martedì 12 dicembre 2017

Prima delle paralimpiadi: le mie attività sportive

      Negli anni dei miei studi scolastici lo spirito paralimpico non si era ancora diffuso in Italia. In quanto disabile, le mie opportunità di fare in qualche modo sport sono state pochissime.
      Di fatto, furono limitate agli anni delle Elementari, da me frequentate in una scuola speciale, prima del mio inserimento nelle scuole pubbliche a partire dalle Medie Inferiori. Ma anche allora fu una pratica "spontanea", fra noi scolari, non certo organizzata e seguita dalle istituzioni scolastiche.
      Dopo, non feci praticamente più sport, salvo qualche partitella di pallone all'oratorio in cui i miei compagni di classe delle Medie Inferiori ogni tanto mi coinvolgevano e, qualche anno dopo, qualche partita a bocce, l'unico sport che, per via dell'assenza del contato fisico con gli avversari, la mia disabilità mi consentiva di giocare alla pari con i normodotati.

      Alla Casa del Sole, come noi chiamavamo la scuola elementare ufficialmente intitolata "Padre Antonio Gemelli", facevamo il tempo pieno: una vera rarità per la prima metà degli anni '70.
      Tre ore di lezione alla mattina, dalle  9 alle 12, impartite da maestre e maestri non particolarmente motivati e in qualche caso anche poco preparati (con la sola, lodevole eccezione, del maestro Geremia Del Grosso, mio docente in Quarta e parte della Quinta, che dovette abbandonare perché il suo non stare zitto di fronte a quanto non funzionava dava fastidio parecchio "nei piani"), dalle 9 alle 12; pranzo (con cibo di qualità scadente) dalle 12 alle 13; riposino dalle 13 alle 14; e, dalle 14 alle 16, teorica ripresa delle lezioni, che in realtà non si svolgevano mai (salvo quelle "aggiuntive" di Disegno) ed erano sostituite da svago sia per gli scolari che per i maestri, nelle aule e nei corridoi durante la stagione invernale o nei giorni di cattivo tempo, all'aria aperta in autunno e in primavera su un prato inglese che si trovava davanti all'edificio scolastico. Alle 16 ci facevano salire sugli scuolabus che ci avrebbero riportati a casa.

      La nostra attività fisica alla Casa del Sole era costituita dall'ora di ginnastica e dalle partitelle pomeridiane.
      L'ora di ginnastica non era l'equivalente dell'ora di Educazione Fisica delle scuole normali, sia perché era ginnastica riabilitativa per i nostri tipi di problemi, sia perché non la facevamo tutti insieme: a turno, ognuno di noi veniva "prelevato" dall'aula e portato nella sala di ginnastica per fare gli esercizi prescrittigli; inutile aggiungere che si perdeva l'ora di lezione che si svolgeva contemporaneamente.
      Anche le fisioterapiste che ci seguivano non erano particolarmente motivate: ci impartivano le dritte sugli esercizi da fare ma raramente ci seguivano con attenzione e quasi mai ci correggevano se facevamo dei movimenti sbagliati.
      Le uniche due eccezioni furono rappresentate da una terapista inglese, che rimase in quella scuola fino all'anno scolastico in cui frequentai la Prima, e da una argentina.
      Quest'ultima non solo ci seguiva in modo solerte ma andava oltre gli esercizi prescritti dal manuale per farcene fare anche altri, più mirati a stimolare una maggiore possibilità di vita autosufficiente; ricordo ad esempio che a me, che nel mangiare sono stato imboccato fino all'età di 13-14 anni (poi, un po' alla volta ho imparato a cavarmela da solo), faceva mettere in mano un cucchiaio e con esso dovevo provare a prendere dell'acqua da un bicchiere e portarmela alla bocca come se mangiassi un piatto di minestra; allora non ci riuscii quasi mai ma l'input mi era stato dato.
      Un capolavoro professionale di quella fisioterapista fu il riuscire a far camminare in modo autonomo un mio compagno di classe, Edgardo. Ho ancora nella memoria visiva la gioia che brillava negli occhi di Edgardo quando, nei corridoi della scuola, ci faceva vedere che si muoveva con le sue gambe, senza più l'aiuto delle stampelle.
      Superfluo aggiungere che quella signora argentina “durò” poco alla Casa del Sole: entratavi quando io ero in Terza, all’inizio della Quinta era già andata via. L’ambiente della scuola mal sopportava di trattenere quella parte di personale che voleva veramente aiutare gli alunni a diventare il più possibile autonomi nella loro vita futura.
      Fisioterapista inglese, fisioterapista argentina: già allora gli stranieri lavoravano di più e meglio di molti cittadini italiani.
      La cosa più assurda di tutte, riguardo alla fisioterapia, era la gestione di un vogatore, che era stato fatto arrivare alla Casa del Sole grazie a una donazione benefica e sistemato nella sala di ginnastica.
      Quel vogatore, almeno secondo logica, avrebbe dovuto servire per far fare agli scolari degli esercizi fisici riabilitativi; e invece no: a loro era addirittura severamente proibito usarlo. Da chi veniva usato, allora, il vogatore? Dalle terapiste per tenersi in forma!
      Io, comunque, presi ad utilizzarlo di nascosto, come silenzioso atto di ribellione alla negazione dell’uso di quell’attrezzo da ginnastica: entravo nella sala di ginnastica durante l’ora di riposo che seguiva la pausa e si impegnavo in vigorose quanto disarticolate vogate. Già allora ero fatto così: non riuscivo a vedere delle cose ingiuste senza reagire in qualche modo.

