I miei scherzi lavorativi risalgono alla
(troppo) lunga epoca in cui ho lavorato come informatico. Essi erano di due
tipi: quelli che si facevano con l’ausilio dei videoterminali e quelli più
prosaicamente privi di supporti informatici.
All'inizio della mia ingloriosa carriera
di informatico (professione che per mia somma fortuna non svolgo più dal 2005),
un software gestiva l'acquisizione a video di programmi e documenti da
modificare.
Il problemino è che in azienda chi aveva
curato la traduzione della messaggistica di detto software non aveva riflettuto
sul doppio senso che in italiano aveva il termine usato per indicare il modulo
del programma o della documentazione da acquisire a video, cioè
"member".
Cosicché, quando si digitava il nome di
un programma o di una documentazione non presente sulla libreria, compariva
sullo schermo il messaggio:
MEMBRO NON TROVATO
Quando sciaguratamente (per loro,
s'intende) mi insegnarono il linguaggio del software che gestiva programmi e
documenti, colsi al volo l'occasione e modificai il messaggio in questione in
modo tale che, se si digitava il nome di un "membro" non presente
sulla libreria di riferimento, compariva il messaggio:
MEMBRO NON TROVATO. E' STATO EVIRATO
Per chi non fosse molto addentro di cose
da software, ogni programmatore aveva una sua area di memoria in cui lavorare
(la AWS, acronimo di Active Working Space), a cui si poteva accedere da un
qualsiasi terminale digitando il proprio codice (Roscoe Key) e la propria
password.
Se per caso uno si dimenticava di
chiudere (“uscire”) la sua AWS e provava ad accedervi da un videoterminale diverso
da quello su cui era ancora collegato all’AWS, compariva il messaggio:
AWS già aperta da un altro terminale
e
ovviamente il secondo accesso non veniva effettuato.
Or bene, dopo un po’ di mesi dalla mia
assunzione imparai un linguaggio di programmazione, RPF (acronimo di Roscoe
Procedure Facilities), che gestiva molte attività di lavoro sulle AWS. Compresa
la possibilità di impostare delle cosucce al momento dell’apertura delle
medesime.
Fra queste cosucce, purtroppo per i miei colleghi,
c’era anche il comando di uscita immediata dall’AWS con invio a video del
messaggio desiderato. E ciò mi diede la possibilità di fare ameni scherzi ai
colleghi.
La mia prima vittima fu la Cristina S.
D’accordo con i suoi compagni d’ufficio, durante la pausa pranzo agganciai alla
sua AWS il comando (“DEL;OFFON”) che la chiudeva subito e il falso messaggio
che l’aveva lasciata aperta su un altro videoterminale.
Al ritorno dal pranzo, Cristina S. andò
alla sua postazione lavoro, digitò a video il suo codice e la sua password e,
pum!, le comparve il messaggio di AWS aperta su un altro terminale.
Iniziò a controllare tutti i video del
suo ufficio, sotto gli sguardi fintamente sbalorditi dei suoi compagni di
gruppo, e poi, non essendo ovviamente riuscita a identificare il terminale su
cui era aperta la sua AWS, uscì di corsa dall’ufficio e andò a controllare, uno
per uno, tutti i video della sede della software house, con la doverosa
esclusione di quello del direttore generale e di quelli dei dirigenti.
Tornò, distrutta, sconvolta e
scoraggiata, un’ora dopo, ripetendo ad alta voce che non era possibile che
avesse lasciato la sua AWS aperta su un altro videoterminale, visto che aveva
sempre e solo lavorato nel suo ufficio!
Solo dopo che, passata un’altra mezz’ora,
Cristina S. manifestò, fra il suo viso disperato e le risate trattenute a
stento mie e dei suoi compagni d’ufficio, l’intenzione di telefonare al c.e.d.
per chiedere spiegazioni sull’inspiegabile anomalia, le rivelammo che si era
trattato di un simpatico scherzo.
E venne il giorno in cui uno spot
televisivo divenne un vero tormentone. Mi riferisco a quello che aveva il suo
leit motiv nella frase: “Ehi, ringo! La machina … vavavumma!”.
Gianfranco ne fu talmente acchiappato che
si mise a ripeterla a ogni minima occasione. Ogni volta seguita dalla sua
inconfondibile risata, che sembrava il nitrito di un cavallo.
