giovedì 22 ottobre 2015

L'epoca delle punture

      Leggendo il capitolo che Francesco Guccini ne Il dizionario delle cose perdute dedica alle iniezioni, ho constatato che nei vent'anni d'età che ci separano la "procedura" delle iniezioni rimase pressoché la stessa, nel senso che quella che lui, bambino, descrive per gli anni '40 del XX secolo sembra calzare alla perfezione con quella che io, bambino, ho dovuto sopportare negli anni '60.
     Fu solo verso la fine degli anni '70 che, col diffondersi delle siringhe monouso ad aghi sottili, le cose migliorarono decisamente per i fondoschiena di bambini ed adulti.

      Iella ha voluto che da bambino io soffrissi spesso di tonsilliti. E, all'epoca, tonsillite voleva dire iniezioni di penicillina. Per l'esattezza, il mio pediatra mi prescriveva la Vicillina e, più, spesso, la Trivicillina, antibiotici di diversa potenza ma dallo stesso effetto chiappico: il loro liquido, appena entrava nel gluteo, faceva decisamente male. Una volta, poi, mi presi una tonsillite a luglio, il mio pediatra era in ferie e il sostituto mi prescrisse una variante ancora più terribile della penicillina, contenente anche delle vitamine: farmaco talmente potente che se ne sentiva la puzza dalla siringa e che, per dirla con Massimo Boldi, faceva un male pazzesco.
      Non deve dunque sorprendere, dunque, che io abbia elaborato in quegli anni una strategia difensiva in cui l'istinto di sopravvivenza si armonizzava alla perfezione con l'elaborazione razionale: quando mi veniva una tonsillite, negavo categoricamente di avere male alla gola. E la mia povera mamma continuava a ripetere a parenti e conoscenti: "Ma come fa ad avere le tonsille infiammate se non ha mal di gola!".
      Tecnica che però, nonostante fosse sostenuta da una capacità di recitazione non comune che mi faceva apparire pieno di salute quando invece stavo malissimo, non funzionava mai. A causa di quel piccolo particolare clinico che fa sì che, di solito, una tonsillite è accompagnata da febbre alta. E così si innescava la catena di eventi che conduceva inevitabilmente alle iniezioni: la mamma mi vedeva un po' giù, mi toccava la fronte, la sentiva calda e anche se io le assicuravo che non avevo mal di gola mi misurava la temperatura, quel brutto bastardo del termometro schizzava regolarmente oltre i 38 gradi, la mamma chiamava il pediatra, il bravissimo dottor Piccato, il pediatra arrivava, si faceva dare dalla mamma un cucchiaio pulito, mi faceva aprire la bocca, mi infilava in bocca il manico del cucchiaio per bloccare la lingua e spalancare le mascelle onde poter vedere meglio la gola e alla fine, scorgendovi evidente arrossamento di tonsille e in qualche caso addirittura delle placche, sentenziava la diagnosi di tonsillite. Da lì ad estrarre dalla borsa il blocco per le ricette e scrivervi sopra il nome dell'antibiotico da farmi iniettare, il passo era breve, molto breve, brevissimo.

      Passata in giudicato la sentenza e recatasi in farmacia a prendere le fiale, la mamma andava a chiamare la signora che nel condominio "sapeva fare le punture".
      Dicasi "signora che sa fare le punture" individuo umano di sesso femminile che abbia acquisito conoscenza e pratica di fare le iniezioni senza essere infermiera.
      Lungo il corso della mia infanzia, ebbi due "signore che sapevano fare le punture": dapprima la signora Caterina Mignacco, che abitava al piano di sotto a quello dov'era l'alloggio dei miei genitori, e poi la signora Giuse Buzzetti, che invece abitava al nostro stesso piano. In seguito, le iniezioni me le fece la signorina Rita (Ritìn) Sobrà, la quale però era infermiera di professione. Da adulto, invece, ad avere l'ambito onore di bucherellarmi il sederino fu la signora Rita Contino ma ciò è stato in un'epoca in cui il farmi fare le iniezioni non mi procurava e non mi procura più alcun patema.
      Già, perché il mio rapporto con aghi e siringhe, com'è logico che sia per tutti, si è evoluto col passare degli anni.

