Negli anni dei miei studi scolastici lo
spirito paralimpico non si era ancora diffuso in Italia. In quanto disabile, le
mie opportunità di fare in qualche modo sport sono state pochissime.
Di fatto, furono limitate agli anni delle
Elementari, da me frequentate in una scuola speciale, prima del mio inserimento
nelle scuole pubbliche a partire dalle Medie Inferiori. Ma anche allora fu una
pratica "spontanea", fra noi scolari, non certo organizzata e seguita
dalle istituzioni scolastiche.
Dopo, non feci praticamente più sport,
salvo qualche partitella di pallone all'oratorio in cui i miei compagni di
classe delle Medie Inferiori ogni tanto mi coinvolgevano e, qualche anno dopo,
qualche partita a bocce, l'unico sport che, per via dell'assenza del contato
fisico con gli avversari, la mia disabilità mi consentiva di giocare alla pari
con i normodotati.
Alla Casa del Sole, come noi chiamavamo
la scuola elementare ufficialmente intitolata "Padre Antonio
Gemelli", facevamo il tempo pieno: una vera rarità per la prima metà degli
anni '70.
Tre ore di lezione alla mattina,
dalle 9 alle 12, impartite da maestre e
maestri non particolarmente motivati e in qualche caso anche poco preparati
(con la sola, lodevole eccezione, del maestro Geremia Del Grosso, mio docente
in Quarta e parte della Quinta, che dovette abbandonare perché il suo non stare
zitto di fronte a quanto non funzionava dava fastidio parecchio "nei
piani"), dalle 9 alle 12; pranzo (con cibo di qualità scadente) dalle 12
alle 13; riposino dalle 13 alle 14; e, dalle 14 alle 16, teorica ripresa delle
lezioni, che in realtà non si svolgevano mai (salvo quelle
"aggiuntive" di Disegno) ed erano sostituite da svago sia per gli
scolari che per i maestri, nelle aule e nei corridoi durante la stagione
invernale o nei giorni di cattivo tempo, all'aria aperta in autunno e in
primavera su un prato inglese che si trovava davanti all'edificio scolastico.
Alle 16 ci facevano salire sugli scuolabus che ci avrebbero riportati a casa.
La nostra attività fisica alla Casa del
Sole era costituita dall'ora di ginnastica e dalle partitelle pomeridiane.
L'ora di ginnastica non era l'equivalente
dell'ora di Educazione Fisica delle scuole normali, sia perché era ginnastica
riabilitativa per i nostri tipi di problemi, sia perché non la facevamo tutti
insieme: a turno, ognuno di noi veniva "prelevato" dall'aula e
portato nella sala di ginnastica per fare gli esercizi prescrittigli; inutile
aggiungere che si perdeva l'ora di lezione che si svolgeva contemporaneamente.
Anche le fisioterapiste che ci seguivano
non erano particolarmente motivate: ci impartivano le dritte sugli esercizi da
fare ma raramente ci seguivano con attenzione e quasi mai ci correggevano se
facevamo dei movimenti sbagliati.
Le uniche due eccezioni furono
rappresentate da una terapista inglese, che rimase in quella scuola fino
all'anno scolastico in cui frequentai la Prima, e da una argentina.
Quest'ultima non solo ci seguiva in modo
solerte ma andava oltre gli esercizi prescritti dal manuale per farcene fare
anche altri, più mirati a stimolare una maggiore possibilità di vita
autosufficiente; ricordo ad esempio che a me, che nel mangiare sono stato
imboccato fino all'età di 13-14 anni (poi, un po' alla volta ho imparato a
cavarmela da solo), faceva mettere in mano un cucchiaio e con esso dovevo
provare a prendere dell'acqua da un bicchiere e portarmela alla bocca come se
mangiassi un piatto di minestra; allora non ci riuscii quasi mai ma l'input mi
era stato dato.
Un capolavoro professionale di quella
fisioterapista fu il riuscire a far camminare in modo autonomo un mio compagno
di classe, Edgardo. Ho ancora nella memoria visiva la gioia che brillava negli
occhi di Edgardo quando, nei corridoi della scuola, ci faceva vedere che si
muoveva con le sue gambe, senza più l'aiuto delle stampelle.
Superfluo aggiungere che quella signora
argentina “durò” poco alla Casa del Sole: entratavi quando io ero in Terza,
all’inizio della Quinta era già andata via. L’ambiente della scuola mal
sopportava di trattenere quella parte di personale che voleva veramente aiutare
gli alunni a diventare il più possibile autonomi nella loro vita futura.
Fisioterapista inglese, fisioterapista
argentina: già allora gli stranieri lavoravano di più e meglio di molti
cittadini italiani.
La cosa più assurda di tutte, riguardo
alla fisioterapia, era la gestione di un vogatore, che era stato fatto arrivare
alla Casa del Sole grazie a una donazione benefica e sistemato nella sala di
ginnastica.
