martedì 27 dicembre 2016

La prefazione di un libro

      Una buona prefazione, soprattutto se chi la scrive è famoso, è sempre uno strumento efficace per attirare l’attenzione dei media e del pubblico, e quindi per vendere più copie del libro che si vuole pubblicare. Quasi tutti gli autori, specie se esordienti, ne hanno bisogno per sfondare. Non è un caso che nelle inserzioni pubblicitarie del libro di un autore poco conosciuto viene di solito citato il “prefattore” famoso.
      Chi lo sa? Se Francesco Guccini in Via Paolo Fabbri 43 cantava: “Ma pensa se le canzonette me le recensisse Roland Barthes!”, dopo qualche anno, al suo esordio come narratore, può anche essersi detto: “Ma pensa se le Cròniche epafàniche me le recensisse Umberto Eco!”. Probabilmente no, perché il Maestrone aveva già grande notorietà di suo e non aveva bisogno di una prefazione illustre che desse una spinta al suo esordio come romanziere.
      Il precisino di turno potrà a questo punto obiettare che sono passato dalla prefazione alla recensione, confondendo i due termini. Al riguardo, replico affermando, anzi, asserendo (il verbo sembra più elegante) che la prefazione altro non è se non una recensione interna al libro. E poi, suvvia, un po’ di rispetto per la metrica! Avrebbe suonato davvero male se Guccini avesse cantato: “Ma pensa se delle mie canzonette avesse scritto la prefazione Roland Barthes!”.
      Come? Delle canzoni non si scrive mai la prefazione? E’ vero, non ci avevo pensato. Mettiamola allora così, sempre parafrasando il Maestrone: “Ma pensa se delle Cròniche epafàniche avesse scritto la prefazione Umberto Eco!”.
      A chi si rivolge un editore serio per la prefazione a un libro che vuole pubblicare? A un critico affermato, col quale ha instaurato rapporti di collaborazione. A un docente universitario esperto della materia di cui si occupa il saggio di imminente pubblicazione. A un romanziere o a un poeta famoso, se l’autore da lanciare ha scritto un romanzo o una raccolta di versi. Se decide di fare a meno della firma illustre, l’editore si farà cura di affidare comunque la stesura della prefazione a una persona competente, che elenchi i pregi dell’opera ma con quella sobrietà che si addice a un’impresa editoriale seria e priva di fanfaronaggine.
      Cosa fa invece l’editore negligente o l’editore a pagamento? Ha tre opzioni: a) non si procura alcuna prefazione; b) la fa scrivere a un dilettante qualsiasi; c) la scrive lui stesso, naturalmente dietro compenso.
      La prima scelta di solito appartiene all’editore free, piccolo e privo di qualsiasi cultura di marketing. Non a caso, non si affaticherà nemmeno un po’ per cercare di far pubblicare recensioni al libro.
      La seconda opzione sarà quella dell’editore a pagamento, il quale non vuole sobbarcarsi eccessivi costi di pubblicazione (peraltro pagati dall’autore di tasca sua) ma ha bisogno di una prefazione per far colpo sull’autore. E nel commissionarla lo prenderà ulteriormente per i fondelli.
      Infatti, non conoscendo nessuno negli “ambienti che contano” (e che mantengono le distanze da certa editoria), il furbastro ricorrerà a tutta la sua creatività per far scrivere la prefazione a un professore squattrinato e frustrato delle Scuole Secondarie facendolo passare per docente universitario della Ecole des Hautes Etudes di Parigi, a un bidello della locale Facoltà di Lettere e Filosofia spacciandolo per un visiting professor di Letteratura Italiana Contemporanea o ricorrendo, sempre per la prefazione, all’usciere di uno stabile dove è ubicata la sede legale di una rivista di giardinaggio dicendo all’autore che il “prefattore” fa parte del comitato di redazione di una prestigiosa rivista di critica letteraria.
       Trucco che riesce quasi sempre, nel senso che nei colloqui che ha avuto con l’autore l’editore a pagamento si è premurato di verificare che il pollastro o qualche suo parente o amico non conoscano persone che fanno parte del mondo accademico o letterario.
      Se la caverà con poca spesa, l’editore: al professore squattrinato mollerà una banconota da 50 euro e tanto gli basti, mentre il bidello (o l’usciere), pur di veder comparire il suo nome in un libro, non chiederà un solo euro di compenso, avendo in cambio una ventina di copie in omaggio del libro da distribuire a parenti, amici e colleghi (soprattutto a quelli che vuole fare schiattare d’invidia) per far vedere loro che finalmente qualcuno si è accorto di quanto sia bravo.
      La stessa vanità coglierà l’autore del libro, che gongolerà per aver avuto una prefazione scritta da un (sedicente) esperto.
      E non si accorgerà nemmeno della comicità involontaria di cui a volte le prefazioni sono portatrici.
      Nel senso che, vuoi perché preso da foga intellettuale che lo porta ad esagerare nelle iperboli, vuoi perché ha mangiato la foglia sul tipo che ha scritto il libro e si vuole sadicamente divertire alle sue spalle, può capitare che il “prefattore” scriva pagine che, ben lungi dall’omaggiare l’autore del giusto e meritato riconoscimento letterario, in realtà lo mettono alla berlina.
      Prendiamo ad esempio il passo di una prefazione di questo tipo:
"In questo libro autobiografico, caratterizzato da un crudo realismo, l’Autore narra episodi della sua vita con una sincerità che sfocia spesso nell’ingenuità e con cui fa mostra di essere una persona estranea al tessuto sociale in cui ha per anni vissuto e facilmente manipolabile da individui cinici ed astuti che approfittano della sua disarmante buona fede".
      Leggendo questa prefazione, quel frolloccone dello scrittore non si renderà minimamente conto che il “prefatore” gli ha dato dell’emarginato e del pollo ma farà leggere la prefazione ad amici e conoscenti dicendo loro, tutto gongolante: “Avete visto? Parla di me! Parla di me!”.
      Va be’ che una delle regole auree della pubblicità è che non importa che si parli male di qualcuno purché se ne parli ma a tutto c’è un limite!
      Infine, nei casi di evidente sciacallaggio, l’editore a pagamento sceglierà la terza opzione ossia si offrirà di scrivere lui la prefazione, naturalmente dietro un versamento “extra” di 100 euro da parte dell’autore.

