sabato 24 ottobre 2015

Anestesie dal dentista

      A 23 anni d'età mi venne praticata la prima anestesia locale per curare i denti.
      Essendo io disabile e poiché la mia spasticità non ha mai reso agevole le mie cure dentarie, per la mia famiglia fu un vera odissea trovare un odontoiatra disposto a prendersi cura dei miei denti. Da bambino ero sì andato da un dentista in un paio di circostanze ma quello specialista ci aveva chiaramente detto che non aveva piacere di occuparsi di me. Fu dunque giocoforza, da ragazzo, farmi curare i denti in anestesia totale alla clinica odontoiatrica dell'Ospedale Molinette; il che mi procurava la poco piacevole necessità di finire in anestesia generale per cure che altrimenti non l'avrebbero comportata e l'obbligo, per evitare di fare una narcosi totale per un solo dente, di "accumulare" tre o quattro denti cariati, con l'inevitabile conseguenza che le prime carie comparse sarebbero nel frattempo scese in profondità.
       Poi, per mia fortuna, nel 1983 trovammo due odontoiatri, i fratelli dottori Dino e Paolo Cimma, disposti a curarmi i denti e da allora non ho più avuto bisogno di finire sotto anestesia totale per un'otturazione o una devitalizzazione. Come disse un giorno in dottor Dino, nel mio caso bastava avere un po' più di pazienza e un po' più di tempo e per il resto non c'erano problemi di sorta.
      Devo a loro se in bocca ho ancora quasi tutti i denti.
      Queste frasi servano per manifestare al dottor Dino e al dottor Paolo tutta la mia gratitudine.
      Ma torniamo alle iniezioni "dentarie".

      La prima anestesia locale in bocca me la fece il dottor Dino, per "addormentare" un incisivo che andava trapanato in profondità. Non mi fece alcun male, naturalmente, e con sollievo constatai che dopo l'iniezione il trapano non mi procurava alcun fastidio né tantomeno arrecava alcun dolore.
      La cosa filò liscia per un bel po' di sedute, col dottor Dino che mi chiedeva: "Vuoi l'anestesia?", e io che gli rispondevo con convinzione: "Sì".
      Ma la legge dei grandi numeri non sempre si manifesta in modo positivo, come ad esempio far vincere la tua squadra di calcio preferita dopo 45 sconfitte consecutive. E così, nel caso delle anestesie locali dentista, la legge dei grandi numeri si tradusse in episodi in cui patii un male pazzesco.

     A cominciare da quando per la prima volta mi imbattei nella tronculare.
     La quale è quell'anestesia che, praticata nell'arcata dentaria inferiore in un punto oltre l'ultimo molare di destra o di sinistra, ha come fine quello di anestetizzare il nervo che si dipana lungo la mandibola. Questo perché per i molari e in determinati casi anche per i premolari non basta anestetizzare l'area attorno al dente da curare, in quanto esso è in qualche modo a contatto col nervo "mandibolare".
      Il lato antipatico della tronculare non è l'ago lungo della siringa, che serve per raggiungere il fondo della bocca ma un effetto collaterale che a volte si presenta e di cui in quell'occasione ero ancora del tutto all'oscuro.
      Fatto sta che, quando il dottor Dino, che doveva estrarmi la radice di un molare, preparò la siringa, io aprii la bocca tutto rilassato e contento.
      Qualche attimo dopo, però, quando aveva già infilato l'ago nella gengiva, sentii una vera e propria scossa, alquanto dolorosa, corrermi lungo la mandibola. Naturalmente urlai: sono un tipo stoicamente ipersensibile al dolore.
      Il dottor Dino allora mi spiegò che a volte, quando l'ago tocca direttamente il nervo della mandibola, provoca un dolore simile a quello di una scossa elettrica. Non sempre, perché se si inietta l'anestetico in un punto dove l'ago non raggiunge il nervo, l'iniezione non causa alcuna sensazione di scossa.