     Da piccolino ero letteralmente terrorizzato dalle iniezioni. Non solo: cercavo in tutti i modi di impedirle: piangevo, urlavo, mi dimenavo, scalciavo.
      Il primo ricordo che ho delle punture risale a quando i miei genitori mi portarono a fare un vaccino in un ambulatorio pubblico. Dovrò avere avuto sui quattro anni d'età. Mi rivedo piangente e tutto intenzionato a non stare fermo ma non ricordo altro di quel giorno. Mia madre mi avrebbe poi raccontato che la malcapitata infermiera incaricata di inocularmi il vaccino fece le proverbiali fatiche di Ercole per riuscire infine a farmi la puntura.
      A farne le spese fu la signora Mignacco, la prima che mi fece le punture a domicilio, proprio perché coprì tutta la fase dei miei strazianti tentativi di ribellione.
      Il riuscire a farmi un'iniezione comportava all'epoca un sofisticato gioco di squadra. Dopo che i miei genitori con tutte le blandizie del caso erano riusciti a farmi mettere a pancia in già e a scoprirmi il culetto, arrivava la signora Mignacco con lo strumento di tortura in mano.
      Allora mia madre mi placcava letteralmente premendomi sulle spalle, mentre mio padre mi teneva lunghe e ferme le gambe impugnando le mie caviglie con le mani.
      E nonostante fossi piccolo e pure gracile di costituzione, nemmeno così il risultato era garantito, tant'è che spesso la signora Mignacco riusciva ad infilarmi l'ago della siringa in un gluteo solo dopo due o tre punture.
      A questo quadro, già drammatico di per sé, si aggiungeva il particolare che il contenuto della siringa doveva essere inoculato senza perdere troppo tempo, altrimenti il liquido si sarebbe solidificato e l'iniezione non avrebbe potuto essere fatta. In sostanza, la piccola belva in gabbia che ero io in quei momenti, pur con tutta la gentilezza possibile, andava punturata senza indugi e quindi con una certa dose di decisione.

      Ebbi questi atteggiamenti da resistenza disperata nei confronti delle iniezioni fino all'età di otto anni circa, quando un episodio cambiò il mio modo di affrontare sì dure prove di vita, anche se non diminuì minimamente la mia paura verso aghi e siringhe.
      I miei genitori e quelli di una mia compagna di classe, Cristina, si erano messi d'accordo per portarci insieme dal pediatra per farci fare la vaccinazione antitetanica e antidifterica.
      Arrivati che fummo nello suo studio, il dott. Piccato ci fece entrare insieme, con le nostre rispettive mamme, e chiese: "A chi faccio il vaccino per primo?".
      Vedendo che Cristina cominciava già a piagnucolare, ebbi l'intuizione: offrendomi volontario, potevo prendere due piccioni con una fava ossia farmi vedere coraggioso davanti a lei e levarmi il fastidio, anzi, la paura per l'iniezione il prima possibile.
      E così feci. Dissi che volevo andare io. Il pediatra, naturalmente, non mi fece alcun male, appena un pizzicotto (quel tipo di vaccino, d'altronde, ha un liquido assolutamente indolore) e mi liberai subito dal patema.
      Dopo di che, provai una sadica e non preventivata soddisfazione: vedere Cristina disperarsi nell'affrontare il supplizio, mentre io bello rilassato già sospiravo di sollievo.
      Da quel giorno non ho più fatto i capricci per gli aghi e le siringhe, pur continuando ad avere una fifa boia. Ma l'orgoglio di non farmi vedere vigliacco e piagnone ebbe la meglio sulla paura per le punture.