domenica 18 dicembre 2016

I miei scherzi lavorativi

      I miei scherzi lavorativi risalgono alla (troppo) lunga epoca in cui ho lavorato come informatico. Essi erano di due tipi: quelli che si facevano con l’ausilio dei videoterminali e quelli più prosaicamente privi di supporti informatici.
      All'inizio della mia ingloriosa carriera di informatico (professione che per mia somma fortuna non svolgo più dal 2005), un software gestiva l'acquisizione a video di programmi e documenti da modificare.
      Il problemino è che in azienda chi aveva curato la traduzione della messaggistica di detto software non aveva riflettuto sul doppio senso che in italiano aveva il termine usato per indicare il modulo del programma o della documentazione da acquisire a video, cioè "member".
      Cosicché, quando si digitava il nome di un programma o di una documentazione non presente sulla libreria, compariva sullo schermo il messaggio:

           MEMBRO NON TROVATO

      Quando sciaguratamente (per loro, s'intende) mi insegnarono il linguaggio del software che gestiva programmi e documenti, colsi al volo l'occasione e modificai il messaggio in questione in modo tale che, se si digitava il nome di un "membro" non presente sulla libreria di riferimento, compariva il messaggio:

           MEMBRO NON TROVATO. E' STATO EVIRATO

      Per chi non fosse molto addentro di cose da software, ogni programmatore aveva una sua area di memoria in cui lavorare (la AWS, acronimo di Active Working Space), a cui si poteva accedere da un qualsiasi terminale digitando il proprio codice (Roscoe Key) e la propria password.
      Se per caso uno si dimenticava di chiudere (“uscire”) la sua AWS e provava ad accedervi da un videoterminale diverso da quello su cui era ancora collegato all’AWS, compariva il messaggio:

           AWS già aperta da un altro terminale

e ovviamente il secondo accesso non veniva effettuato.
      Or bene, dopo un po’ di mesi dalla mia assunzione imparai un linguaggio di programmazione, RPF (acronimo di Roscoe Procedure Facilities), che gestiva molte attività di lavoro sulle AWS. Compresa la possibilità di impostare delle cosucce al momento dell’apertura delle medesime.
      Fra queste cosucce, purtroppo per i miei colleghi, c’era anche il comando di uscita immediata dall’AWS con invio a video del messaggio desiderato. E ciò mi diede la possibilità di fare ameni scherzi ai colleghi.

      La mia prima vittima fu la Cristina S. D’accordo con i suoi compagni d’ufficio, durante la pausa pranzo agganciai alla sua AWS il comando (“DEL;OFFON”) che la chiudeva subito e il falso messaggio che l’aveva lasciata aperta su un altro videoterminale.
      Al ritorno dal pranzo, Cristina S. andò alla sua postazione lavoro, digitò a video il suo codice e la sua password e, pum!, le comparve il messaggio di AWS aperta su un altro terminale.
      Iniziò a controllare tutti i video del suo ufficio, sotto gli sguardi fintamente sbalorditi dei suoi compagni di gruppo, e poi, non essendo ovviamente riuscita a identificare il terminale su cui era aperta la sua AWS, uscì di corsa dall’ufficio e andò a controllare, uno per uno, tutti i video della sede della software house, con la doverosa esclusione di quello del direttore generale e di quelli dei dirigenti.
      Tornò, distrutta, sconvolta e scoraggiata, un’ora dopo, ripetendo ad alta voce che non era possibile che avesse lasciato la sua AWS aperta su un altro videoterminale, visto che aveva sempre e solo lavorato nel suo ufficio!
      Solo dopo che, passata un’altra mezz’ora, Cristina S. manifestò, fra il suo viso disperato e le risate trattenute a stento mie e dei suoi compagni d’ufficio, l’intenzione di telefonare al c.e.d. per chiedere spiegazioni sull’inspiegabile anomalia, le rivelammo che si era trattato di un simpatico scherzo.

      E venne il giorno in cui uno spot televisivo divenne un vero tormentone. Mi riferisco a quello che aveva il suo leit motiv nella frase: “Ehi, ringo! La machina … vavavumma!”.
      Gianfranco ne fu talmente acchiappato che si mise a ripeterla a ogni minima occasione. Ogni volta seguita dalla sua inconfondibile risata, che sembrava il nitrito di un cavallo.
      Altra caratteristica inconfondibile di Gianfranco era il suo masochistico modo di concentrarsi: quando rifletteva su qualcosa, prendeva fra due dita un pelo dei suoi baffetti, se lo attorcigliava e poi, strapp!, se lo estraeva con un colpo secco. Risultato: la sua peluria subnasale, ormai ridotta ai minimi sindacali, era stata inclusa dal W.W.F. fra le specie in via di estinzione.
      Tornando al Vavavumma!, decisi di giocare un bel tiro a Gianfranco. Cosa feci? Semplice.
      Agganciai all’AWS di Gianfranco il comando di uscita immediata all’apertura ma, invece di inviargli a video il messaggio di AWS già aperta su un altro terminale, gli feci comparire sullo schermo la scritta:

Ehi, Gianfranco! La machina … vavavumma!

      In un'altra circostanza, presi lo spunto dal fatto che, quando non ci si poteva collegare col centro elaborazione dati dell'azienda, sui terminali compariva la scritta:

        APPLICATION NOT POLLING

      e agganciai all'AWS di Paola G. il comando di uscita immediata all'apertura con l'invio a video della segnalazione:

      APPLICATION NOT POLLING, NOT GALLING AND NOT TACCHINING

      Una mattina nel nostro ufficio ci stavamo annoiando più del solito. A un certo punto Tatino disse: “E’ un po’ di tempo che non facciamo uno scherzo a qualcuno”. Mi misi subito d’ingegno.
      Avevamo all’epoca una consulente esterna che di cognome faceva Serpi. Cosa feci, in un lampo d’ispirazione?
      Modificai la prima videata della sua AWS in modo che, quando avesse acceso il terminale, sarebbe comparsa la frasetta, invero del tutto infondata dal punto di vista scientifico:

LE SERPI SONO MORTALI.