      Non mi fece invece alcun male la prima tronculare che mi fece il dottor Paolo. Ma la sua origine fu tutta da ridere. A posteriori, naturalmente.
      Accadde il 31 dicembre 1984: certi eventi, si sa, ti segnano talmente che a distanza di anni te ne ricordi anche la data.
      Quella fu la prima volta, che però non fu purtroppo l'ultima, che ebbi un problema odontoiatrico in un periodo festivo. Capita di avere dei problemi nei giorni meno indicati, in cui si rischia di non trovarvi soluzione.
      Meno male che i dottori Cimma si sono sempre mostrati disponibili a ricevermi in seguito alle emergenze. Anni dopo, in un'altra occasione (anch'essa durante le Festività Natalizie), il dottor Paolo addirittura aprì lo studio apposta, interrompendo oltretutto le vacanze, per mettermi a posto un morale. Da persona signorile qual è, non me lo disse per non farmelo pesare ma io lo capii ugualmente.
      Ma torniamo al giorno di san Silvestro del 1984.
      Mi si era rotto un premolare inferiore: era saltata sia l'otturazione che un pezzo di dente; il premolare era ridotto a uno spuntone acuminato e mi faceva pure male.
      In quell'epoca, a curarmi i denti era il dottor Dino e lo sarebbe stato ancora per un po' di anni, prima che si ritirasse e dello studio il dottor Paolo divenisse l'unico titolare.
      Quella mattina però, sia per la data prefestiva, sia perché la mia era un'emergenza e quindi mi aveva ricevuto senza appuntamento, il dottor Dino era occupato con altri pazienti e chiese a suo fratello di prendersi cura di me.
      Come accade all'inizio di ogni seduta, il dottor Paolo prese in mano i due strumenti che servono per ispezionare i denti: lo specchietto e li specillo.
      Quest'ultimo è costituito da un manico con ad entrambe le estremità una punta aguzza e ricurva a mo' di uncino, che serve ad entrare nel dente per togliervi residui di otturazione o parti cariate. Se poi la punta incontra la parte del dente sensibile portata allo scoperto, l'escavatore diventa efficace come un radiotelescopio. Nel far vedere le stelle.
      E fu così che, quando il dottor Paolo toccò con lo specillo la polpa del mio molare, cacciai fuori un urlo che al confronto Tarzan faceva la figura dell'afono.
      Ma, d'istinto, chiusi di scatto la bocca e diedi al dottor Paolo un morsicone tale che la punta acuminata di quel mio premolare fece il suo deciso ingresso in un polpastrello del buon odontoiatra.
      Risultato: anche il dottor Paolo cacciò fuori un urlo che al confronto Tarzan faceva la figura dell'afono.
      Anzi, poiché presumo non passò più di un decimo di secondo fra una sensazione di dolore all'altra e quindi anche da un urlo all'altro, le due manifestazioni vocali di male pazzesco si fusero in un unico urlo bestiale.
      Ripresomi quasi subito dal dolore, vidi che il dottor Paolo si stava ancora tenendo il dito morsicato, sul cui polpastrello si vedeva un taglio di circa un centimetro.
      Dopo che si ebbe suturato il polpastrello con un cerotto, prese in mano la siringa dell'anestesia locale e dall'ago lungo compresi subito la crudele realtà: TRONCULARE!
      Esclamai: "Oh, no!".
      In tutta risposta, il dottor Paolo disse deciso: "Oh, sì!". E mi fece l'iniezione.
      Che però non mi fece alcun male.
      Nove anni dopo, essendo le condizioni di quel premolare peggiorate, il dottor Dino decise di devitalizzarmelo. Temevo la tronculare ma, dopo aver fatto la preliminare verifica con lo specchietto, egli mi disse: "Bene, è un premolare, come anestesia non c'è bisogno di una tronculare, basta  una locale".
     Tirai un sospiro di sollievo ma, dopo essere tornato a casa, mi venne il dubbio: "Quel fatidico 31 dicembre 1984, il dottor Paolo mi aveva fatto la tronculare per quel premolare perché era solito farla a tutti o per vendicasi del morsicone che gli avevo appena dato?".
      Non avrò mai una risposta certa a sì angosciante dilemma esistenziale ma il fatto che non mi aveva fatto male e che, in anni più recenti, mi fece la tronculare per un altro premolare depone per una legittima diversità di scelta fra odontoiatri e non per un attacco di vendicativo sadismo da parte del dottor Paolo.
      Quanto al dottor Dino, mi fece anch'egli altre volte la tronculare. In una di queste, mi confortò dicendomi: "Coraggio, è sempre meglio di una martellata su un dito".
      Non fui d'accordo ma non glielo dissi, anzi, mi misi pure a ridere (anche se di ridere non avevo voglia per niente) per non mostrarmi fifone e affrontai stoicamente l'ennesima sfida col dolore della possibile scossa lungo la mandibola.
      Diciamo che c'è martellata e martellata. Sicuramente la tronculare è molto meglio di una martellata sui coglioni (non foss'altro perché quest'ultima ha degli sgradevoli ed irreversibili effetti collaterali); quanto però alla martellata su un dito, francamente allora l'avrei preferita alla tronculare.

      Non che le locali (le anestesie limitate alla zona del dente da mettere a posto) siano sempre indolori.
      Capita a volte che un dentista e, quel che è peggio, un paziente si imbattano in uno stock di fiale di anestetico inefficaci.
      Una sera il dottor Dino doveva trapanarmi un premolare superiore. Mi fece le due proverbiali punture, una sulla gengiva esterna e l'altra su quella esterna, lasciò passare i minuti necessari all'anestetico per fare effetto, iniziò a trapanare e, appena giunse alla polpa, cacciai fuori un urlo.
      Ritenendo di non avermi iniettato sufficiente anestetico, inserì un'altra fiala nella siringa e mi fece due nuove punture. Con lo stesso effetto: appena toccata la polpa, mi esibii in un nuovo urlo di Tarzan.
      Fece un terzo tentativo. Identica sorte. Lamentandosi delle fiale difettose, mi fece alzare dalla poltrona e mi diede appuntamento per la settimana successiva.
      Quando le cose filarono lisce: l'anestetico fece subito effetto e il dottor Dino poté trapanarmi il premolare senza alcun problema e, soprattutto, senza alcun urlo bestiale da parte mia.