      Del resto, stavo imparando a distinguere i vari tipi di iniezioni e, genericamente, di punture in indolori e in dolorose.
      Fra le punture buone c'erano i vaccini e i prelievi di sangue, e smisi di  averne paura.
      Fra quelle cattive, quelle cioè che facevano un male pazzesco, c'erano le iniezioni di penicillina.
      Con queste ultime ebbi parecchi contatti. Non solo mi venivano fatte per curarmi le tonsilliti ma anche mi venivano propinate a scopo "preventivo". E' che, a sei anni d'età, accampando l'assurda scusa di un rischio nell'anestesia dovuto alla mia spasticità (panzana vera e propria, visto che in quegli anni andavo a farmi togliere i dentini da latte in narcosi con etere e non ci fu mai alcuna complicazione), non vollero operarmi di tonsillectomia e così il pediatra, basandosi sulle conoscenze scientifiche dell'epoca, mi prescrisse una profilassi di regolari iniezioni di penicillina ad ampio spettro, dapprima una ogni quindici giorni, poi una al mese (quando i valori del Titolo ASLO tornarono nella norma) e infine una ogni tre mesi: l'ultima che feci, ormai tredicenne, fu nel luglio del 1973. Oggi un medico che prescrivesse antibiotici come profilassi verrebbe radiato dall'albo professionale ma allora si credeva che potessero essere efficaci. Ma ovviamente non lo erano, tant'è vero che, fino alla fine delle Elementari, le tonsilliti continuarono a perseguitarmi, con ulteriori e più numerose iniezioni.

      Già, perché quando il pediatra veniva chiamato e mi trovava febbricitante e con la gola arrossata, il minimo che prescriveva erano due punture al giorno per tre giorni, poi ripassava a visitarmi e, se ero migliorato, mi attendevano altri tre-quattro giorni di una iniezione al dì.
      Nel caso del giorno in cui il mio sederino doveva suo malgrado concedere il bis, gli orari della bucherellatura erano collocati alla mattina dopo colazione e alla sera dopo cena.
      La mattina, grazie all'essere io ancora mezzo addormentato, la tensione per l'imminente tortura era quasi nulla: giusto appena il tempo di svegliarmi, ingurgitare il tè con due biscotti e mi ritrovavo col culetto per aria e la signora Mignacco o la signora Buzzetti in camera mia con la siringa in mano.
      Tiravo un sospiro di sollievo: era andata anche questa! Poi, fino a pranzo, filava tutto liscio e senza ansia. Dopo pranzo, invece, iniziava ad assalirmi l'apprensione per l'iniezione serale, paura che cresceva man mano che passavano le ore e toccava il suo fatale approdo quando il suono del campanello di casa annunciava l'arrivo della "signora che sapeva fare le punture".
       Secondo giornaliero sospiro di sollievo e poi, una volta guardata un po' di tv, a nanna tranquillo e beato. Stranamente, le iniezioni non popolarono mai i sogni delle mie notti da malatino.