      Seguiva una videata riproducente il disegno di una cassa da morto.
      Peccato però che, quando la signorina accese il suo videoterminale, seduto accanto a sé aveva un dirigente della software house, il quale, evidentemente sprovvisto di senso dell’umorismo, andò subito a riferire l’accaduto a Bellachioma, il vicedirettore.
      Il quale, indignatissimo, si fece immediatamente il giro di tutti gli uffici minacciando fuoco e fiamme se una cosa del genere si fosse ripetuta. Parole testuali:

Se qualcuno fa ancora uno scherzo così, lo becco di sicuro e gli faccio fare dal direttore generale uno di quei culi che non se lo scorda più!

      Così almeno disse quando piombò furente nell’ufficio dove lavoravo io. Nel suo caso, la sua calvizie (origine di soprannomi come appunto Bellachioma e come Belli Capelli) impediva di dire che avesse un diavolo per capello ma era comunque incazzato nero; non a caso quella fu l’unica volta che lo sentii urlare.
      Nel nostro ufficio si verificò una situazione surreale. Non solo Bellachioma se la prese con Michela, la quale non c’entrava niente con la goliardatina, aggredendola verbalmente con un: “Anche se non ho prove, so che sei una che questi scherzi li fa, per cui stai attenta!”. Ma, quando mi rivolse uno sguardo, mi rassicurò dicendomi: “Sta’ tranquillo, Gian Contardo: lo so che tu non fai di queste cose”. E invece ero proprio stato io!
      Naturalmente, ehm, mi guardai bene dal prendermi le mie responsabilità accusandomi del fattaccio per scagionare Michela e gli altri colleghi sospettati.

      Un bel giorno Rosella si presentò in ufficio con un vestito un po' particolare: coperto fino all'altezza della gola nella parte anteriore e completamente scoperto nella parte posteriore, almeno fino a poco sopra la zona, ehm, glutea. In altre parole, aveva la schiena completamente nuda, anzi, ignuda (tanto per andare sull'italiano di una volta).
      Nessun pensiero lascivo o machista, né da parte mia né da parte degli altri suoi colleghi maschi. Ma, insomma, goliardicamente parlando, una schiena femminile nuda quale cosa poteva suggerirmi? Un cubetto di ghiaccio, naturalmente. Da appoggiare su quella schiena, altrettanto naturalmente.
      Per ragioni pollitically correct, scartai subito l'ipotesi di andare a chiedere al direttore generale o a qualche altro alto papavero se nel frigorifero in dotazione alla Direzione c'era un cubetto di giaccio da prendere in prestito. Avrei dovuto motivare quella richiesta e dire la verità non sarebbe stato molto utile alla mia immagine, peraltro già ampiamente compromessa, di impiegato ligio al dovere. E  poi, per definizione, un cubetto di ghiaccio può essere regalato (sai che dono!) ma non dato in prestito, per l'ovvia ragione che dopo un po' si scioglie e allora col cavolo che può venire restituito.
       Ma io, da testardo nato, non demordo mai di fronte alle sfide. E quando la sfida si fa ardua, riesco quasi sempre a sfoderare intuizione e improvvisazione. E così accadde anche allora.
       Mi venne in mente che lo scherzo di far saltare Rosella sulla sedia poteva riuscire anche senza un cubetto di ghiaccio: sarebbe bastato un altro oggetto, sufficientemente gelido.
      Individuarlo in azienda fu assai facile: il distributore di bevande fredde dispensava anche graziose bottigliette di Coca Cola, che uscivano dall'apertura belle gelate.
      Procurarmene una fu un gioco da ragazzi: andai nell'area deputata alle pause caffè, infilai un gettone nel distributore, premetti il pulsante della Coca Cola e dopo un paio di secondi dall'apertura comparve una bottiglietta.
      La presi e solerte rientrai in ufficio, pronto a colpire. Qui la Dea Bendata mi aveva favorito le cose: Rosella stava parlando al telefono con qualcuno e quindi era concentrata sulla conversazione.
      Non si accorse dunque di niente quando, con passo felpato, mi posizionai dietro di lei e, con un sorriso di sadica soddisfazione che già era comparso sul mio viso, le appoggiai sulla schiena la bottiglietta di Coca Cola, gelata non solo nel suo contenuto ma anche nel suo vetro.
      Rosella fece un salto sulla sedia, non altissimo come avrei sperato ma comunque lo fece.
      L'essere impegnata al telefono la trattenne indubbiamente dal commentare lo scherzo. Ammirai il suo sangue freddo: l'esclamare un gradimento della burla con un "vaffa" avrebbe anche potuto sortire l'effetto di far credere alla persona con cui stava parlando dall'altro capo della linea che il gentile invito fosse rivolto a lei.

      Quando lavoravo con Ricky e con Delia, notai che Delia aveva l’abitudine di comprare il pane alla mattina prima di recarsi in ufficio, tenerlo nella sua borsa e prenderlo al momento della fine dell’orario di lavoro per portarselo a casa.
      Un giorno, all’inizio della pausa pranzo, mi venne l’idea di farle uno scherzo. Approfittando del fatto che i miei compagni d’ufficio uscivano a mangiare un panino in uno dei bar della zona mentre io rimanevo solo a degustare il mangiare che mi preparava mia madre e che mi portavo da casa, presi il pane dalla borsa di Delia e lo nascosi in un armadio.
      Nelle mie intenzioni, lo scherzo avrebbe dovuto avere il seguente, innocuo epilogo: un quarto d’ora prima di uscire dall’ufficio, le avrei chiesto come mai quel giorno non aveva comperato il pane, Delia avrebbe aperto la sua borsa non trovandolo e, dopo averla fatta stare sulle spine per qualche minuto, le avrei rivelato il nascondiglio del prezioso alimento.
      Ma … quel pomeriggio mi dimenticai completamente dello scherzo progettato e lasciai l’ufficio senza avvertire Delia della sparizione del farinaceo manufatto!
      Solo alle dieci di sera mi ricordai del pane nascosto e mi sentii in colpa, pensando alla povera Delia alla ricerca della pagnotta perduta.
      Il mattino dopo, le porsi le mie sincere scuse ma ella mi rassicurò dicendomi che, quando si era accorta dell’assenza del pane dalla sua borsa, aveva subito pensato a un mio scherzo e si era messa a cercarlo negli armadi del nostro ufficio, trovandolo quasi subito.