Altra caratteristica inconfondibile di
Gianfranco era il suo masochistico modo di concentrarsi: quando rifletteva su
qualcosa, prendeva fra due dita un pelo dei suoi baffetti, se lo attorcigliava
e poi, strapp!, se lo estraeva con un colpo secco. Risultato: la sua peluria
subnasale, ormai ridotta ai minimi sindacali, era stata inclusa dal W.W.F. fra
le specie in via di estinzione.
Tornando al Vavavumma!, decisi di giocare
un bel tiro a Gianfranco. Cosa feci? Semplice.
Agganciai all’AWS di Gianfranco il
comando di uscita immediata all’apertura ma, invece di inviargli a video il
messaggio di AWS già aperta su un altro terminale, gli feci comparire sullo
schermo la scritta:
Ehi, Gianfranco! La
machina … vavavumma!
In un'altra circostanza, presi lo spunto
dal fatto che, quando non ci si poteva collegare col centro elaborazione dati
dell'azienda, sui terminali compariva la scritta:
APPLICATION NOT POLLING
e agganciai all'AWS di Paola G. il
comando di uscita immediata all'apertura con l'invio a video della
segnalazione:
APPLICATION NOT POLLING, NOT GALLING AND
NOT TACCHINING
Una mattina nel nostro ufficio ci stavamo
annoiando più del solito. A un certo punto Tatino disse: “E’ un po’ di tempo
che non facciamo uno scherzo a qualcuno”. Mi misi subito d’ingegno.
Avevamo all’epoca una consulente esterna
che di cognome faceva Serpi. Cosa feci, in un lampo d’ispirazione?
Modificai la prima videata della sua AWS
in modo che, quando avesse acceso il terminale, sarebbe comparsa la frasetta,
invero del tutto infondata dal punto di vista scientifico:
LE SERPI SONO MORTALI.
Seguiva una videata riproducente il
disegno di una cassa da morto.
Peccato però che, quando la signorina accese
il suo videoterminale, seduto accanto a sé aveva un dirigente della software
house, il quale, evidentemente sprovvisto di senso dell’umorismo, andò subito a
riferire l’accaduto a Bellachioma, il vicedirettore.
Il quale, indignatissimo, si fece immediatamente
il giro di tutti gli uffici minacciando fuoco e fiamme se una cosa del genere
si fosse ripetuta. Parole testuali:
Se qualcuno fa ancora
uno scherzo così, lo becco di sicuro e gli faccio fare dal direttore generale
uno di quei culi che non se lo scorda più!
Così almeno disse quando piombò furente
nell’ufficio dove lavoravo io. Nel suo caso, la sua calvizie (origine di
soprannomi come appunto Bellachioma e come Belli Capelli) impediva di dire che
avesse un diavolo per capello ma era comunque incazzato nero; non a caso quella
fu l’unica volta che lo sentii urlare.
Nel nostro ufficio si verificò una
situazione surreale. Non solo Bellachioma se la prese con Michela, la quale non
c’entrava niente con la goliardatina, aggredendola verbalmente con un: “Anche
se non ho prove, so che sei una che questi scherzi li fa, per cui stai
attenta!”. Ma, quando mi rivolse uno sguardo, mi rassicurò dicendomi: “Sta’
tranquillo, Gian Contardo: lo so che tu non fai di queste cose”. E invece ero
proprio stato io!
Naturalmente, ehm, mi guardai bene dal
prendermi le mie responsabilità accusandomi del fattaccio per scagionare
Michela e gli altri colleghi sospettati.
Un bel giorno Rosella si presentò in
ufficio con un vestito un po' particolare: coperto fino all'altezza della gola
nella parte anteriore e completamente scoperto nella parte posteriore, almeno
fino a poco sopra la zona, ehm, glutea. In altre parole, aveva la schiena
completamente nuda, anzi, ignuda (tanto per andare sull'italiano di una volta).
Nessun pensiero lascivo o machista, né da
parte mia né da parte degli altri suoi colleghi maschi. Ma, insomma,
goliardicamente parlando, una schiena femminile nuda quale cosa poteva
suggerirmi? Un cubetto di ghiaccio, naturalmente. Da appoggiare su quella
schiena, altrettanto naturalmente.
