridarella.
      C'eravamo quasi riusciti a comportarci da persone serie. Se non  che, verso la fine dell'incontro, la prof.ssa Vasario volle chiedere qualcosa al prof. Morteo ma, essendosi seduta in fondo alla sala, non riuscì ad attirare l'attenzione dell'insigne cattedratico alzando canonicamente una mano e così disse ad alta voce: "Uuuuh! Uuuuh!", mettendosi pure a ridere.
      A quel punto si aprirono irresistibili le cateratte, non quelle acquee del Nilo ma quelle ridarole mie e di Richetto, che scoppiammo in plateali risate.
      La prof.ssa riuscì ad attirare l'attenzione del prof. Morteo ed a porgli la domanda, ovviamente ricevendo cortese ed esauriente risposta.
      Quanto a me e a Richetto, approfittammo del primo istante in cui nessuno stava guardando verso la porta della sala e uscimmo alla chetichella, ridendo come pazzi fino a quando, preso l'autobus, Richetto scese dal mezzo pubblico, mentre io proseguii il percorso fino a casa mia.
      Saggiamente, decidemmo di non iscriverci a quel corso di Storia del Teatro.

domenica 3 gennaio 2016

Il mio esame di Geografia a Lettere

Negli anni in cui frequentai la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino, l'esame più ostico era quello di Geografia, il quale, se andava male, non portava a un voto basso ma alla bocciatura, che consisteva nel sostenerlo di nuovo alla successiva sessione.
O, per meglio specificare, erano ostico l'esame di Geografia A, non quello di Geografia B.

Quando uno pensa alla Geografia, gli vengono in mente i programmi delle Medie, Inferiori e Superiori, e parte dal presupposto che gli esami universitari di questa materia siano a base di mari, monti, fiumi e pianure, di Regioni, Stati, Continenti, etc. Niente di più sbagliato: si tratta di un esame in gran parte consistente nello studio della metodologia, con tanto di teorie e formule, l'esame più difficile della Facoltà di Lettere e Filosofia dei miei tempi.
A ciò si aggiunga che uno dei due titolari di cattedra di Geografia era la severissima prof.ssa Sereno, che se poteva stangare qualcuno non si faceva di sicuro pregare. Non a caso, l'80 % degli insulti sulle pareti di Palazzo Nuovo (la sede delle Facoltà Umanistiche) era rivolto a lei. Io non sono e nemmeno all'epoca ero contrario alla severità in un docente, anzi, la ritengo una delle qualità per cui uno studente debba essere eternamente grato ai suoi professori ma c'è severità e severità, e quella della prof.ssa Sereno era una severità esagerata, eufemisticamente parlando.
Inserii l'esame di Geografia nel piano di studi non perché fossi particolarmente appassionato alla materia ma perché esso era uno di quelli necessari per poter essere abilitati all'insegnamento delle discipline umanistiche nelle allora Medie Superiori; non ero nemmeno interessato a quella carriera ma, in un periodo della mia vita in cui non sapevo ancora di preciso quale professione avrei svolto, ritenni giusto mantenermi aperta anche quella strada.
Ovviamente, per schivare il pericolo Sereno, scelsi l'esame di Geografia B, quello col prof. Adamo.
Il programma d'esame era diviso in due parti: una sull'Austria e l'altra sulla geografia urbana.
Il testo sulla geografia austriaca era tutto sommato abbordabile, non dissimile dai manuali su cui avevo studiato Geografia negli anni preuniversitari: comprendeva monti, fiumi, pianure, città, etc.
Vi era poi un volumetto sulla storia della geografia urbana, che spiegava le varie teorie presentate dai geografi che nel corso dei secoli si erano occupati delle città; e anch'esso non presentava grandi difficoltà.
Il terzo testo, sulla geografia urbana vera e propria, era invece allucinante, tutto composto da teorie impregnate di formule e grafici di difficile comprensione. Mi accorsi dopo poche pagine di non capirci assolutamente un fico secco. Non volendo rinunciare all'esame e toglierlo dal piano di studi, feci l'unica cosa possibile: imparare o, per meglio dire, cercare di imparare a memoria quel volume, di circa 200 pagine.
Venne il giorno dell'esame. Ero riuscito ad iscrivermi per primo o, per meglio dire, ad affiggere per primo sulla porta dello studio del prof. Adamo un foglietto recante nome e data dell'esame, seguito dal mio cognome e nome al primo posto della lista (era consuetudine che, man mano che arrivavano i candidati a un esame, scrivessero i loro nominativi su un foglio già affisso e quello sarebbe stato l'ordine con cui sarebbero stati interrogati). E quella fu la mia fortuna. Perché?
Perché l'esame era congiunto, Geografia A e B, e prevedeva la presenza sia della Sereno che di Adamo. Va be', si direbbe, io sarei comunque stato interrogato da Adamo, perché mi presentavo sul suo corso; le cose, per la verità, non stavano proprio così, come vedremo.
Quella mattina arrivò puntuale solo il prof. Adamo e diede il via all'esame senza attendere la prof.ssa Sereno, che era in ritardo. In pratica, cominciò con l'interrogare me.
Il prof. Adamo fu corretto: all'esame un docente non deve essere né indulgente né "carogna", deve fare le domande del caso e verificare in base alle risposte la preparazione degli studenti. E così fu il prof. Adamo.
Mi fece una domanda sull'Austria, una sulle teorie della geografia urbana elaborate dai vari studiosi e poi passò alla metodologia della geografia urbana.
Qui risposi citando a memoria (e meno male che l'avevo e ce l'ho ancora buona).
In quel mentre arrivò la Sereno, si sedette e prese ad ascoltare il finale del mio esame.
Dopo qualche secondo mi interruppe, dicendo che avrei dovuto spiegare più approfonditamente quello che avevo esposto.
Già, perché come pochissimi altri professori di Lettere e Filosofia anche lei aveva la pessima abitudine di intromettersi negli esami tenuti dai suoi colleghi.
Mi venne freddo: avevo risposto a memoria all'ultima domanda e, se avessi dovuto approfondire l'argomento, sarebbe sicuramente saltato fuori che non ci avevo capito niente.
A quel punto, però, il prof. Adamo, forse perché conosceva l'abitudine della prof. Sereno di rompere i coglioni, venne in mio soccorso e troncò la questione dicendo: "Non ce n'è bisogno, l'esame può finire qui". Prese il mio libretto universitario e mi diede 30.
Francamente, me ne andai via più sollevato per lo scampato pericolo che contento per il bel voto.
Chissà se, nel corso degli anni, qualche studente, in seguito agli sconfinamenti della Sereno negli esami altrui, le abbia detto: "Ma perché non si fa i cazzi Suoi?".
Probabilmente no. Si saranno limitati a scrivere col gessetto sulle pareti di Palazzo Nuovo qualche colorito insulto nei suoi confronti.