      L'anno in cui mi laureai, il 1987, Ezio Greggio imperversava con la sua gag del: "Ma lo sa che Lei è un vero ffffffenomeno?!", con tanto di saliva nebulizzata sulla faccia del malcapitato interlocutore.
      Potevo io astenermi dall'imitarlo quando mi trovavo in ufficio? Certo che no!
      E così, ogni volta che mi saltava il ghiribizzo, mi avvicinavo ad un collega e, dopo aver controllato di avere in bocca sufficiente saliva da espellere, gli dicevo: "Ma lo sa che Lei è un vero ffffffenomeno!"
      Un minimo di galanteria mi impose di fare questo scherzo solo a colleghi maschi. Principali vittime di esso furono Ricky e Donato.
      Ma i miei compagni di lavoro scemi non erano e così, dopo la quinta o sesta innaffiata di faccia, avevano capito l'andamento dello scherzo. Mi lasciavano appena il tempo di dire: "Ma lo sa che Lei è ...", e subito si allontanavano o quantomeno si paravano la faccia con le mani. Brutti stronzi!
      Cosa feci io, allora? Presi le mie contromisure, naturalmente. Mi avvicinavo di soppiatto alle loro spalle, li bloccavo con le braccia in modo da immobilizzarne il collo e, sempre da dietro, accostavo la mia bocca a uno dei lati delle loro facce ed esclamavo: "Ma lo sa che Lei è un vero ffffffenomeno!", con tanto di nebulizzazione irroratrice.

      Altro scherzo che amavo fare spesso ai colleghi (ma anche agli amici che nulla avevano a che fare col lavoro) era quello della cravatta.
      Quando vedevo uno che sfoggiava una cravatta particolarmente elegante, mi avvicinavo a lui e, mentre mi complimentavo per la qualità del capo di vestiario, ne prendevo fra le dita il lembo pendente per testarne la morbidezza. Poi, di colpo, me lo avvicinavo alla faccia e con esso mi soffiavo il naso.
       Scherzo da fare soprattutto quando si è costipati e dalle narici esce sempre qualche cosa.

      In cosa consiste lo scherzo dell’”agguato”? Non in qualcosa di violento, naturalmente. Consiste nell’arrivare di spalle a una persona senza che se ne accorga o nel comparirle davanti all’improvviso e, in entrambi i casi, nel dire con tono sostenuto: “Bau!”.
      Alle mie colleghe ne feci parecchi, di "agguati". Superfluo spiegare perché questi scherzi li facevo alle mie colleghe e non ai miei colleghi.
      Una volta, però, le cose andarono come non avevo previsto. Accadde che, vidi sbucare Marina dall'ascensore, ubicato dalla parte opposta del corridoio da dove mi trovavo io. Mi nascosi dietro uno degli armadi che, per assenza di spazio sufficiente, erano stati collocati lungo le pareti dei corridoi anziché all'interno dei vari uffici.
      Ovviamente, dovevo rimanere nascosto fino all'ultimo, altrimenti Marina mi avrebbe visto. Calcolai dunque l'attimo in cui saltare fuori all'improvviso in base all'avvicinarsi dei passi nel corridoio.
      Ma la fanciulla doveva avermi visto e, poiché dopo che io mi ero nascosto, dalle scale accanto all'ascensore era sopraggiunto anche Ulisse, uno dei funzionari dell'azienda, Marina gli fece cenno di passare davanti a lei.
      E così, quando sentii il rumore di passi arrivare a un metro da dove mi ero nascosto, sbucai fuori con un pesante balzo e feci: "Bau!" ... ad Ulisse.
      Costui era un tipo oltremodo compassato, che non si scomponeva mai, ma quella volta fece a sua volta un salto non dico lo spavento ma almeno la sorpresa.
      Poi, anche intuendo la verità dal fatto che Marina dietro di lui si era già messa a ridere, Ulisse capii di non essere stato lui il destinatario dello scherzo e si mise a ridere anche lui.
      Come al solito quando faccio una figura di merda, anche allora anziché diventare rosso in volto dall'imbarazzo mi misi a ridere a mia volta e mi limitai a chiedergli scusa.

      In ufficio si possono anche fare simpatici scherzi telefonici. Così, tanto per divertirsi un po' e ingannare il tempo.
      Io ne escogitai uno che non richiedeva nemmeno una chiamata. Quando i collegi del mio gruppo di lavoro andavano a fare la pausa caffè, rimanevo in ufficio; dopo un po' alzavo la cornetta del telefono di uno di essi e la ponevo sulla scrivania, poi mi recavo con passo deciso nell'area dei distributori di bevande e snacks, e gli dicevo che c'era una telefonata per lui; il collega partiva di corsa alla volta dell'ufficio e, una volta entratovi, andava alla sua scrivania e afferrava la cornetta. Per scoprire che non c'era nessuno che lo cercava e che la linea era libera.

      Un altro scherzo telefonico che feci spesso fu il classico pernacchione anonimo.
      Prendevo la cornetta, facevo il numero di un interno dell'azienda dove lavoravo, BADANDO BENE DI NON FARE QUELLO DEL DIRETTORE GENERALE O DI ALTRI DIRIGENTI, e nel sentire il classico: "Pronto?", tiravo una pernacchia degna di quella che Totò fa all'ufficiale tedesco nel film I due marescialli.
      Dopo di che, riattaccavo la cornetta. Naturalmente senza proferire una sola parola.