      A un certo punto il dottor Dino smise di occuparsi di odontoiatria e anch'io passai alle cura del dottor Paolo.
      Accadde però che, pochi mesi dopo, incappai in una nuova emergenza:  un male cane a un incisivo inferiore. Recatomi allo studio, vi trovai il dottor Dino, che salutai con vivo piacere.
      Il dottor Paolo mi aveva trovato un buco fra un appuntamento e l'altro ma, visto che il dottor Dino era lì, si misero d'accordo che quest'ultimo si sarebbe preso cura di me.
      Effettuata la valutazione del dente, il dottor Dino mi disse che l'unica cosa da farlo era toglierlo.
      La cosa non mi turbò più di tanto: ho una dentatura un po' strana, coi denti inferiori che, dagli incisivi ai canini, sono più piccoli di quelli superiori, tant'è che anche quando sorrido non si vedono e inoltre, gli incisivi non mi avevano mai aiutato a masticare a dovere. La prospettiva di privarmene di un altro (quelli centrali mi erano stati estratti già nel 1979, prima di conoscere i dottori Cimma) non mi creava alcuna angoscia.
      Inoltre, avevo molto dolore da giorni e, come si suol dire, quando si ha male anche il rimedio più drastico non solo non è detestato ma, anzi, è auspicato.
      Infine, per gli incisivi l'anestesia praticata è la locale, non la temuta tronculare.
      Anche questa volta, però, feci i conti senza l'oste, che in quel caso era rappresentato da un processo chimico che, in presenza di un ascesso o comunque di un'infiammazione a denti e gengive, porta l'anestesia a non sortire efficacia alcuna.
      E fu così che, appena il dottor Dino prese in mano le proverbiali tenaglie e provò a strapparmi via il dente, mi misi ad urlare.
      Anche in questo caso, seconda iniezione e seconda attesa che l'anestetico facesse effetto. Poi, al secondo tentativo di estrarre il dente, nuovo urlo da spennato vivo.
      Vuoi la guerra? - Si dice. - E guerra sia!
      Il dottor Dino passò alla tronculare. Ormai il terrore delle tenaglie si era talmente impadronito di me che benedii anche la tronculare e quasi non avvertii la scossa che mi diede al nervo della parte sinistra della mandibola.
      Nuova attesa di qualche minuto, nuovo tentativo di strappata e nuovo acuto da urlatore da parte mia. Tony Dallara, al mio confronto, era già diventato un sussurratore di frasi gentili alle orecchie delle signore.
      Vidi un'espressione sconsolata negli occhi del dottor Dino.
      Fu allora che Patrizia, l'infermiera di sala, gli suggerì: "E provare con l'intraligamentare, dottore?".
      Termine ostrogoto per indicare quell'iniezione che prevede la penetrazione dell'ago in profondità infilandolo fra il dente e la gengiva.
       Il dottor Dino accolse il suggerimento e mi fece l'intraligamentare. Un male pazzesco! E un nuovo urlo da parte mia, di intensità direttamente proporzionale al dolore pazzesco. Sarebbe stato molto meglio se mi avesse dato una martellata su un dito e francamente non credo che un calcio nei testicoli mi avrebbe fatto meno male. Calcio inguinale comunque sempre da evitare, per via degli irreversibili effetti collaterali.
     Subito dopo, però, avvertii delle sensazioni positive: il dente sembrava finalmente desensibilizzato e non avvertivo più dolore alla già tanto martirizzata area.
      Il dottor Dino prese allora di nuovo in mano le tenaglie e finalmente riuscì ad estrarmi il dente, senza farmi alcun male.
     Col senno del poi, sarebbe stata molto meglio l'anestesia che Padre Pedro (Bud Spencer) pratica nel film Porgi l'altra guancia per levare un dente: una botta in testa e il dente viene strappato via prima che il paziente riprenda conoscenza.
      Ero talmente sollevato dalla fine delle torture che mi misi a profondermi in sinceri ringraziamenti al dottor Dino per aver posto fine alle mie sofferenze dentarie.
      Mi ero già alzato dalla poltrona quando entrò il dottor Paolo dalla sala vicina dove stava curando un'altra persona e, riferendosi alle mie urla di dolore, ci disse ridendo: "Mi fate scappare tutti i pazienti!".
      In effetti, essere in sala d'attesa e sentire le urla di dolore è sotto le cure di un odontoiatra non è il massimo per prepararsi psicologicamente al meglio per la seduta.

giovedì 22 ottobre 2015

L'epoca delle punture

      Leggendo il capitolo che Francesco Guccini ne Il dizionario delle cose perdute dedica alle iniezioni, ho constatato che nei vent'anni d'età che ci separano la "procedura" delle iniezioni rimase pressoché la stessa, nel senso che quella che lui, bambino, descrive per gli anni '40 del XX secolo sembra calzare alla perfezione con quella che io, bambino, ho dovuto sopportare negli anni '60.
     Fu solo verso la fine degli anni '70 che, col diffondersi delle siringhe monouso ad aghi sottili, le cose migliorarono decisamente per i fondoschiena di bambini ed adulti.