Per ragioni pollitically correct, scartai
subito l'ipotesi di andare a chiedere al direttore generale o a qualche altro
alto papavero se nel frigorifero in dotazione alla Direzione c'era un cubetto
di giaccio da prendere in prestito. Avrei dovuto motivare quella richiesta e
dire la verità non sarebbe stato molto utile alla mia immagine, peraltro già
ampiamente compromessa, di impiegato ligio al dovere. E poi, per definizione, un cubetto di ghiaccio
può essere regalato (sai che dono!) ma non dato in prestito, per l'ovvia
ragione che dopo un po' si scioglie e allora col cavolo che può venire
restituito.
Ma io, da testardo nato, non demordo mai
di fronte alle sfide. E quando la sfida si fa ardua, riesco quasi sempre a
sfoderare intuizione e improvvisazione. E così accadde anche allora.
Mi venne in mente che lo scherzo di far
saltare Rosella sulla sedia poteva riuscire anche senza un cubetto di ghiaccio:
sarebbe bastato un altro oggetto, sufficientemente gelido.
Individuarlo in azienda fu assai facile:
il distributore di bevande fredde dispensava anche graziose bottigliette di
Coca Cola, che uscivano dall'apertura belle gelate.
Procurarmene una fu un gioco da ragazzi:
andai nell'area deputata alle pause caffè, infilai un gettone nel distributore,
premetti il pulsante della Coca Cola e dopo un paio di secondi dall'apertura
comparve una bottiglietta.
La presi e solerte rientrai in ufficio,
pronto a colpire. Qui la Dea Bendata mi aveva favorito le cose: Rosella stava
parlando al telefono con qualcuno e quindi era concentrata sulla conversazione.
Non si accorse dunque di niente quando,
con passo felpato, mi posizionai dietro di lei e, con un sorriso di sadica
soddisfazione che già era comparso sul mio viso, le appoggiai sulla schiena la
bottiglietta di Coca Cola, gelata non solo nel suo contenuto ma anche nel suo
vetro.
Rosella fece un salto sulla sedia, non
altissimo come avrei sperato ma comunque lo fece.
L'essere impegnata al telefono la
trattenne indubbiamente dal commentare lo scherzo. Ammirai il suo sangue
freddo: l'esclamare un gradimento della burla con un "vaffa" avrebbe
anche potuto sortire l'effetto di far credere alla persona con cui stava
parlando dall'altro capo della linea che il gentile invito fosse rivolto a lei.
Quando lavoravo con Ricky e con Delia,
notai che Delia aveva l’abitudine di comprare il pane alla mattina prima di
recarsi in ufficio, tenerlo nella sua borsa e prenderlo al momento della fine
dell’orario di lavoro per portarselo a casa.
Un giorno, all’inizio della pausa pranzo,
mi venne l’idea di farle uno scherzo. Approfittando del fatto che i miei
compagni d’ufficio uscivano a mangiare un panino in uno dei bar della zona
mentre io rimanevo solo a degustare il mangiare che mi preparava mia madre e
che mi portavo da casa, presi il pane dalla borsa di Delia e lo nascosi in un
armadio.
Nelle mie intenzioni, lo scherzo avrebbe
dovuto avere il seguente, innocuo epilogo: un quarto d’ora prima di uscire
dall’ufficio, le avrei chiesto come mai quel giorno non aveva comperato il
pane, Delia avrebbe aperto la sua borsa non trovandolo e, dopo averla fatta
stare sulle spine per qualche minuto, le avrei rivelato il nascondiglio del
prezioso alimento.
Ma … quel pomeriggio mi dimenticai
completamente dello scherzo progettato e lasciai l’ufficio senza avvertire
Delia della sparizione del farinaceo manufatto!
Solo alle dieci di sera mi ricordai del
pane nascosto e mi sentii in colpa, pensando alla povera Delia alla ricerca
della pagnotta perduta.
Il mattino dopo, le porsi le mie sincere
scuse ma ella mi rassicurò dicendomi che, quando si era accorta dell’assenza
del pane dalla sua borsa, aveva subito pensato a un mio scherzo e si era messa
a cercarlo negli armadi del nostro ufficio, trovandolo quasi subito.