      I periodi delle tonsilliti avevano almeno un vantaggio per ciò che concerneva la pratica bucherellatoria: ero a letto in camera mia e quindi non assistevo alla preparazione della siringa.
      Cosa che invece avveniva per le iniezioni della "profilassi" anti-tonsilliti.
      Di solito, mia madre sceglieva il sabato pomeriggio come giorno dell''esecuzione. "Così, - diceva a parenti e conoscenti, - la domenica non va a scuola e ha il tempo di riprendersi."
      Luogo dell'esecuzione era il tinello, con l'annesso cucinino per far bollire l'ago e la siringa, perché all'epoca non erano ancora in commercio le siringhe monouso sterilizzate.
      E così, una volta entrata la "signora che sapeva fare le punture", iniziava il sadico rituale.
      L'aguzzina prendeva la scatoletta metallica che conteneva ago, siringa e stantuffo, ne sollevava la barra che la chiudeva e la girava all'infuori affinché essa fungesse da manico, andava nel cucinino, vi versava dell'acqua corrente quasi fino all'orlo e la metteva a bollire.
      Quando l'acqua bolliva, spegneva il gas e portava nel tinello la scatola, depositandola su un asciugamano su cui mia madre aveva già depositato l'alcool, il cotone, la fiala dell'acqua distillata e la botticina della polvere dell'antibiotico nonché il seghetto per spezzare la fiala.
      Dopo di che, la "signora che sapeva fare le punture" lasciava passare un paio di minuti (per lasciare raffreddare un po' l'acqua che sommergeva l'ago e la siringa) e poi passava alla fase 2 della preparazione.
      Immergeva i polpastrelli nell'acqua per prendere siringa e stantuffo. A volte succedeva che l'acqua fosse ancora troppo calda e lei ritraesse di scatto le dita scottate. Mai abbastanza per impedirle per quel giorno di farmi l'iniezione.
      Con fare calmo e sicuro, la signora punturiera infilava lo stantuffo nella siringa e lo faceva andare su e giù due o tre volte per verificarne il funzionamento. Poi infilava l'ago sopra la siringa, uno di quegli aghi spessi che nulla avrebbero avuto a che fare con quelli sottili e indolori delle odierne siringhe monouso.
      Completato l'assemblaggio dell'arma impropria, passava ad immettervi il farmaco. Questa operazione constava di cinque passi:
         1) con un seghetto penetrava orizzontalmente fino a metà della fialetta dell'acqua distillata, che poi spezzava con una secca pressione delle dita; non sempre ci riusciva al primo tentativo;
         2) introduceva l'ago nella fiala spezzata e ne aspirava in contenuto nella siringa;
         3) infilava l'ago nel cappuccio di gomma nella boccettina contenente la polvere dell'antibiotico e vi iniettava l'acqua distillata;
         4) scuoteva la boccettina con la stessa controllata energia con cui un barman agita lo shaker contenente un cocktail da preparare; a questo punto mia madre mi diceva di tirarmi giù i pantaloni, sdraiarmi a pancia in giù sul sofà, scoprire il culetto ed espormi alla condizione di bersaglio umano;
         5) la "signora sapeva fare le punture", verificato che la polvere dell'antibiotico si fosse sciolta e perfettamente amalgamata con l'acqua distillata, aspirava il tutto nella siringa, la picchiettava con un'unghia per controllare che dentro non ci fossero bolle d'aria, spingeva leggermente lo stantuffo per far uscire un po' di farmaco dall'ago e poi, al termine di tutte queste azioni che ci si impiega più tempo a descrivere che a fare, era pronta a colpirmi con millimetrica precisione.
      Dopo di che, si avvicinava al sofà, si chinava su di me e dopo avermi strofinato un po' con un batuffolo di cotone imbevuto d'alcool la chiappa designata, pic!, mi faceva l'iniezione.
      Una volta finita la tortura, riprendeva in mano il cotone e mi massaggiava un po' la parte anatomica sì crudelmente ferita. Operazione di sollievo che, dopo alcuni secondi, veniva continuata da mia madre, che si faceva allo scopo consegnare il batuffolo imbevuto d'alcool.
      E, anche se dopo la famosa antitetanica non strillavo più e non opponevo più resistenza (mia madre, comunque, a letto malato o sul sofà in buona salute che fossi, durante le iniezioni per prudenza continuava a chinarsi su di me per placcarmi le spalle), dopo la paura delle ore precedenti e il male che il liquido dell'iniezione mi aveva procurato, dovevo pure, per educazione, dire grazie alla sadica "signora che sapeva fare le punture"!