      Iella ha voluto che da bambino io soffrissi spesso di tonsilliti. E, all'epoca, tonsillite voleva dire iniezioni di penicillina. Per l'esattezza, il mio pediatra mi prescriveva la Vicillina e, più, spesso, la Trivicillina, antibiotici di diversa potenza ma dallo stesso effetto chiappico: il loro liquido, appena entrava nel gluteo, faceva decisamente male. Una volta, poi, mi presi una tonsillite a luglio, il mio pediatra era in ferie e il sostituto mi prescrisse una variante ancora più terribile della penicillina, contenente anche delle vitamine: farmaco talmente potente che se ne sentiva la puzza dalla siringa e che, per dirla con Massimo Boldi, faceva un male pazzesco.
      Non deve dunque sorprendere, dunque, che io abbia elaborato in quegli anni una strategia difensiva in cui l'istinto di sopravvivenza si armonizzava alla perfezione con l'elaborazione razionale: quando mi veniva una tonsillite, negavo categoricamente di avere male alla gola. E la mia povera mamma continuava a ripetere a parenti e conoscenti: "Ma come fa ad avere le tonsille infiammate se non ha mal di gola!".
      Tecnica che però, nonostante fosse sostenuta da una capacità di recitazione non comune che mi faceva apparire pieno di salute quando invece stavo malissimo, non funzionava mai. A causa di quel piccolo particolare clinico che fa sì che, di solito, una tonsillite è accompagnata da febbre alta. E così si innescava la catena di eventi che conduceva inevitabilmente alle iniezioni: la mamma mi vedeva un po' giù, mi toccava la fronte, la sentiva calda e anche se io le assicuravo che non avevo mal di gola mi misurava la temperatura, quel brutto bastardo del termometro schizzava regolarmente oltre i 38 gradi, la mamma chiamava il pediatra, il bravissimo dottor Piccato, il pediatra arrivava, si faceva dare dalla mamma un cucchiaio pulito, mi faceva aprire la bocca, mi infilava in bocca il manico del cucchiaio per bloccare la lingua e spalancare le mascelle onde poter vedere meglio la gola e alla fine, scorgendovi evidente arrossamento di tonsille e in qualche caso addirittura delle placche, sentenziava la diagnosi di tonsillite. Da lì ad estrarre dalla borsa il blocco per le ricette e scrivervi sopra il nome dell'antibiotico da farmi iniettare, il passo era breve, molto breve, brevissimo.

      Passata in giudicato la sentenza e recatasi in farmacia a prendere le fiale, la mamma andava a chiamare la signora che nel condominio "sapeva fare le punture".
      Dicasi "signora che sa fare le punture" individuo umano di sesso femminile che abbia acquisito conoscenza e pratica di fare le iniezioni senza essere infermiera.
      Lungo il corso della mia infanzia, ebbi due "signore che sapevano fare le punture": dapprima la signora Caterina Mignacco, che abitava al piano di sotto a quello dov'era l'alloggio dei miei genitori, e poi la signora Giuse Buzzetti, che invece abitava al nostro stesso piano. In seguito, le iniezioni me le fece la signorina Rita (Ritìn) Sobrà, la quale però era infermiera di professione. Da adulto, invece, ad avere l'ambito onore di bucherellarmi il sederino fu la signora Rita Contino ma ciò è stato in un'epoca in cui il farmi fare le iniezioni non mi procurava e non mi procura più alcun patema.
      Già, perché il mio rapporto con aghi e siringhe, com'è logico che sia per tutti, si è evoluto col passare degli anni.

     Da piccolino ero letteralmente terrorizzato dalle iniezioni. Non solo: cercavo in tutti i modi di impedirle: piangevo, urlavo, mi dimenavo, scalciavo.
      Il primo ricordo che ho delle punture risale a quando i miei genitori mi portarono a fare un vaccino in un ambulatorio pubblico. Dovrò avere avuto sui quattro anni d'età. Mi rivedo piangente e tutto intenzionato a non stare fermo ma non ricordo altro di quel giorno. Mia madre mi avrebbe poi raccontato che la malcapitata infermiera incaricata di inocularmi il vaccino fece le proverbiali fatiche di Ercole per riuscire infine a farmi la puntura.
      A farne le spese fu la signora Mignacco, la prima che mi fece le punture a domicilio, proprio perché coprì tutta la fase dei miei strazianti tentativi di ribellione.
      Il riuscire a farmi un'iniezione comportava all'epoca un sofisticato gioco di squadra. Dopo che i miei genitori con tutte le blandizie del caso erano riusciti a farmi mettere a pancia in già e a scoprirmi il culetto, arrivava la signora Mignacco con lo strumento di tortura in mano.
      Allora mia madre mi placcava letteralmente premendomi sulle spalle, mentre mio padre mi teneva lunghe e ferme le gambe impugnando le mie caviglie con le mani.
      E nonostante fossi piccolo e pure gracile di costituzione, nemmeno così il risultato era garantito, tant'è che spesso la signora Mignacco riusciva ad infilarmi l'ago della siringa in un gluteo solo dopo due o tre punture.
      A questo quadro, già drammatico di per sé, si aggiungeva il particolare che il contenuto della siringa doveva essere inoculato senza perdere troppo tempo, altrimenti il liquido si sarebbe solidificato e l'iniezione non avrebbe potuto essere fatta. In sostanza, la piccola belva in gabbia che ero io in quei momenti, pur con tutta la gentilezza possibile, andava punturata senza indugi e quindi con una certa dose di decisione.

      Ebbi questi atteggiamenti da resistenza disperata nei confronti delle iniezioni fino all'età di otto anni circa, quando un episodio cambiò il mio modo di affrontare sì dure prove di vita, anche se non diminuì minimamente la mia paura verso aghi e siringhe.
      I miei genitori e quelli di una mia compagna di classe, Cristina, si erano messi d'accordo per portarci insieme dal pediatra per farci fare la vaccinazione antitetanica e antidifterica.
      Arrivati che fummo nello suo studio, il dott. Piccato ci fece entrare insieme, con le nostre rispettive mamme, e chiese: "A chi faccio il vaccino per primo?".
      Vedendo che Cristina cominciava già a piagnucolare, ebbi l'intuizione: offrendomi volontario, potevo prendere due piccioni con una fava ossia farmi vedere coraggioso davanti a lei e levarmi il fastidio, anzi, la paura per l'iniezione il prima possibile.
      E così feci. Dissi che volevo andare io. Il pediatra, naturalmente, non mi fece alcun male, appena un pizzicotto (quel tipo di vaccino, d'altronde, ha un liquido assolutamente indolore) e mi liberai subito dal patema.
      Dopo di che, provai una sadica e non preventivata soddisfazione: vedere Cristina disperarsi nell'affrontare il supplizio, mentre io bello rilassato già sospiravo di sollievo.
      Da quel giorno non ho più fatto i capricci per gli aghi e le siringhe, pur continuando ad avere una fifa boia. Ma l'orgoglio di non farmi vedere vigliacco e piagnone ebbe la meglio sulla paura per le punture.