      E veniamo al "Pronto Napo". Avevamo un collega soprannominato Napo, noto per il tono squillante di voce con cui rispondeva al telefono. I suoi "Pronto?", più che col punto interrogativo sembravano esclamati col punto esclamativo: "Pronto!". Sembrava quasi una trombetta.
      Cosa iniziammo a fare? Quando la pausa pranzo volgeva al termine ed egli era già tornato in ufficio, due-tre-quattro di noi, dopo aver attivato il vivavoce, componeva il numero del suo interno e, appena si sentiva il suo entusiastico "Pronto!", riattaccava la cornetta senza dire alcunché.
      Manco a dirlo, anch'io fui della partita e feci le mie telefonate del "Pronto Napo". Non solo. Mi presi il piacevole onere di ricordare ai miei compagni di bisboccia il giornaliero momento del "Pronto Napo".
      Un poetastro come me non poteva non volgere in rima questo importantissimo incarico e così, ogni giorno, quando mancavano 5 minuti alla ripresa del lavoro prendevo spunto dal numero dell'interno di Napo, 253, e dicevo ai miei colleghi: "Sapete che ora è? / E' l'ora del due-cinque-tre".
      Dopo di che, a turno ognuno dei presenti nel nostro ufficio faceva la chiamata del "Pronto Napo".

      Uno scherzo che imparai da altri colleghi fu quello del bagnare con acqua le sedie altrui.
      Quelle che l'azienda ci dava in uso erano sedie imbottite rivestite di un tessuto nero e, poiché l'acqua è trasparente, bastava versarcela sopra e dopo pochi minuti penetrava nell'imbottitura senza lasciare traccia sul rivestimento esterno. Un po' come i pannolini tanto reclamizzati negli spot televisivi.
      Lo scherzo consisteva nel versare circa la metà del contenuto di una bottiglietta d'acqua da mezzo litro sulla sedia di un collega o di una collega che si era assentata dall'ufficio. Al suo ritorno, quand'anche avesse dato un'occhiata al sedile, l'avrebbe trovato perfettamente asciutto, essendo l'acqua già tutta entrata nell'imbottitura. E così il malcapitato o la malcapitata si sedeva e, in virtù della glutea pressione, l'imbottitura rilasciava l'acqua, che andava a procurare una gradevole sensazione di fresco nonché una buona dose di umidità sul suo fondoschiena.
      Modestia a parte, me la cavai egregiamente anche in questa attività ludico-goliardica.

      Concludo la narrazione dei miei scherzi lavorativi con uno che feci in tandem con Luciano.
      Il nostro collega Faccione aveva un grosso problema: le ragazze con cui attaccava bottone non gliela davano mai. Il suo andare in bianco con le donne era dovuto a grande timidezza, che gli facevano fare delle avances oltremodo impacciate. Tant’è vero che anni dopo una tipa sulla quale aveva puntato gli occhi addosso lo definì: “Quel ragazzo timido e imbranato”.
      Una delle ragazze che lo arrapavano di più era la nostra collega Marina. Faccione non faceva che lodare le sue “zinne”; ancora più esplicito fu quando confessò, a proposito di Marina: “Quella donna sprizza sesso da tutti i pori. La voglio! La voglio!”.
     Poiché Faccione continuava a sbavare dietro a Marina, un pomeriggio io e Luciano decidemmo di giocargli un tiro barbino.
      All’epoca io, Luciano e Marina lavoravamo nella sede centrale della software house, mentre Faccione lavorava al c.e.d. (centro elaborazione dati), ubicato in un altro quartiere. Dunque, non poteva vedere Marina dal vivo.
      Si comunicava non tramite e-mail (all’epoca internet non era tanto diffusa nelle aziende) ma tramite istruzioni che consentivano di inviare messaggi da un videoterminale all’altro.
      Carognescamente io e Luciano ci mettemmo d’accordo sul modo di arraparlo ben bene e lo informarono, ognuno dal proprio videoterminale, su una clamorosa quanto falsa novità: quel giorno Marina era venuta al lavoro indossando un golfino trasparente sotto cui si vedeva che non portava altri indumenti!
      Se la sconvolgente notizia gli fosse stata comunicata da un solo collega, forse Faccione avrebbe potuto esercitare su quell’informazione un minimo spirito critico; ma, ricevendola da due colleghi (per giunta affidabili … almeno fino a quel giorno), la ritenne senz’altro fondata e ci cascò in pieno.
      Non parendogli vero di avere sì ghiotta occasione di attaccar bottone con Marina (per giunta su un argomento “piccante” riguardante proprio lei!), Faccione le messaggiò: “Qui mi giungono notizie folli: che sei venuta al lavoro praticamente nuda! Ma sei impazzita?!”.
      Marina, a stretto giro di posta (anzi, a stretto giro di messaggio), gli rispose oltremodo indispettita che non era vero e che voleva sapere chi aveva messo in giro quelle voci false: “Non è vero! Oggi indosso, come sempre, vestiti normali. I nomi! Voglio sapere i nomi!”.
      Lealmente, Faccione non fece la spia ma, volendo dire che io e Luciano eravamo talmente allupati da vedere cose pepate dove non c’erano, le messaggiò: “Eh, sì, la fame è davvero brutta: fa vedere dell’erotismo anche dove non c’è per niente”.
      Ora, questa frase poteva avere due sensi: il primo era che chi è allupato e desidera una donna, a forza di spogliarla con gli occhi (e con l’immaginazione) finisce per vederla nuda anche quando è vestita; il secondo (e purtroppo per Faccione fu proprio in quest’ultimo modo che la interpretò l’interessata) era che Marina non era affatto erotica.
      Non so se la fanciulla rispose male a Faccione, che si rese subito conto dell’N.M.C.D. (Numero Micidiale con Conseguenze Durature) che si era appena fatto. Fatto sta che Marina non solo si arrabbiò moltissimo ma per un bel po’ di tempo non gli rivolse più la parola.
      Il giorno dopo Faccione, sempre tramite messaggi al videoterminale, ci raccontò tutto lo svolgimento dell’imbarazzante episodio (essendo un archiviatore nato, aveva memorizzato tutto il dialogo fra lui e Marina e lo trasmise sia a Luciano che a me) e ci chiamò a render conto del nostro operato con un eloquente: “Che razza di figura del cavolo che mi avete fatto fare!”. Va be', al posto di "cavolo" usò un sostantivo metaforicamente equivalente iniziante anch'esso per "ca" ma io, che sono notoriamente attento all'eleganza del mio stile di scrittura, non posso riportarlo. Porca puttana d'una vacca troia!
      Quando, poco dopo, incontrai Luciano, ci scambiammo informazioni sulla piega presa dallo scherzo e ci mettemmo a sghignazzare senza ritegno sulla figura da pollo che avevamo fatto fare al povero allupato. Alla fine, Luciano osservò sarcasticamente: “E’ inutile che ci ingegniamo tanto per far fare a Faccione delle figure di merda con le donne: ci riesce benissimo da solo”.

lunedì 12 dicembre 2016

I miei scherzi degli anni scolastici

      Lo ammetto: mi è sempre piaciuto, mi piace e mi piacerà a combinare scherzi.
      Posso dividere i miei scherzi in tre categorie: quelli degli anni della scuola, quelli lavorativi e quelli extralavorativi. Cominciamo dai primi.