      La quale divenne per me fonte di terrificanti ossessioni. Nei due giorni precedenti ogni iniezione "programmata" fantasticavo su tutte le possibili malattie o incidenti che potesse avere per essere impossibilitata a punturarmi. A mio onore va riconosciuto che non giunsi mai ad augurarle di morire.
      Naturalmente le provvidenziali influente e gli altrettanto provvidenziali incidenti stradali non si verificavano mai. Solo una volta ... ero ormai rassegnato all'iniezione, suonò il campanello di casa e la signora Mignacco, con le dita fasciate ci disse che aveva un problema dermatologico e non poteva farmi la puntura. Quando lasciò il nostro appartamento, mi prese un'esultanza paragonabile a quella di don Rodrigo quando seppe che Renzo era ricercato come sedizioso e a quella che prende il tipo che si mette a fare bidibodibù nella pubblicità della Ondaflex.
      Per fortuna, l'augurare malattie e infortuni vari non solo porta ai risultati sperati ma, come si suol dire, allunga la vita. Come egregiamente dimostra la signora Mignacco, che nel momento in qui scrivo questo post ha raggiunto la veneranda età di 96 anni.
       Comunque, tale era la mia paura della "signora che sapeva fare le punture" che, quando veniva inaspettatamente a farci visita (il che accadeva spesso, visto che eravamo in ottimi rapporti con lei e in quegli anni tra vicini di casa ci si frequentava molto di più che non oggi), mi veniva il terrore che fosse venuta a farmi un'iniezione di cui i miei genitori non mi avevano informato e, se ero passato inosservato, correvo a nascondermi in tutti meandri possibili e immaginabili del nostro piccolo appartamento.
      Una volta avevo trovato una via di fuga verso il bagno, mi ci chiusi dentro e là rimasi per più di due ore: la durata della visita della signora Mignacco.

      Con la signora Buzzetti le cose andarono un po' meglio. Ero un po' più grandicello, sui dieci anni d'età, e dominavo meglio la paura delle punture.
      Inoltre, era più decisa nell'infilare l'ago nel sederino, forse perché aveva imparato in famiglia l'arte delle iniezioni dal padre, che era stato un illustre medico, e dai fratelli, entrambi medici. Fatto sta che, invece di infilare l'ago con delicatezza, usava la siringa come una freccetta da lanciare con forza contro il bersaglio rotondo e spesso un colpo secco fa meno male di una puntura meno veloce.

      Cosa succede quando si ha bisogno di farsi fare un'iniezione in vacanza e non si può ricorrere alla "signora che sa fare le punture" o a un'infermiera professionale? Si cerca un sostituto, naturalmente.
     A Villa Minozzo, nel Reggiano, a farmi l'iniezione mensile di antibiotico era la zia Tilde.
      Di tutte le zie, paterne e materne, era la più simpatica, energica ma anche ironica, sempre con la battuta pronta.
      E, fra tutte le "signore che sapevano fare le punture", era quella che le faceva meglio, addirittura meglio, come il mio sederino sperimentò anni dopo, di tante infermiere di professione. Sapeva unire, ed era qualità rara, decisione e delicatezza nell'iniettare i farmaci.
      Fatto sta che, simpatia unita al fatto che la zia Tilde non mi faceva male (a parte il bruciore del liquido, ovviamente non imputabile a lei), vissi le mie iniezioni "vacanziere" con molta minore apprensione di quelle "ordinarie".

      Le quali ultime, anzi, per meglio dire, l'attesa delle quali ultime mi provocavano spesso un effetto che, negli anni della mia infanzia, era tutt'altro che negativo.
      Alle Elementari soffrivo di perenne stitichezza, causata congiuntamente dallo stress di vivere in un ambiente pessimo com'era la scuola che allora frequentavo e dal pessimo livello della mensa scolastica.
      Or bene, la paura fa 90 e, nel caso della paura delle iniezioni, fa anche cagarella. E così i giorni in cui attendevo le punture erano quelli in cui andavo di corpo con grande facilità, anzi, con perfino eccessiva facilità.
      Come si suol dire, non tutto il male viene per nuocere.
      Ciò dimostra inoltre che alcuni detti popolari sono tutt'altro che privi di fondamento scientifico. Se per la paura non solo si compiono atti vili ma si viene colpiti da diarrea, ecco spiegata l'espressione: "Cagarsi addosso".