      Del resto, stavo imparando a distinguere i vari tipi di iniezioni e, genericamente, di punture in indolori e in dolorose.
      Fra le punture buone c'erano i vaccini e i prelievi di sangue, e smisi di  averne paura.
      Fra quelle cattive, quelle cioè che facevano un male pazzesco, c'erano le iniezioni di penicillina.
      Con queste ultime ebbi parecchi contatti. Non solo mi venivano fatte per curarmi le tonsilliti ma anche mi venivano propinate a scopo "preventivo". E' che, a sei anni d'età, accampando l'assurda scusa di un rischio nell'anestesia dovuto alla mia spasticità (panzana vera e propria, visto che in quegli anni andavo a farmi togliere i dentini da latte in narcosi con etere e non ci fu mai alcuna complicazione), non vollero operarmi di tonsillectomia e così il pediatra, basandosi sulle conoscenze scientifiche dell'epoca, mi prescrisse una profilassi di regolari iniezioni di penicillina ad ampio spettro, dapprima una ogni quindici giorni, poi una al mese (quando i valori del Titolo ASLO tornarono nella norma) e infine una ogni tre mesi: l'ultima che feci, ormai tredicenne, fu nel luglio del 1973. Oggi un medico che prescrivesse antibiotici come profilassi verrebbe radiato dall'albo professionale ma allora si credeva che potessero essere efficaci. Ma ovviamente non lo erano, tant'è vero che, fino alla fine delle Elementari, le tonsilliti continuarono a perseguitarmi, con ulteriori e più numerose iniezioni.

      Già, perché quando il pediatra veniva chiamato e mi trovava febbricitante e con la gola arrossata, il minimo che prescriveva erano due punture al giorno per tre giorni, poi ripassava a visitarmi e, se ero migliorato, mi attendevano altri tre-quattro giorni di una iniezione al dì.
      Nel caso del giorno in cui il mio sederino doveva suo malgrado concedere il bis, gli orari della bucherellatura erano collocati alla mattina dopo colazione e alla sera dopo cena.
      La mattina, grazie all'essere io ancora mezzo addormentato, la tensione per l'imminente tortura era quasi nulla: giusto appena il tempo di svegliarmi, ingurgitare il tè con due biscotti e mi ritrovavo col culetto per aria e la signora Mignacco o la signora Buzzetti in camera mia con la siringa in mano.
      Tiravo un sospiro di sollievo: era andata anche questa! Poi, fino a pranzo, filava tutto liscio e senza ansia. Dopo pranzo, invece, iniziava ad assalirmi l'apprensione per l'iniezione serale, paura che cresceva man mano che passavano le ore e toccava il suo fatale approdo quando il suono del campanello di casa annunciava l'arrivo della "signora che sapeva fare le punture".
       Secondo giornaliero sospiro di sollievo e poi, una volta guardata un po' di tv, a nanna tranquillo e beato. Stranamente, le iniezioni non popolarono mai i sogni delle mie notti da malatino.