L'anno in cui mi laureai, il 1987, Ezio
Greggio imperversava con la sua gag del: "Ma lo sa che Lei è un vero
ffffffenomeno?!", con tanto di saliva nebulizzata sulla faccia del
malcapitato interlocutore.
Potevo io astenermi dall'imitarlo quando
mi trovavo in ufficio? Certo che no!
E così, ogni volta che mi saltava il ghiribizzo,
mi avvicinavo ad un collega e, dopo aver controllato di avere in bocca
sufficiente saliva da espellere, gli dicevo: "Ma lo sa che Lei è un vero
ffffffenomeno!"
Un minimo di galanteria mi impose di fare
questo scherzo solo a colleghi maschi. Principali vittime di esso furono Ricky
e Donato.
Ma i miei compagni di lavoro scemi non
erano e così, dopo la quinta o sesta innaffiata di faccia, avevano capito
l'andamento dello scherzo. Mi lasciavano appena il tempo di dire: "Ma lo
sa che Lei è ...", e subito si allontanavano o quantomeno si paravano la
faccia con le mani. Brutti stronzi!
Cosa feci io, allora? Presi le mie
contromisure, naturalmente. Mi avvicinavo di soppiatto alle loro spalle, li
bloccavo con le braccia in modo da immobilizzarne il collo e, sempre da dietro,
accostavo la mia bocca a uno dei lati delle loro facce ed esclamavo: "Ma
lo sa che Lei è un vero ffffffenomeno!", con tanto di nebulizzazione
irroratrice.
Altro scherzo che amavo fare spesso ai
colleghi (ma anche agli amici che nulla avevano a che fare col lavoro) era
quello della cravatta.
Quando vedevo uno che sfoggiava una
cravatta particolarmente elegante, mi avvicinavo a lui e, mentre mi
complimentavo per la qualità del capo di vestiario, ne prendevo fra le dita il
lembo pendente per testarne la morbidezza. Poi, di colpo, me lo avvicinavo alla
faccia e con esso mi soffiavo il naso.
Scherzo da fare soprattutto quando si è
costipati e dalle narici esce sempre qualche cosa.
In cosa consiste lo scherzo
dell’”agguato”? Non in qualcosa di violento, naturalmente. Consiste
nell’arrivare di spalle a una persona senza che se ne accorga o nel comparirle
davanti all’improvviso e, in entrambi i casi, nel dire con tono sostenuto: “Bau!”.
Alle mie colleghe ne feci parecchi, di
"agguati". Superfluo spiegare perché questi scherzi li facevo alle
mie colleghe e non ai miei colleghi.
Una volta, però, le cose andarono come
non avevo previsto. Accadde che, vidi sbucare Marina dall'ascensore, ubicato
dalla parte opposta del corridoio da dove mi trovavo io. Mi nascosi dietro uno
degli armadi che, per assenza di spazio sufficiente, erano stati collocati
lungo le pareti dei corridoi anziché all'interno dei vari uffici.
Ovviamente, dovevo rimanere nascosto fino
all'ultimo, altrimenti Marina mi avrebbe visto. Calcolai dunque l'attimo in cui
saltare fuori all'improvviso in base all'avvicinarsi dei passi nel corridoio.
Ma la fanciulla doveva avermi visto e,
poiché dopo che io mi ero nascosto, dalle scale accanto all'ascensore era
sopraggiunto anche Ulisse, uno dei funzionari dell'azienda, Marina gli fece
cenno di passare davanti a lei.
E così, quando sentii il rumore di passi
arrivare a un metro da dove mi ero nascosto, sbucai fuori con un pesante balzo
e feci: "Bau!" ... ad Ulisse.
Costui era un tipo oltremodo compassato,
che non si scomponeva mai, ma quella volta fece a sua volta un salto non dico
lo spavento ma almeno la sorpresa.
Poi, anche intuendo la verità dal fatto
che Marina dietro di lui si era già messa a ridere, Ulisse capii di non essere
stato lui il destinatario dello scherzo e si mise a ridere anche lui.
Come al solito quando faccio una figura
di merda, anche allora anziché diventare rosso in volto dall'imbarazzo mi misi
a ridere a mia volta e mi limitai a chiedergli scusa.