      Feci il mio primo scherzo alle Elementari. In quell'epoca ero soggetto ad emicranie e portavo sempre a scuola un tubetto con dentro una pastiglia di analgesico caso mai ne avessi bisogno.
      La pastiglia era amarissima, tant'è che a scuola me la davano sciolta in un bicchiere di acqua e zucchero, per mitigarne il gusto. Certo, avrei potuto benissimo ingoiarla e poi bere un po' d'acqua ma era talmente amara che mi veniva da sputarla appena ne sentivo il sapore in bocca.
      Fatto sta che un pomeriggio, sullo scuolabus che mi stava riportando a casa, mi accorsi di avere in tasca il tubetto di farmaci con la pastiglia ancora dentro. Accadeva spesso, perché non è che avessi l'emicrania tutti i giorni, ma quella volta ebbi un'intuizione geniale e naturalmente bastarda.
      Svitai il tubetto, estrassi la pastiglia e poi la porsi al bambino di una classe diversa dalla mia che sedeva accanto a me, dicendogli: "Vuoi una caramella?".
      Alla sua risposta affermativa, gliela diedi. E gli si mise in bocca la pastiglia e dopo neanche cinque secondi la sputò via. Sul suo viso, nel frattempo, era apparsa un'espressione sommamente disgustata, mentre sul mio ne era comparsa una sommamente divertita.

      Negli anni delle Medie Inferiori, quando il mio compagno di classe Roberto veniva a trovarmi a casa, uno dei nostri divertimenti preferiti era prendere l'innaffiatoio con cui mio padre irrorava le piante, riempirlo d'acqua e fare un gavettone "soft" dal lato del terrazzo o da quello del balcone. Soft perché la quantità d'acqua che esce da un innaffiatoio è decisamente minore di quella che esce da un secchio. Di solito, Roberto faceva precedere il gavettone dalla frase, pronunciata con perfetto tono pretesco: "Vi benedico, figlioli!".
      Lo scherzo, però, non era molto divertente, perché dalla parte del terrazzo il piano di sotto sporgeva di un buon metro e mezzo, cosicché non si poteva guardare in strada e quindi non sapevamo se la "benedizione" avesse innaffiato qualche passante oppure no.  Il balcone, invece, dava sul cortile, che però era quasi sempre deserto.
      Solo un paio di volte il balcone fu la postazione di lancio per gavettoni di grande soddisfazione. Una volta le famiglie, quando volevano cambiare i materassi, anziché acquistarli confezionati li facevano fare dai materassai, che utilizzavano la lana di quelli vecchi. E i materassai si facevano nei cortili dei clienti ...
      Fu così che in quelle due occasioni, preceduti dalla liturgica frase di Roberto: "Vi benedico, figlioli", dall'innaffiatoio di mio padre partirono gratificanti gavettoni che andarono a segno, spruzzando d'acqua sia i materassai che la lana che essi stavano assemblando.

      Sempre a casa mia, io e Roberto facemmo il nostro primo scherzo telefonico.
      Da ragazzini già smaliziati, per farci due risate prendemmo l'elenco telefonico per cercarvi i cognomi dal significato imbarazzante.
      Quando giungemmo alla breve sfilza di utenti con cognome "Cazzoli", ci venne l'idea dello scherzo telefonico.
      Esecutore materiale fu Roberto, che prese la cornetta e compose il numero di telefono di uno degli abbonati di cognome Cazzoli.
      Rispose una donna.
      "Pronto? Parlo con la signora Cazzi?"
      "No, sono Cazzoli."
      "Oh, cazzo!"
      E Roberto riattaccò la cornetta.
      Che dire? A quei tempi bastava davvero poco per divertirsi.