      I periodi delle tonsilliti avevano almeno un vantaggio per ciò che concerneva la pratica bucherellatoria: ero a letto in camera mia e quindi non assistevo alla preparazione della siringa.
      Cosa che invece avveniva per le iniezioni della "profilassi" anti-tonsilliti.
      Di solito, mia madre sceglieva il sabato pomeriggio come giorno dell''esecuzione. "Così, - diceva a parenti e conoscenti, - la domenica non va a scuola e ha il tempo di riprendersi."
      Luogo dell'esecuzione era il tinello, con l'annesso cucinino per far bollire l'ago e la siringa, perché all'epoca non erano ancora in commercio le siringhe monouso sterilizzate.
      E così, una volta entrata la "signora che sapeva fare le punture", iniziava il sadico rituale.
      L'aguzzina prendeva la scatoletta metallica che conteneva ago, siringa e stantuffo, ne sollevava la barra che la chiudeva e la girava all'infuori affinché essa fungesse da manico, andava nel cucinino, vi versava dell'acqua corrente quasi fino all'orlo e la metteva a bollire.
      Quando l'acqua bolliva, spegneva il gas e portava nel tinello la scatola, depositandola su un asciugamano su cui mia madre aveva già depositato l'alcool, il cotone, la fiala dell'acqua distillata e la botticina della polvere dell'antibiotico nonché il seghetto per spezzare la fiala.
      Dopo di che, la "signora che sapeva fare le punture" lasciava passare un paio di minuti (per lasciare raffreddare un po' l'acqua che sommergeva l'ago e la siringa) e poi passava alla fase 2 della preparazione.
      Immergeva i polpastrelli nell'acqua per prendere siringa e stantuffo. A volte succedeva che l'acqua fosse ancora troppo calda e lei ritraesse di scatto le dita scottate. Mai abbastanza per impedirle per quel giorno di farmi l'iniezione.
      Con fare calmo e sicuro, la signora punturiera infilava lo stantuffo nella siringa e lo faceva andare su e giù due o tre volte per verificarne il funzionamento. Poi infilava l'ago sopra la siringa, uno di quegli aghi spessi che nulla avrebbero avuto a che fare con quelli sottili e indolori delle odierne siringhe monouso.
      Completato l'assemblaggio dell'arma impropria, passava ad immettervi il farmaco. Questa operazione constava di cinque passi:
         1) con un seghetto penetrava orizzontalmente fino a metà della fialetta dell'acqua distillata, che poi spezzava con una secca pressione delle dita; non sempre ci riusciva al primo tentativo;
         2) introduceva l'ago nella fiala spezzata e ne aspirava in contenuto nella siringa;
         3) infilava l'ago nel cappuccio di gomma nella boccettina contenente la polvere dell'antibiotico e vi iniettava l'acqua distillata;
         4) scuoteva la boccettina con la stessa controllata energia con cui un barman agita lo shaker contenente un cocktail da preparare; a questo punto mia madre mi diceva di tirarmi giù i pantaloni, sdraiarmi a pancia in giù sul sofà, scoprire il culetto ed espormi alla condizione di bersaglio umano;
         5) la "signora sapeva fare le punture", verificato che la polvere dell'antibiotico si fosse sciolta e perfettamente amalgamata con l'acqua distillata, aspirava il tutto nella siringa, la picchiettava con un'unghia per controllare che dentro non ci fossero bolle d'aria, spingeva leggermente lo stantuffo per far uscire un po' di farmaco dall'ago e poi, al termine di tutte queste azioni che ci si impiega più tempo a descrivere che a fare, era pronta a colpirmi con millimetrica precisione.
      Dopo di che, si avvicinava al sofà, si chinava su di me e dopo avermi strofinato un po' con un batuffolo di cotone imbevuto d'alcool la chiappa designata, pic!, mi faceva l'iniezione.
      Una volta finita la tortura, riprendeva in mano il cotone e mi massaggiava un po' la parte anatomica sì crudelmente ferita. Operazione di sollievo che, dopo alcuni secondi, veniva continuata da mia madre, che si faceva allo scopo consegnare il batuffolo imbevuto d'alcool.
      E, anche se dopo la famosa antitetanica non strillavo più e non opponevo più resistenza (mia madre, comunque, a letto malato o sul sofà in buona salute che fossi, durante le iniezioni per prudenza continuava a chinarsi su di me per placcarmi le spalle), dopo la paura delle ore precedenti e il male che il liquido dell'iniezione mi aveva procurato, dovevo pure, per educazione, dire grazie alla sadica "signora che sapeva fare le punture"!

      La quale divenne per me fonte di terrificanti ossessioni. Nei due giorni precedenti ogni iniezione "programmata" fantasticavo su tutte le possibili malattie o incidenti che potesse avere per essere impossibilitata a punturarmi. A mio onore va riconosciuto che non giunsi mai ad augurarle di morire.
      Naturalmente le provvidenziali influente e gli altrettanto provvidenziali incidenti stradali non si verificavano mai. Solo una volta ... ero ormai rassegnato all'iniezione, suonò il campanello di casa e la signora Mignacco, con le dita fasciate ci disse che aveva un problema dermatologico e non poteva farmi la puntura. Quando lasciò il nostro appartamento, mi prese un'esultanza paragonabile a quella di don Rodrigo quando seppe che Renzo era ricercato come sedizioso e a quella che prende il tipo che si mette a fare bidibodibù nella pubblicità della Ondaflex.
      Per fortuna, l'augurare malattie e infortuni vari non solo porta ai risultati sperati ma, come si suol dire, allunga la vita. Come egregiamente dimostra la signora Mignacco, che nel momento in qui scrivo questo post ha raggiunto la veneranda età di 96 anni.
       Comunque, tale era la mia paura della "signora che sapeva fare le punture" che, quando veniva inaspettatamente a farci visita (il che accadeva spesso, visto che eravamo in ottimi rapporti con lei e in quegli anni tra vicini di casa ci si frequentava molto di più che non oggi), mi veniva il terrore che fosse venuta a farmi un'iniezione di cui i miei genitori non mi avevano informato e, se ero passato inosservato, correvo a nascondermi in tutti meandri possibili e immaginabili del nostro piccolo appartamento.
      Una volta avevo trovato una via di fuga verso il bagno, mi ci chiusi dentro e là rimasi per più di due ore: la durata della visita della signora Mignacco.

      Con la signora Buzzetti le cose andarono un po' meglio. Ero un po' più grandicello, sui dieci anni d'età, e dominavo meglio la paura delle punture.
      Inoltre, era più decisa nell'infilare l'ago nel sederino, forse perché aveva imparato in famiglia l'arte delle iniezioni dal padre, che era stato un illustre medico, e dai fratelli, entrambi medici. Fatto sta che, invece di infilare l'ago con delicatezza, usava la siringa come una freccetta da lanciare con forza contro il bersaglio rotondo e spesso un colpo secco fa meno male di una puntura meno veloce.