Quel vogatore, almeno secondo logica,
avrebbe dovuto servire per far fare agli scolari degli esercizi fisici
riabilitativi; e invece no: a loro era addirittura severamente proibito usarlo.
Da chi veniva usato, allora, il vogatore? Dalle terapiste per tenersi in forma!
Io, comunque, presi ad utilizzarlo di
nascosto, come silenzioso atto di ribellione alla negazione dell’uso di
quell’attrezzo da ginnastica: entravo nella sala di ginnastica durante l’ora di
riposo che seguiva la pausa e si impegnavo in vigorose quanto disarticolate
vogate. Già allora ero fatto così: non riuscivo a vedere delle cose ingiuste
senza reagire in qualche modo.
In quegli anni lo spirito paralimpico non
esisteva. Noi disabili non sono non potevamo fare sport insieme agli altri ma
nemmeno fra noi si poteva praticarlo in modo organizzato.
L'unico sport che riuscivamo a praticare,
sia pure in modo spontaneo, era il calcio, erano le partitelle che facevamo
dalle 14 alle 16. Alle quali partecipavano anche i maestri della scuola.
Nelle belle giornate d’autunno e di
primavera, le partitelle si svolgevano nella metà del prato inglese che era
stata destinata allo scopo; se invece la pioggia o il freddo non lo
consentivano, ci cimentavamo nell’arte pedatoria nei corridoi della scuola, a
malapena tollerati dai maestri (che in quei casi non giocavano con noi) e dalle
badanti (allora si chiamavano assistenti e si occupavano delle esigenze non
scolastiche degli scolari).
Per la verità, quando si stava
all'aperto, il campo da gioco era a dir poco fantasioso: non solo entrambe le
porte erano delimitate da una parte da un albero e dall’altra da un tombino ma
non erano nemmeno allineate fra loro, per cui le azioni di gioco si svolgevano
obliquamente; non parliamo poi della loro lunghezza, mai misurata ma che con
tutta evidenza non era uguale. A volte, però, una delle due non veniva
utilizzata ed era sostituita dalle classiche due maglie arrotolate o due
cartelle che venivano poste in linea d’aria con l’altra porta.
A causa della mia disabilità, io
camminavo piuttosto male; quando poi si trattava di correre dietro ad un
pallone, riuscivo a malapena a tenermi in equilibrio. Tant’è che, commentando
il mio arrancare dietro agli altri alunni, molti dei quali erano stati colti da
spasticità solo negli arti superiori e dunque potevano correre come un
normodotato, maestri e badanti dicevano che era un miracolo se non cadessi ogni
minuto. Ma l’agonismo e la voglia di non arrendersi non mi facevano desistere
dal giocare a pallone.
Fatto sta che non potei raccogliere
grande gloria sul campo di gioco della Casa del Sole.
Di gol veramente belli in tutti quegli
anni ne feci soltanto uno. Fu quando mi trovai smarcato, ricevetti la palla e,
quando il portiere mi venne incontro, lo dribblai e calciai il pallone in mezzo
a due difensori che, chissà come mai, erano rimasti fermi appostati ciascuno in
prossimità di un “palo” della porta.
In quell'occasione il portiere era
Fulgenzo. Egli era, calcisticamente parlando, un “montato”, non solo perché era
tifoso del Milan (che in quegli anni stava sempre nelle posizioni alte della
classifica del campionato di Serie A e ai vertici delle competizioni
europee: si sa, le persone tifano spesso
e volentieri per le squadre vincenti ...) ma anche e soprattutto perché suo
padre in gioventù aveva giocato a calcio in Serie C in una società veneta.
Fulgenzio era un patito dei regolamenti
del calcio, che voleva venissero applicati scrupolosamente anche durante le
nostre partite. Una volta litigò accanitamente col maestro Del Grosso, perché
aveva fatto giocare agli scolari una partitella di venti minuti per tempo.
Dando letteralmente in escandescenze (probabilmente perché la sua squadra aveva
perso), Fulgenzio protestò affermando che le partite di calcio dovevano durare
45 minuti per tempo, cosa alquanto ardua da attuarsi per dei ragazzini, che per
giunta avevano, chi più chi meno, problemi di deambulazione; il maestro Del
Grosso gli rispose ironico: "Se tu giochi per 90 minuti, muori".