      Fine agosto 1973. Era trascorso appena un mese da quello che poi si sarebbe rivelato l'ultimo "richiamo" della profilassi con antibiotici.
      Quei giorni segnarono una positiva evoluzione nel mio rapporto con le iniezioni, nel senso che l'esperienza che vissi mi fecero passare definitivamente la paura delle punture.
      Al ritorno dalle vacanze estive venni colpito da un virus influenzale. Ne parlarono anche i telegiornali: non del fatto che me ne fossi ammalato io, naturalmente, ma perché era quanto meno insolito che un'epidemia di influenza scoppiasse d'estate.
      Da circa un anno ero passato dal pediatra, dottor Piccato, al medico di famiglia, dottor Leonardis.
      Quella fu la prima volta che venne a visitarmi a casa. Diagnosticò un influenza e mi prescrisse l'Amplital, un antibiotico da prendere per bocca.
      Constatai con piacere la novità: niente più iniezioni!
      Ma come mai il pediatra mi aveva prescritto per anni le punture quando erano a disposizione dei farmaci da somministrare per via orale?! E' proprio vero che al sadismo umano non c'è limite.
      La mia soddisfazione ebbe però breve durata. Nel senso che non riuscivo a trattenere nello stomaco il medicinale: mia madre scioglieva il granulato nell'acqua, me lo dava da bere e dopo pochi minuti lo rimettevo.
      Provò anche a farmi mangiare un boccone di pane o un biscotto per rendere tollerabile l'antibiotico ma il risultato non cambiava e finiva tutto con una bella (???) vomitata.
      Il giorno dopo, poiché la febbre non diminuiva e l'antibiotico non riuscivo a reggerlo, venne di nuovo chiamato il medico e il dott. Leonardis disse: "Va be', gli avevo prescritto l'Amplital per via orale per evitargli il fastidio delle iniezioni ma, visto che non lo tollera, glielo prescrivo in fiale da iniettare".
      Probabilmente fu a causa del periodo estivo che cambiai "signora che sapeva fare le punture", essendo sia la signora Mignacco che la signora Buzzetti fuori città. Anzi, feci un avanzamento, visto che stavvolta a farmi le iniezioni fu un'infermiera professionale, la signorina ("tota", in piemontese) Rita Sobrà, che abitava anch'ella nel condominio insieme alla sorella Bianca, al cognato, l'indimenticabile signor Ettore Gennaro, e al nipote Pierluigi, che di lì a qualche mese si sarebbe laureato in Medicina a pieni voti.
      La "tota" Ritìn lavorava come infermiera all'Ospedale "San Luigi Gonzaga" di Orbassano. Per qualche anno sarebbe toccato a lei bucherellarmi il sederino all'occorrenza, sebbene non avrei avuto bisogno tante volte di farmi fare delle iniezioni.
     La svolta nel mio rapporto con le punture non avvenne tanto perché la signorina Sobrà le faceva meglio delle precedenti "signore che sapevano fare le punture": naturalmente le faceva bene, anche se non come la zia Tilde, ma né la signora Mignacco né la signora Buzzetti le facevano male. E nemmeno avvenne, la svolta, perché le fiale di Amplital contenevano un liquido meno doloroso dei precedenti antibiotici.
      No. La svolta avvenne perché il pomeriggio giorno dopo l'inizio delle iniezioni stetti talmente male (penso che mi venne una specie di colica ma facevo anche fatica a respirare)  che implorai i miei genitori di andare a chiamare Ritìn per farmi una puntura in più rispetto alla sola iniezione mattutina prescrittami dal dottor Leonardis. E, per chiedere che mi facessero una puntura in più, dovevo stare davvero male!
      I miei accondiscesero ai miei desideri, la signorina Sobrà accondiscese alla richiesta dei miei genitori e mi fece la seconda iniezione. Mio padre andò poi dal medico di famiglia e il dottor Leonardis cazziò tutti quanti, dicendo che non avrebbero dovuto farmi fare la seconda iniezione, del tutto inutile, e che avrebbero dovuto aspettare che il farmaco facesse il suo effetto assecondando il decorso naturale della malattia.
      Mi ripresi completamente dopo qualche giorno ma compresi finalmente che le iniezioni servono per far stare bene le persone. E, quando capisci che una metodica terapeutica è utile, lo stesso minimo dolore che essa può comportare diventa sopportabilissimo.
      Tant'è vero che durante quella fatidica iniezione "non autorizzata" non sentii alcun male.