     Una volta fui protagonista di uno scherzo del tutto involontario, che non mi era minimamente passato per la testa né di architettare né, tantomeno, di fare. Ma, si sa, le cose che uno fa senza intenzione sono quelle che riescono meglio.
      Nella primavera del 1974 i gironi di semifinale di Coppa Italia si erano svolti per un po’ con una distanza di tre settimane fra una partita e l’altra. Nel girone della Juventus erano comprese anche il Cesena, il Palermo e la Lazio, che stava guidando la classifica di Serie A, tallonata dalla Juve. Presupponendo io che l’intervallo di tre settimane fosse la regola e non essendoci allora tutta l’informazione televisiva che c’è al giorno d’oggi, il mercoledì pomeriggio in cui credevo ci fosse Juve-Lazio di Coppa Italia avevo combinato con Roberto (peraltro tifoso del Toro) e Giampiero (un nostro compagno di classe) di andarla a vedere. Gli accordi erano che io e Roberto ci saremmo incontrati con Giampiero all’entrata dello Stadio Comunale.
      Giunti a una delle entrate dello stadio, io e Roberto non solo non trovammo Giampiero, che evidentemente non era ancora arrivato, ma nemmeno la benché minima traccia di altri tifosi. Provammo allora a chiedere a uno dei custodi, che incontrammo nei paraggi, e questi ci disse che non era in programma alcuna partita! Evidentemente, il calendario dei gironi non prevedeva la scadenza fissa di tre settimane fra una partita e l’altra.
      Ad ogni modo, aspettammo Giampiero ancora per qualche minuto e alla fine, visto che non arrivava, andammo via.
      Il giorno dopo si scatenò l’uragano. Entrati in classe, trovammo Giampiero arrabbiatissimo, che inveendo animatamente contro di noi ci accusò di avergli fatto uno scherzo. Fra un improperio e l’altro, ci disse che non solo si era recato allo stadio ma si era portato dietro una decina di amici formando con loro un variopinto e rumoroso corteo munito di bandiere bianconere, di trombe e di tamburi: immaginatevi gli sguardi sconcertati dei passanti nel vedere un gruppo di giovani tifosi recarsi gioiosamente allo stadio per vedere una partita che non si sarebbe giocata! Non sorprende dunque che Giampiero fosse piuttosto inviperito: oltre ad essersi recato al “Comunale” per niente, aveva anche fatto una figuraccia coi suoi amici.
      Inutili furono le spiegazioni mie e di Roberto: a nulla servì ripetergli varie volte che anche noi eravamo andati allo stadio e che non si era trattato di uno scherzo. Giampiero ci tenne il muso per parecchi giorni. Poi, come si suol dire, facemmo pace e mettemmo una pietra sopra l'imbarazzantissimo episodio.
      Ora, col senno del poi, riconosco che per Giampiero era difficilissimo, se non impossibile, credere alla nostra buona fede; tutto lasciava propendere per la tesi dello scherzo. Dunque, se allora mi arrabbiai perché non aveva creduto alla mia buona fede, adesso capisco che tutto, in quell’equivoco, congiurava a favore della tesi della burla e quindi è comprensibile che Giampiero abbia creduto che avessimo voluto fargli uno scherzo.
      Ironia della sorte, circa sei mesi dopo iniziò ad andare in onda l'ultima edizione di Canzonissima, la cui sigla aveva come colonna sonora la canzone La vita l'è bella, interpretata da Cochi e Renato. Or bene, col sottofondo del passo della canzone in cui si dice: "C'è chi sbaglia ad andare allo stadio", si vedeva Cochi e Renato vestiti da tifosi entrare in uno stadio vuoto. Ogni volta che la vedeva, mia madre si metteva a ridere dicendomi: "Sembrano Giampiero e i suoi amici qualche mese fa". Con la differenza che Cochi e Renato allo stadio vuoto erano potuti accedere, mentre i custodi dello Stadio Comunale non avevano fatto entrare Giampiero e i suoi amici.

      Alle Medie Superiori feci un simpatico scherzo alla mia compagna di classe Monica. Alla fine della Quarta, eravamo andati in pizzeria a festeggiare l'inizio delle vacanze.
      Usciti di là, passammo il resto del pomeriggio al Parco Rignon, a fare due passi e quattro chiacchiere.
      Anche in quel parco c'erano le tipiche fontanelle di Torino, con la parte superiore modellata a forma di toro. Caratteristica di queste fontanelle è che buttano fuori l'acqua sia verso il basso che verso l'alto, grazie ad un sistema di vasi comunicanti. Di solito, dal getto che cade verso il basso si abbeverano i cani che vengono portati a spasso, mentre allo zampillo che punta verso il cielo (come sono poetico!) si accostano gli umani per bere o per rinfrescarsi le mani.
      Non ricordo più chi me l'aveva detto in precedenza ma quel giorno ero a conoscenza di un simpatico dettaglio: se uno mette un dito nel foro inferiore di fontanelle di quel tipo per tapparne l'uscita dell'acqua, si crea un aumento di pressione che aumenta la portata e l'altezza dello zampillo che esce verso l'alto. Lo scherzo che può derivarne, e che avevo già fatto con successo altre volte, è che, se si ostruisce con un dito il foro inferiore mentre un'altra persona sta bevendo dal foro superiore, per l'aumento dello zampillo si lava la faccia. Naturalmente senza averne la minima intenzione.
      Caso volle che, in quel soleggiato pomeriggio di primavera del 1978, la prima compagna di classe che si chinò a bere a una fontanella del Parco Rignon fosse Monica.
      Mi avvicinai di soppiatto, con mossa decisa ma furtiva tappai con un dito il foro inferiore della fontanella e dopo non più di un secondo, splash!, Monica si trovò con la faccia lavata.
      Non che ne avesse bisogno, sia ben chiaro.

     Sempre alle Medie Superiori, presi parte anche ad alcuni scherzi "collettivi", fatti cioè da tutta la classe.
     In Seconda ne facemmo due alla prof.ssa Bertola, nostra insegnante di Lettere e Storia.
      Era da poco iniziato l'anno scolastico e avevano portato i banchi nuovi, avvolti nel cellophane. Togliemmo i rivestimenti dai banchi e li annodammo in modo ricavarne dei lunghi segmenti e con essi infiocchettammo la cattedra qualche minuto prima che arrivasse la prof. A completare l'opera, , venne depositato sulla piccola porzione ancora libera del piano della cattedra un simpatico bigliettino, da me scritto e che ricalcava lo stile di quelli che di solito accompagnano i pacchi regalo.

     Un'altra volta ci mettemmo tutti d'accordo e alla fine dell'ora di lezione precedente quella della prof.ssa Bertola andammo tutti a nasconderci nei bagni.
      Così, quando la prof. arrivò ed entrò in classe, la trovò vuota. Sorpresa! E non era nemmeno periodo di Carnevale né il primo aprile.
      Se avessimo frequentato le Medie Superiori una decina di anni prima, a fare scherzi come quelli sarebbero sicuramente stati cavoli amari per noi. Ma i tempi erano cambiati, la goliardia era accettata da quasi tutti i docenti come cosa naturale da guardare con comprensione e la prof.ssa Bertola, dal canto suo, agli scherzi sapeva stare.

      Al simpaticissimo prof. Podio, nostro insegnante di Religione in Seconda e in Terza, facemmo invece un altro scherzo.
      Concordammo di ignorarlo completamente durante l'ora di lezione che stava per iniziare, di non rivolgergli la parola, di fingere di non vederlo, di comportarci insomma come se lui non fosse in classe.
     Il prof. Podio arrivò e, dopo un iniziale momento di sorpresa, capì di cosa si trattava e stette al gioco implorandoci con voce fintamente piagnucolosa: "Ragazzi, che cosa vi ho fatto? Su, ditemi qualcosa!".
      Poi fece l'appello. Naturalmente nessuno rispose: "Presente!" o "Sì!", né alzò la mano. Io però volli l'originale e riuscii a strappare una mezza risata al prof., che fino ad allora aveva recitato alla perfezione la parte del docente sorpreso ed amareggiato; quando pronunciò il mio nome, anziché la mano sollevai un piede.
      Come tutti i bei giochi, anche quello durò poco e dopo una decina di minuti ritornammo ad accorgerci della presenza in classe del prof. Podio.

giovedì 8 dicembre 2016

Il cowboy senza cuore

      Un cowboy senza cuore, alla ricerca di un po' d'oro nascosto chissà dove, si era perso nel deserto.
      Col cavallo quasi allo stremo, con la gola arsa dalla sete, si trovò davanti una lucertola.
      Estrasse la pistola dalla fondina e, senza che la bestiola gli facesse alcun male, mirò e sparò, uccidendola per il solo piacere di uccidere.