In ufficio si possono anche fare
simpatici scherzi telefonici. Così, tanto per divertirsi un po' e ingannare il
tempo.
Io ne escogitai uno che non richiedeva
nemmeno una chiamata. Quando i collegi del mio gruppo di lavoro andavano a fare
la pausa caffè, rimanevo in ufficio; dopo un po' alzavo la cornetta del
telefono di uno di essi e la ponevo sulla scrivania, poi mi recavo con passo
deciso nell'area dei distributori di bevande e snacks, e gli dicevo che c'era
una telefonata per lui; il collega partiva di corsa alla volta dell'ufficio e,
una volta entratovi, andava alla sua scrivania e afferrava la cornetta. Per
scoprire che non c'era nessuno che lo cercava e che la linea era libera.
Un altro scherzo telefonico che feci
spesso fu il classico pernacchione anonimo.
Prendevo la cornetta, facevo il numero di
un interno dell'azienda dove lavoravo, BADANDO BENE DI NON FARE QUELLO DEL
DIRETTORE GENERALE O DI ALTRI DIRIGENTI, e nel sentire il classico:
"Pronto?", tiravo una pernacchia degna di quella che Totò fa
all'ufficiale tedesco nel film I due
marescialli.
Dopo di che, riattaccavo la cornetta.
Naturalmente senza proferire una sola parola.
E veniamo al "Pronto Napo".
Avevamo un collega soprannominato Napo, noto per il tono squillante di voce con
cui rispondeva al telefono. I suoi "Pronto?", più che col punto
interrogativo sembravano esclamati col punto esclamativo: "Pronto!".
Sembrava quasi una trombetta.
Cosa iniziammo a fare? Quando la pausa
pranzo volgeva al termine ed egli era già tornato in ufficio, due-tre-quattro
di noi, dopo aver attivato il vivavoce, componeva il numero del suo interno e,
appena si sentiva il suo entusiastico "Pronto!", riattaccava la
cornetta senza dire alcunché.
Manco a dirlo, anch'io fui della partita
e feci le mie telefonate del "Pronto Napo". Non solo. Mi presi il
piacevole onere di ricordare ai miei compagni di bisboccia il giornaliero
momento del "Pronto Napo".
Un poetastro come me non poteva non
volgere in rima questo importantissimo incarico e così, ogni giorno, quando
mancavano 5 minuti alla ripresa del lavoro prendevo spunto dal numero
dell'interno di Napo, 253, e dicevo ai miei colleghi: "Sapete che ora è? /
E' l'ora del due-cinque-tre".
Dopo di che, a turno ognuno dei presenti
nel nostro ufficio faceva la chiamata del "Pronto Napo".
Uno scherzo che imparai da altri colleghi
fu quello del bagnare con acqua le sedie altrui.
Quelle che l'azienda ci dava in uso erano
sedie imbottite rivestite di un tessuto nero e, poiché l'acqua è trasparente,
bastava versarcela sopra e dopo pochi minuti penetrava nell'imbottitura senza
lasciare traccia sul rivestimento esterno. Un po' come i pannolini tanto
reclamizzati negli spot televisivi.
Lo scherzo consisteva nel versare circa la
metà del contenuto di una bottiglietta d'acqua da mezzo litro sulla sedia di un
collega o di una collega che si era assentata dall'ufficio. Al suo ritorno,
quand'anche avesse dato un'occhiata al sedile, l'avrebbe trovato perfettamente
asciutto, essendo l'acqua già tutta entrata nell'imbottitura. E così il
malcapitato o la malcapitata si sedeva e, in virtù della glutea pressione,
l'imbottitura rilasciava l'acqua, che andava a procurare una gradevole
sensazione di fresco nonché una buona dose di umidità sul suo fondoschiena.
Modestia a parte, me la cavai
egregiamente anche in questa attività ludico-goliardica.
Concludo la narrazione dei miei scherzi
lavorativi con uno che feci in tandem con Luciano.
Il nostro collega Faccione aveva un
grosso problema: le ragazze con cui attaccava bottone non gliela davano mai. Il
suo andare in bianco con le donne era dovuto a grande timidezza, che gli
facevano fare delle avances oltremodo impacciate. Tant’è vero che anni dopo una
tipa sulla quale aveva puntato gli occhi addosso lo definì: “Quel ragazzo
timido e imbranato”.