Fulgenzio bisticciò ripetutamente anche
con me, a proposito di Lino. Siccome quest’ultimo soffriva di cuore e si
stancava a stare in piedi, gli veniva sempre assegnato il ruolo del portiere:
si sedeva per terra in mezzo alla porta e, quando gli attaccanti avversari gli
arrivavano davanti, cercava di respingerne i tiri o buttandosi da una parte o
alzando il braccio non menomato dall’emiparesi spastica per intercettare le
palle alte. Di ciò approfittava cinicamente Fulgenzio, tirando a un’altezza
alla quale Lino non poteva arrivare. Invano cercai più volte di fargli capire
che quei gol andavano annullato perché Lino non poteva prendere il pallone;
Fulgenzio rispondeva sempre con veemenza che l’altezza regolamentare delle
porte era di due metri e venti, e che, se lui tirava più basso, il gol era valido.
Ma non era solo a difesa di Lino che
diventavo il bersaglio degli strali “regolamentari” di Fulgenzio. Alla Casa del
Sole si giocava, con suo sommo sdegno dell’aspirante campione veneto, senza
troppe regole e, poiché io non riuscivo a correre né bene né molto,
approfittando di questo modo di giocare alla buona, il più delle volte mi
piazzavo a due metri dal portiere cercando di raggiungere la palla e di
calciarla in rete quando capitava nei paraggi; ero, pur con tutte le immense
sproporzioni del caso, una specie di Pippo Inzaghi, con la differenza che
SuperPippo scattava sempre sul filo dell’offside
mentre io in fuorigioco stavo proprio quasi sempre. Il che faceva imbufalire
Fulgenzio, che quasi ogni pomeriggio mi sbraitava dietro: "Tu stai sempre
in fuorigioco! Tu stai sempre in fuorigioco!". La sua esasperazione giunse
al punto tale che una volta, mentre ci trovavamo entrambi nella zona di
centrocampo, mi rifilò da dietro, a freddo, un calcione alla caviglia (come
quello che Totti ha mollato a Balotelli nella finale di Coppa Italia svoltasi
il 5 maggio 2010). Passatogli il dolore, gli chiesi spiegazioni di quel
calcione improvviso e Fulgenzio mi rispose piccato: "Così impari a giocare
sempre in fuorigioco!". Roba non solo da cartellino rosso ma da dieci
giornate di squalifica.
A
parte quel bel gol che feci dopo aver dribblato il portiere, la mia “carriera”
calcistica non conobbe altri acuti. Pur giocando "alla pari", cioè
con bambini con difficoltà deambulatorie simili alle mie, Le reti che realizzavo
non superarono mai la decina ogni anno. E dire che a pallone giocavo
praticamente tutti i giorni e gli scolari calcisticamente più dotati di gol ne
facevano due o tre ogni pomeriggio! Lo ammetto: come calciatore ero decisamente
scarso.
Non mancarono da parte nemmeno i “lisci”
e i tiri sbagliati, ben più numerosi dei miei pochi gol.
In una occasione feci arrabbiare il
maestro Del Grosso per un suo tiro a colpo sicuro che inavvertitamente deviai
con la mano perché, come al solito, si trovava vicino al portiere. Il buon
maestro mi redarguì dicendomi: "Giocasti almeno nell’altra squadra, così
avremmo avuto il rigore!". Superfluo aggiungere che, anche quella volta,
nonostante l’azione fosse stata vanificata proprio da me con quel fallo di
mano, Fulgenzio si mise a protestare perché era sempre in fuorigioco.
Dei pochi gol che feci negli anni della
Casa del Sole, due furono comici, due veri e propri gollonzi. Il primo,
all’apparenza bello, fu una rete che realizzai “in spaccata” su un cross rasoterra;
peccato però che colpii la palla col piede non su mia iniziativa ma perché un
ragazzino mi aveva spinto alle spalle facendomi cadere con le gambe in avanti e
di conseguenza facendomi sbattere violentemente il fondoschiena per terra. Il
risultato fu che, anziché gioire per il gol, mi rialzai a fatica lamentandomi
per il dolore che stavo provando. E venni per giunta sbeffeggiato da Lino, che
commentò la realizzazione con un perfido: "Ma che brutta rete!".
Bella gratitudine verso di me, che cercavo sempre di fare annullare i gol che
Fulgenzio gli faceva tirando la palla ben oltre la portata delle sue braccia.
Il secondo gol comico che feci fu un
rigore, che però calciai con talmente tanta foga che dopo aver colpito il
pallone persi l’equilibrio e caddi sul prato, facendo ancora in tempo a vedere
bocconi la sfera superare la linea di rete.
Né raccolsi maggior gloria quando toccava
a me stare in porta: cosa che mi capitava spesso perché ero talmente scarso che
i miei compagni di squadra mi mandavano tra i pali perché là avrei fatto meno
danni. Si fa per dire.
Una volta presi un gol nel modo più
ridicolo possibile, cioè facendo di passare il pallone in mezzo alle gambe. E
dire che non era nemmeno un tiro particolarmente forte! Ma tant’è: mi coordinai
male e, quando non riuscii a prendere la palla con le mani, quest’ultima mi
passò proprio in mezzo alle gambe nel più umiliante dei tunnel e finì in gol.