      In quegli anni lo spirito paralimpico non esisteva. Noi disabili non sono non potevamo fare sport insieme agli altri ma nemmeno fra noi si poteva praticarlo in modo organizzato.
      L'unico sport che riuscivamo a praticare, sia pure in modo spontaneo, era il calcio, erano le partitelle che facevamo dalle 14 alle 16. Alle quali partecipavano anche i maestri della scuola.

      Nelle belle giornate d’autunno e di primavera, le partitelle si svolgevano nella metà del prato inglese che era stata destinata allo scopo; se invece la pioggia o il freddo non lo consentivano, ci cimentavamo nell’arte pedatoria nei corridoi della scuola, a malapena tollerati dai maestri (che in quei casi non giocavano con noi) e dalle badanti (allora si chiamavano assistenti e si occupavano delle esigenze non scolastiche degli scolari).
      Per la verità, quando si stava all'aperto, il campo da gioco era a dir poco fantasioso: non solo entrambe le porte erano delimitate da una parte da un albero e dall’altra da un tombino ma non erano nemmeno allineate fra loro, per cui le azioni di gioco si svolgevano obliquamente; non parliamo poi della loro lunghezza, mai misurata ma che con tutta evidenza non era uguale. A volte, però, una delle due non veniva utilizzata ed era sostituita dalle classiche due maglie arrotolate o due cartelle che venivano poste in linea d’aria con l’altra porta.

      A causa della mia disabilità, io camminavo piuttosto male; quando poi si trattava di correre dietro ad un pallone, riuscivo a malapena a tenermi in equilibrio. Tant’è che, commentando il mio arrancare dietro agli altri alunni, molti dei quali erano stati colti da spasticità solo negli arti superiori e dunque potevano correre come un normodotato, maestri e badanti dicevano che era un miracolo se non cadessi ogni minuto. Ma l’agonismo e la voglia di non arrendersi non mi facevano desistere dal giocare a pallone.
      Fatto sta che non potei raccogliere grande gloria sul campo di gioco della Casa del Sole.
      Di gol veramente belli in tutti quegli anni ne feci soltanto uno. Fu quando mi trovai smarcato, ricevetti la palla e, quando il portiere mi venne incontro, lo dribblai e calciai il pallone in mezzo a due difensori che, chissà come mai, erano rimasti fermi appostati ciascuno in prossimità di un “palo” della porta.
      In quell'occasione il portiere era Fulgenzo. Egli era, calcisticamente parlando, un “montato”, non solo perché era tifoso del Milan (che in quegli anni stava sempre nelle posizioni alte della classifica del campionato di Serie A e ai vertici delle competizioni europee:  si sa, le persone tifano spesso e volentieri per le squadre vincenti ...) ma anche e soprattutto perché suo padre in gioventù aveva giocato a calcio in Serie C in una società veneta.
      Fulgenzio era un patito dei regolamenti del calcio, che voleva venissero applicati scrupolosamente anche durante le nostre partite. Una volta litigò accanitamente col maestro Del Grosso, perché aveva fatto giocare agli scolari una partitella di venti minuti per tempo. Dando letteralmente in escandescenze (probabilmente perché la sua squadra aveva perso), Fulgenzio protestò affermando che le partite di calcio dovevano durare 45 minuti per tempo, cosa alquanto ardua da attuarsi per dei ragazzini, che per giunta avevano, chi più chi meno, problemi di deambulazione; il maestro Del Grosso gli rispose ironico: "Se tu giochi per 90 minuti, muori".
      Fulgenzio bisticciò ripetutamente anche con me, a proposito di Lino. Siccome quest’ultimo soffriva di cuore e si stancava a stare in piedi, gli veniva sempre assegnato il ruolo del portiere: si sedeva per terra in mezzo alla porta e, quando gli attaccanti avversari gli arrivavano davanti, cercava di respingerne i tiri o buttandosi da una parte o alzando il braccio non menomato dall’emiparesi spastica per intercettare le palle alte. Di ciò approfittava cinicamente Fulgenzio, tirando a un’altezza alla quale Lino non poteva arrivare. Invano cercai più volte di fargli capire che quei gol andavano annullato perché Lino non poteva prendere il pallone; Fulgenzio rispondeva sempre con veemenza che l’altezza regolamentare delle porte era di due metri e venti, e che, se lui tirava più basso, il gol era valido.
      Ma non era solo a difesa di Lino che diventavo il bersaglio degli strali “regolamentari” di Fulgenzio. Alla Casa del Sole si giocava, con suo sommo sdegno dell’aspirante campione veneto, senza troppe regole e, poiché io non riuscivo a correre né bene né molto, approfittando di questo modo di giocare alla buona, il più delle volte mi piazzavo a due metri dal portiere cercando di raggiungere la palla e di calciarla in rete quando capitava nei paraggi; ero, pur con tutte le immense sproporzioni del caso, una specie di Pippo Inzaghi, con la differenza che SuperPippo scattava sempre sul filo dell’offside mentre io in fuorigioco stavo proprio quasi sempre. Il che faceva imbufalire Fulgenzio, che quasi ogni pomeriggio mi sbraitava dietro: "Tu stai sempre in fuorigioco! Tu stai sempre in fuorigioco!". La sua esasperazione giunse al punto tale che una volta, mentre ci trovavamo entrambi nella zona di centrocampo, mi rifilò da dietro, a freddo, un calcione alla caviglia (come quello che Totti ha mollato a Balotelli nella finale di Coppa Italia svoltasi il 5 maggio 2010). Passatogli il dolore, gli chiesi spiegazioni di quel calcione improvviso e Fulgenzio mi rispose piccato: "Così impari a giocare sempre in fuorigioco!". Roba non solo da cartellino rosso ma da dieci giornate di squalifica.