Una delle ragazze che lo arrapavano di più
era la nostra collega Marina. Faccione non faceva che lodare le sue “zinne”;
ancora più esplicito fu quando confessò, a proposito di Marina: “Quella donna
sprizza sesso da tutti i pori. La voglio! La voglio!”.
Poiché Faccione continuava a sbavare
dietro a Marina, un pomeriggio io e Luciano decidemmo di giocargli un tiro
barbino.
All’epoca io, Luciano e Marina lavoravamo
nella sede centrale della software house, mentre Faccione lavorava al c.e.d.
(centro elaborazione dati), ubicato in un altro quartiere. Dunque, non poteva
vedere Marina dal vivo.
Si comunicava non tramite e-mail
(all’epoca internet non era tanto diffusa nelle aziende) ma tramite istruzioni
che consentivano di inviare messaggi da un videoterminale all’altro.
Carognescamente io e Luciano ci mettemmo
d’accordo sul modo di arraparlo ben bene e lo informarono, ognuno dal proprio
videoterminale, su una clamorosa quanto falsa novità: quel giorno Marina era
venuta al lavoro indossando un golfino trasparente sotto cui si vedeva che non
portava altri indumenti!
Se la sconvolgente notizia gli fosse
stata comunicata da un solo collega, forse Faccione avrebbe potuto esercitare
su quell’informazione un minimo spirito critico; ma, ricevendola da due
colleghi (per giunta affidabili … almeno fino a quel giorno), la ritenne
senz’altro fondata e ci cascò in pieno.
Non parendogli vero di avere sì ghiotta
occasione di attaccar bottone con Marina (per giunta su un argomento “piccante”
riguardante proprio lei!), Faccione le messaggiò: “Qui mi giungono notizie
folli: che sei venuta al lavoro praticamente nuda! Ma sei impazzita?!”.
Marina, a stretto giro di posta (anzi, a
stretto giro di messaggio), gli rispose oltremodo indispettita che non era vero
e che voleva sapere chi aveva messo in giro quelle voci false: “Non è vero!
Oggi indosso, come sempre, vestiti normali. I nomi! Voglio sapere i nomi!”.
Lealmente, Faccione non fece la spia ma,
volendo dire che io e Luciano eravamo talmente allupati da vedere cose pepate
dove non c’erano, le messaggiò: “Eh, sì, la fame è davvero brutta: fa vedere
dell’erotismo anche dove non c’è per niente”.
Ora, questa frase poteva avere due sensi:
il primo era che chi è allupato e desidera una donna, a forza di spogliarla con
gli occhi (e con l’immaginazione) finisce per vederla nuda anche quando è
vestita; il secondo (e purtroppo per Faccione fu proprio in quest’ultimo modo
che la interpretò l’interessata) era che Marina non era affatto erotica.
Non so se la fanciulla rispose male a
Faccione, che si rese subito conto dell’N.M.C.D. (Numero Micidiale con
Conseguenze Durature) che si era appena fatto. Fatto sta che Marina non solo si
arrabbiò moltissimo ma per un bel po’ di tempo non gli rivolse più la parola.
Il giorno dopo Faccione, sempre tramite
messaggi al videoterminale, ci raccontò tutto lo svolgimento dell’imbarazzante
episodio (essendo un archiviatore nato, aveva memorizzato tutto il dialogo fra
lui e Marina e lo trasmise sia a Luciano che a me) e ci chiamò a render conto
del nostro operato con un eloquente: “Che razza di figura del cavolo che mi
avete fatto fare!”. Va be', al posto di "cavolo" usò un sostantivo
metaforicamente equivalente iniziante anch'esso per "ca" ma io, che
sono notoriamente attento all'eleganza del mio stile di scrittura, non posso
riportarlo. Porca puttana d'una vacca troia!
Quando, poco dopo, incontrai Luciano, ci
scambiammo informazioni sulla piega presa dallo scherzo e ci mettemmo a
sghignazzare senza ritegno sulla figura da pollo che avevamo fatto fare al
povero allupato. Alla fine, Luciano osservò sarcasticamente: “E’ inutile che ci
ingegniamo tanto per far fare a Faccione delle figure di merda con le donne: ci
riesce benissimo da solo”.