      Cosa succede quando si ha bisogno di farsi fare un'iniezione in vacanza e non si può ricorrere alla "signora che sa fare le punture" o a un'infermiera professionale? Si cerca un sostituto, naturalmente.
     A Villa Minozzo, nel Reggiano, a farmi l'iniezione mensile di antibiotico era la zia Tilde.
      Di tutte le zie, paterne e materne, era la più simpatica, energica ma anche ironica, sempre con la battuta pronta.
      E, fra tutte le "signore che sapevano fare le punture", era quella che le faceva meglio, addirittura meglio, come il mio sederino sperimentò anni dopo, di tante infermiere di professione. Sapeva unire, ed era qualità rara, decisione e delicatezza nell'iniettare i farmaci.
      Fatto sta che, simpatia unita al fatto che la zia Tilde non mi faceva male (a parte il bruciore del liquido, ovviamente non imputabile a lei), vissi le mie iniezioni "vacanziere" con molta minore apprensione di quelle "ordinarie".

      Le quali ultime, anzi, per meglio dire, l'attesa delle quali ultime mi provocavano spesso un effetto che, negli anni della mia infanzia, era tutt'altro che negativo.
      Alle Elementari soffrivo di perenne stitichezza, causata congiuntamente dallo stress di vivere in un ambiente pessimo com'era la scuola che allora frequentavo e dal pessimo livello della mensa scolastica.
      Or bene, la paura fa 90 e, nel caso della paura delle iniezioni, fa anche cagarella. E così i giorni in cui attendevo le punture erano quelli in cui andavo di corpo con grande facilità, anzi, con perfino eccessiva facilità.
      Come si suol dire, non tutto il male viene per nuocere.
      Ciò dimostra inoltre che alcuni detti popolari sono tutt'altro che privi di fondamento scientifico. Se per la paura non solo si compiono atti vili ma si viene colpiti da diarrea, ecco spiegata l'espressione: "Cagarsi addosso".

      Fine agosto 1973. Era trascorso appena un mese da quello che poi si sarebbe rivelato l'ultimo "richiamo" della profilassi con antibiotici.
      Quei giorni segnarono una positiva evoluzione nel mio rapporto con le iniezioni, nel senso che l'esperienza che vissi mi fecero passare definitivamente la paura delle punture.
      Al ritorno dalle vacanze estive venni colpito da un virus influenzale. Ne parlarono anche i telegiornali: non del fatto che me ne fossi ammalato io, naturalmente, ma perché era quanto meno insolito che un'epidemia di influenza scoppiasse d'estate.
      Da circa un anno ero passato dal pediatra, dottor Piccato, al medico di famiglia, dottor Leonardis.
      Quella fu la prima volta che venne a visitarmi a casa. Diagnosticò un influenza e mi prescrisse l'Amplital, un antibiotico da prendere per bocca.
      Constatai con piacere la novità: niente più iniezioni!
      Ma come mai il pediatra mi aveva prescritto per anni le punture quando erano a disposizione dei farmaci da somministrare per via orale?! E' proprio vero che al sadismo umano non c'è limite.
      La mia soddisfazione ebbe però breve durata. Nel senso che non riuscivo a trattenere nello stomaco il medicinale: mia madre scioglieva il granulato nell'acqua, me lo dava da bere e dopo pochi minuti lo rimettevo.
      Provò anche a farmi mangiare un boccone di pane o un biscotto per rendere tollerabile l'antibiotico ma il risultato non cambiava e finiva tutto con una bella (???) vomitata.
      Il giorno dopo, poiché la febbre non diminuiva e l'antibiotico non riuscivo a reggerlo, venne di nuovo chiamato il medico e il dott. Leonardis disse: "Va be', gli avevo prescritto l'Amplital per via orale per evitargli il fastidio delle iniezioni ma, visto che non lo tollera, glielo prescrivo in fiale da iniettare".
      Probabilmente fu a causa del periodo estivo che cambiai "signora che sapeva fare le punture", essendo sia la signora Mignacco che la signora Buzzetti fuori città. Anzi, feci un avanzamento, visto che stavvolta a farmi le iniezioni fu un'infermiera professionale, la signorina ("tota", in piemontese) Rita Sobrà, che abitava anch'ella nel condominio insieme alla sorella Bianca, al cognato, l'indimenticabile signor Ettore Gennaro, e al nipote Pierluigi, che di lì a qualche mese si sarebbe laureato in Medicina a pieni voti.
      La "tota" Ritìn lavorava come infermiera all'Ospedale "San Luigi Gonzaga" di Orbassano. Per qualche anno sarebbe toccato a lei bucherellarmi il sederino all'occorrenza, sebbene non avrei avuto bisogno tante volte di farmi fare delle iniezioni.
     La svolta nel mio rapporto con le punture non avvenne tanto perché la signorina Sobrà le faceva meglio delle precedenti "signore che sapevano fare le punture": naturalmente le faceva bene, anche se non come la zia Tilde, ma né la signora Mignacco né la signora Buzzetti le facevano male. E nemmeno avvenne, la svolta, perché le fiale di Amplital contenevano un liquido meno doloroso dei precedenti antibiotici.
      No. La svolta avvenne perché il pomeriggio giorno dopo l'inizio delle iniezioni stetti talmente male (penso che mi venne una specie di colica ma facevo anche fatica a respirare)  che implorai i miei genitori di andare a chiamare Ritìn per farmi una puntura in più rispetto alla sola iniezione mattutina prescrittami dal dottor Leonardis. E, per chiedere che mi facessero una puntura in più, dovevo stare davvero male!
      I miei accondiscesero ai miei desideri, la signorina Sobrà accondiscese alla richiesta dei miei genitori e mi fece la seconda iniezione. Mio padre andò poi dal medico di famiglia e il dottor Leonardis cazziò tutti quanti, dicendo che non avrebbero dovuto farmi fare la seconda iniezione, del tutto inutile, e che avrebbero dovuto aspettare che il farmaco facesse il suo effetto assecondando il decorso naturale della malattia.
      Mi ripresi completamente dopo qualche giorno ma compresi finalmente che le iniezioni servono per far stare bene le persone. E, quando capisci che una metodica terapeutica è utile, lo stesso minimo dolore che essa può comportare diventa sopportabilissimo.
      Tant'è vero che durante quella fatidica iniezione "non autorizzata" non sentii alcun male.