      La lucertola si stava dirigendo verso una pozza d'acqua, che solo lei conosceva.
      Il cowboy senza cuore morì di sete nel deserto.

      Storiella ispiratami da una scena del film Cielo giallo, con Gregory Peck e Richard Widmark.

sabato 3 dicembre 2016

Recensione a OSSESSIVAMENTE VIOLA. Il nuovo capolavoro di Renata Di Leo



Ossessivamente Viola, l'ultima fatica letteraria di Renata Di Leo, ha tutti i requisiti per riscuotere un enorme successo di pubblico e di critica.
E' un libro avvincente, che lascia il lettore incollato alle pagine dall'inizio alla fine: un libro che si legge tutto d'un fiato.
Come gli affermatissimi bestseller di un Dan Brown o di un Ken Follett.
Con in più una qualità più unica che rara: quello che molti affermati romanzieri dicono un decine di pagine, Renata Di Leo lo dice in poche pagine. Solo i grandi scrittori riescono a comunicare in poche frasi quello che vogliono trasmettere al lettore, a cominciare da quelle cose difficilissime da descriversi che sono le emozioni e i sentimenti. Renata Di Leo ci riesce, in modo impeccabile e talvolta anche commovente.

La letteratura è iperbole, volo pindarico, metafora emozionale della vita e ne rappresenta sul palcoscenico delle pagine non solo i misteri e gli imprevisti ma anche l'evoluzione e l'esperienza di sé e del mondo. Ossessivamente Viola è quindi un mirabile esempio di opera letteraria. E costituisce inoltre una convincente tappa di crescita e di perfezionamento dell'Autrice, che alla sua terza esperienza narrativa non solo conferma il suo grande talento ma dà di esso una prova più matura, più nitida, più incisiva, in attesa di ulteriori passi lungo il cammino dell'arte della scrittura.

Partendo dall'ultimo racconto, volutamente lasciato a metà, del suo precedente libro Ho sognato Pablo, l'Autrice di Ossessivamente Viola ci regala un'altra raccolta di racconti, questa volta però uniti da due personaggi presenti in tutti: Viola, appunto, giornalista; e il commissario Ferry, che di volta in volta le racconta i casi e le storie di cui è venuto a conoscenza, spesso nel corso delle sue indagini.
Le trame noir dei racconti, costruiti da Renata Di Leo con pochi e precisi tratti come un pittore geniale fa emergere un'opera d'arte con pochi e precisi tratti di pennello, non devono però trarre in inganno: dietro storie tragiche si dipana a poco a poco quello che a mio parere costituisce l'universo creativo dell'Autrice e cioè i sentimenti, l'amore e anche l'eleganza del vivere.
Il libro, si diceva, comincia con l'ultimo racconto di Ho sognato Pablo: in una torrida giornata d'agosto, in una Londra deserta, uno stalker comincia a infastidire e impaurire Viola. Anche questa volta il racconto si interrompe a metà, per lasciare il posto a un flashback dei tre anni precedenti durante i quali il commissario Ferry aveva fatto alla sua amica giornalista i suoi resoconti, più o meno romanzati, degli episodi a cui aveva assistito.
Piacere di gustare ognuno di questi capitoli, quello che attende il lettore di Ossessivamente Viola. Ma anche necessità di prestare attenzione ad ogni passo del libro, per chi è appassionato di thriller, perché ... un indizio rivela l'identità dello stalker che terrorizza Viola.
Alla fine del volume, riprende il racconto iniziale e lo stalker ... be', non è giusto anticipare il finale.
Così come non è corretto rivelare quali sviluppi avrà l'amicizia tra Viola e il commissario Ferry.

Ossessivamente Viola è un capolavoro da non perdere, un libro che non può e non deve mancare nelle librerie dei Lettori, quelli con la "l" maiuscola.

Renata Di Leo
Ossessivamente Viola
Mediaprint Editrice, 2016
pp. 236, 20 €

Chi è su Facebook può prenotare il libro mandando un messaggio al profilo dell'Autrice "Renata Di Leo".
Chi non è su Facebook o preferisce usare un altro canale, può mandare un'e-mail all'indirizzo di posta elettronica renatadileo@virgilio.it.
L'Autrice chiederà l'indicazione di un recapito postale a cui spedire la copia o le copie del libro. Inoltre, verrà richiesto di specificare la modalità di pagamento.
Nella busta, insieme al libro, i lettori troveranno l'indicazione del codice iban e degli altri dati necessari per effettuare il pagamento tramite bonifico bancario oppure quelli per pagare con Postepay o con altre modalità.

venerdì 2 dicembre 2016

Rigida come una statua di cera

La vide arrivare,
rigida come una statua di cera,
con l'epidermide protesa
verso un improbabile eternità,
verso un sicuro sciogliersi
nell'amaro e triste liquido
dell'ultimo suo fallimento.

La vide rimanere,
rigida come una statua di cera,
in un breve quanto duro
raccoglimento alla vana ricerca
di nuove illusioni
che dessero vita
a residui scampoli di successo.

La vide andarsene,
rigida come una statua di cera,
con la plastica compostezza
di chi non vuol farsi
vedere piangere,
con la trattenuta fretta
di nascondersi al mondo
per potersi liquefare
in lacrime di sconfitta.

Versi ispiratimi dalla frase "... la vide arrivare, rigida come una statua di cera" in Renata Di Leo, Ossessivamente Viola, Mediaprint Editrice, p. 23.