Tutti i presenti si misero a ridere a crepapelle, compreso Roberto, il suo
migliore amico di allora. La presi male e lasciai il campo da gioco imbufalito,
urlando: "Offeso! Mi avete offeso!". Subito dopo, però, Roberto, che
in quegli anni si era abituato a calmarmi ogni volta che mi inalberavo per
qualche motivo, venne a consolarmi con una pacca sulle spalle e riuscì a far
sbollirmi la rabbia, cosicché tornai in porta.
In un’altra occasione incassai un gol in
maniera ancor più imbarazzante: mi scappava la pipì e lasciai la porta
sguarnita per andare a farla contro la parete interna del muro di recinzione
della scuola. Risultato: proprio allora qualcuno da metà campo calciò il
pallone, che andò a infilarsi nella porta da me lasciata vuota! Nemmeno il
Copparoni della partita di Coppa U.E.F.A. Tyrol-Torino del marzo 1988 (col suo
clamoroso liscio su calcio d’angolo di Hansi Mueller che tanto fece godere gli
juventini) avrebbe rimediato una simile figuraccia.
Legata alle partite del pomeriggio fu una
vendetta che consumai a freddo nei confronti di un bambino di una classe
diversa dalla mia che mi aveva picchiato.
Era stata un’aggressione del tutto
immotivata: non avevo mai fatto niente a quel bambino eppure, un pomeriggio me
l'ero visto davanti e me le ero prese di santa ragione, come se il mio
picchiatore fosse stato preda di un raptus improvviso.
Apro e chiudo subito una piccola
parentesi: la Casa del Sole era ufficialmente una scuola speciale per bambini
spastici ma veniva anche utilizzata come luogo di parcheggio di bambini con
altre problematiche, come deficit intellettivi o aggressività nelle relazioni
interpersonali. Di fatto, quando non si sapeva dove "piazzare" un
bambino "difficile", lo si mandava alla Casa del Sole. Con grave
danno di istruzione e di riabilitazione per tutti gli scolari, perché metodi
didattici e riabilitativi dovevano essere tarati su un minimo comun
denominatore che inevitabilmente comportava vistose lacune nell'offerta
scolastica sia per i bambini spastici che per quelli con altre problematiche.
Tornando a quell'episodio, in precedenza
avevo sempre preso le botte limitandomi a difendermi o a restituirle al momento
della lite o dell’aggressione e non mi era concesso vendette di sorta. Quella
volta, invece, forse perché le avevo prese senza alcuna ragione o forse perché
ciò rappresentava la goccia che faceva traboccare il vaso, decisi che il
manesco non l’avrebbe passata liscia.
Il giorno dopo, dunque, quando iniziò la
partitella pomeridiana, mi disinteressai completamente del gioco: il mio
obiettivo era raggiungere quel bambino e suonargliele. Chi dall’alto di una
tribuna avesse potuto assistere alla scena e fosse stato a conoscenza delle mie
intenzioni avrebbe notato una doppia gara in quel teatro di gioco: gli altri
bambini correvano dietro al pallone e io inseguivo l’oggetto della mia vendetta.
Con senno del poi e in particolare di
quello che avvenne in una partita di Serie A Milan-Juventus del campionato
1978-79, sembravo il Tardelli di quel match, quando, al fischio d’inizio, senza
guardare dove andava la palla il centrocampista bianconero piombò subito su
Rivera e fece un fallaccio che gli costò l’espulsione.
Io, naturalmente, impiegai ben più dei
trenta secondi che furono sufficienti al grande centrocampista bianconero per
stendere l’Abatino. Ma dopo alcuni minuti riuscii finalmente a raggiungere il
mio bersaglio ed a rifilargli un violento pugno in faccia; e con piena
soddisfazione.
Alle badanti e ai maestri, accorsi dopo
aver assistito al gancio destro, spiegai che il mio atto era dovuto al fatto
che quel bambino mi aveva picchiato il giorno prima. Probabilmente erano a
conoscenza del carattere problematico di quel bambino e compresero la mia pur
premeditata reazione, cosicché non venni né sgridato né punito.
Subito dopo, però, provai un po’ di rimorso, perché il
bambino in questione portava un apparecchio acustico a un orecchio r il mio
pugno vendicatore glielo aveva fatto saltare via e cadere per terra: rimorso
non per l’apparecchio, del quale non ebbi modo di appurare se si ruppe oppure
no, ma per avere fatto del male a quel bambino col mio cazzottone.
La vendetta, si sa, è un piatto amaro e
spesso, dopo averla compiuta, uno se ne pente, perché il male arrecato non solo
non pone rimedio a quello subito in precedenza ma fa sorgere dei sensi di
colpa.
Postilla. Per rispetto delle
persone e della loro privacy, ho indicato alcune di esse con nomi fittizi.