      Fin qui ho disquisito del tipo di iniezioni di cui avevo paura, quella intramuscolare nel sedere.
      Quanto alla puntura in vena, quella dei prelievi di sangue per intenderci, non ne ebbi quasi mai paura.
      Il primo prelievo che feci fu a sei anni d'età. Incrociai un bambino che stava uscendo dalla "sala salassi" e nel vederlo sudato e paonazzo mi venne paura. Mi sedetti, stesi il braccio e il medico (mi pare di ricordare che all'epoca i prelievi di sangue venivano effettuati solo dai medici) mi mise il laccio emostatico. Quando sentii l'ago pungermi, iniziai a frignare; mia madre iniziò a consolarmi dicendomi: "Coraggio, a pranzo ti faccio una bella bistecca, così rimpiazzi il sangue che il dottore ti prende"; e il medico (all'epoca mi pare di ricordare che i prelievi li facessero solo i medici) confermò: "Sì, una volta a casa mangerai una bella bistecca); così smisi di piagnucolare, anche perché non provai alcun dolore. Per quelli successivi, non provai più né paura né stress.
      Poi, da adulto, sperimentai anche le iniezioni nel braccio, quelle dei vaccini antinfluenzali per intenderci, anch'esse del tutto indolori. Ma in ogni caso non avevo più alcun terrore delle punture.

giovedì 15 ottobre 2015

Un nuovo sogno

      Un paio di giorni fa riflettevo sul fatto che, da quando mia madre è morta, l'ho sognata poche volte. Forse perché ho elaborato a livello conscio tutte le cose da lei vissute o che io ho vissuto con lei e il mio inconscio non ha bisogno di mandarmi nella fase onirica del sogno molti input da elaborare. 
      Sarà un caso ma questa notte il sogno è venuto, come a confermare che c'è una continua interrelazione fra parte analitica della mente e inconscio: a volte è quest'ultimo a inviare sollecitazioni, altre volte è il conscio che stimola l'inconscio, il quale a sua volta si manifesta nei sogni.

      Stanotte dunque ho sognato la mia mamma, che non c'è più, e il mio papà, che per fortuna c'è ancora.
      Nel sogno mi trovavo in una delle circostanze che ho vissuto tante volte e che riguardano l'unica cosa che mi ha sempre profondamente diviso dai miei genitori: l'andare da qualche parte.
      Per me chiedermi di andare non solo in ferie ma anche a trovare qualcuno a dieci minuti d'automobile è come chiedermi di sedermi non dico su un cuscino di spine ma quantomeno su una panchina di pietra non ancora sgrezzata: mi suscita un istintivo moto di rifiuto.
      Io non mi muoverei mai di casa; e, anche quando esco per varie necessità, l'idea di superare un raggio di oltre trecento metri da casa mia mi dà fastidio.
      Forse a causa dell'imprinting ricevuto da bambino, quando i miei mi portavano quasi ogni settimana a trovare i nonni materni, che vivevano con alcuni miei zii e miei cugini quasi coetanei, in un ambiente nel quale, tanto per rimanere nel vago, non mi sono mai sentito né amato né considerato uno di casa.
      Da bambino, non avevo modo di oppormi quando i miei mi portavano da qualche parte e, sia pure a malincuore, ci andavo.
      Da ragazzo e da adulto, quando potevo li convincevo a lasciarmi a casa e ad andare solo loro due. Ma, ovviamente, a volte dovevo cedere alle loro insistenze a andare con loro.

      Nel sogno di stanotte i miei volevano che andassi con loro a cena a casa di qualcuno (nella fase R.E.M. questo qualcuno e la sua abitazione non si sono precisati). Ho cominciato a fare un po' di storie e poi, come già accaduto tante volte nella vita reale, ho detto loro:  "Non potete andare voi da soli?".
      Evidentemente di no, visto che un attimo dopo mi sono trovato seduto a tavola in una casa sconosciuta in presenza di persone sconosciute e senza volto. E lì mi sono rifiutato di mangiare, cedendo solo al momento in cui hanno portato a tavola delle torte.
      Mia grande e reale golosità a parte, il sogno ha rivelato un comportamento che ho sempre tenuto in queste circostanze da adulto. Andavo sì con i miei genitori ma dovunque mi trovassi facevo un muso lunghissimo e non parlavo quasi mai, facendo a tutti capire che mi trovavo lì malvolentieri.
      E' un lato brutto del mio carattere, lo so, ma lo ammetto senza alcuna remora: quando mi fanno fare qualcosa che non mi va, divento scontroso, musone, certe volte anche cafone.
      Mi sono sempre comportato così, sia in famiglia, sia sul lavoro, sia con gli amici. E mi comporterò sempre così.