      Fin qui ho disquisito del tipo di iniezioni di cui avevo paura, quella intramuscolare nel sedere.
      Quanto alla puntura in vena, quella dei prelievi di sangue per intenderci, non ne ebbi quasi mai paura.
      Il primo prelievo che feci fu a sei anni d'età. Incrociai un bambino che stava uscendo dalla "sala salassi" e nel vederlo sudato e paonazzo mi venne paura. Mi sedetti, stesi il braccio e il medico (mi pare di ricordare che all'epoca i prelievi di sangue venivano effettuati solo dai medici) mi mise il laccio emostatico. Quando sentii l'ago pungermi, iniziai a frignare; mia madre iniziò a consolarmi dicendomi: "Coraggio, a pranzo ti faccio una bella bistecca, così rimpiazzi il sangue che il dottore ti prende"; e il medico (all'epoca mi pare di ricordare che i prelievi li facessero solo i medici) confermò: "Sì, una volta a casa mangerai una bella bistecca); così smisi di piagnucolare, anche perché non provai alcun dolore. Per quelli successivi, non provai più né paura né stress.
      Poi, da adulto, sperimentai anche le iniezioni nel braccio, quelle dei vaccini antinfluenzali per intenderci, anch'esse del tutto indolori. Ma in ogni caso non avevo più alcun terrore delle punture.

2 commenti:

  1. I tuoi ricordi sono anche i miei. Credo che le siringhe monouso risalgano ai primi anni Ottanta. Sino ad allora il rito era quello che descrivi tu. Si ricorreva molto più spesso di ora a cure tramite iniezioni. Anch'io ho avuto due signore delle punture: un'amica di mia mamma, che abitava vicino casa di mia nonna, e la signora del secondo piano del condominio che era addetta a questo compito per tutto il vicinato. La signora del secondo piano di solito interveniva quando stavo male e non potevo spostarmi da casa (era lei, ad esempio, a iniettarmi le penicelline), all'amica di mia mamma invece ci rivolgevamo di solito per le cure ricostituenti alle almeno due volte l'anno (prima dell'inverno e in primavera) era quasi impossibile sfuggire. Adriana

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  2. A leggere questo articolo ho rivissuto le stesse paure delle iniezioni vissute negli anni '60 prima e dopo i 10 anni. Paure dovute al fatto che: 1) le iniezioni erano fatte con quelle terribili siringhe di vetro con ago di metallo che venivano sterilizzate ogni volta bollendole nei contenitori di metallo e che facevano male; e 2) a quei tempi non c'erano gli antibiotici per via orale e quindi si ricorreva spessissimo alle iniezioni di penicillina a partire dai flaconcini di polvere bianco, con la trafila che hai ricordato benissimo. Anche se non arrivavo a simulare di non essere malato e a strillare e scappare il ricordo di quelle paure fu così forte che negli anni successivi pur riuscendo a non avere paura ha continuato ad esserci il disagio quelle non moltissime volte che è successo di fare iniezioni (con siringhe monouso ovviamente). Dirò di più, sarò ipocondriaco ma tuttora a più di 40 anni di distanza se sento parlare di iniezioni mi viene quasi subito un leggero dolore nella parte alta di un gluteo (di solito il sinistro) dove di solito si fanno le iniezioni.

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