A parte quel bel gol che feci dopo aver dribblato il portiere, la mia “carriera” calcistica non conobbe altri acuti. Pur giocando "alla pari", cioè con bambini con difficoltà deambulatorie simili alle mie, Le reti che realizzavo non superarono mai la decina ogni anno. E dire che a pallone giocavo praticamente tutti i giorni e gli scolari calcisticamente più dotati di gol ne facevano due o tre ogni pomeriggio! Lo ammetto: come calciatore ero decisamente scarso.
      Non mancarono da parte nemmeno i “lisci” e i tiri sbagliati, ben più numerosi dei miei pochi gol.
      In una occasione feci arrabbiare il maestro Del Grosso per un suo tiro a colpo sicuro che inavvertitamente deviai con la mano perché, come al solito, si trovava vicino al portiere. Il buon maestro mi redarguì dicendomi: "Giocasti almeno nell’altra squadra, così avremmo avuto il rigore!". Superfluo aggiungere che, anche quella volta, nonostante l’azione fosse stata vanificata proprio da me con quel fallo di mano, Fulgenzio si mise a protestare perché era sempre in fuorigioco.
      Dei pochi gol che feci negli anni della Casa del Sole, due furono comici, due veri e propri gollonzi. Il primo, all’apparenza bello, fu una rete che realizzai “in spaccata” su un cross rasoterra; peccato però che colpii la palla col piede non su mia iniziativa ma perché un ragazzino mi aveva spinto alle spalle facendomi cadere con le gambe in avanti e di conseguenza facendomi sbattere violentemente il fondoschiena per terra. Il risultato fu che, anziché gioire per il gol, mi rialzai a fatica lamentandomi per il dolore che stavo provando. E venni per giunta sbeffeggiato da Lino, che commentò la realizzazione con un perfido: "Ma che brutta rete!". Bella gratitudine verso di me, che cercavo sempre di fare annullare i gol che Fulgenzio gli faceva tirando la palla ben oltre la portata delle sue braccia.
      Il secondo gol comico che feci fu un rigore, che però calciai con talmente tanta foga che dopo aver colpito il pallone persi l’equilibrio e caddi sul prato, facendo ancora in tempo a vedere bocconi la sfera superare la linea di rete.
      Né raccolsi maggior gloria quando toccava a me stare in porta: cosa che mi capitava spesso perché ero talmente scarso che i miei compagni di squadra mi mandavano tra i pali perché là avrei fatto meno danni. Si fa per dire.
      Una volta presi un gol nel modo più ridicolo possibile, cioè facendo di passare il pallone in mezzo alle gambe. E dire che non era nemmeno un tiro particolarmente forte! Ma tant’è: mi coordinai male e, quando non riuscii a prendere la palla con le mani, quest’ultima mi passò proprio in mezzo alle gambe nel più umiliante dei tunnel e finì in gol. Tutti i presenti si misero a ridere a crepapelle, compreso Roberto, il suo migliore amico di allora. La presi male e lasciai il campo da gioco imbufalito, urlando: "Offeso! Mi avete offeso!". Subito dopo, però, Roberto, che in quegli anni si era abituato a calmarmi ogni volta che mi inalberavo per qualche motivo, venne a consolarmi con una pacca sulle spalle e riuscì a far sbollirmi la rabbia, cosicché tornai in porta.
       In un’altra occasione incassai un gol in maniera ancor più imbarazzante: mi scappava la pipì e lasciai la porta sguarnita per andare a farla contro la parete interna del muro di recinzione della scuola. Risultato: proprio allora qualcuno da metà campo calciò il pallone, che andò a infilarsi nella porta da me lasciata vuota! Nemmeno il Copparoni della partita di Coppa U.E.F.A. Tyrol-Torino del marzo 1988 (col suo clamoroso liscio su calcio d’angolo di Hansi Mueller che tanto fece godere gli juventini) avrebbe rimediato una simile figuraccia.

      Legata alle partite del pomeriggio fu una vendetta che consumai a freddo nei confronti di un bambino di una classe diversa dalla mia che mi aveva picchiato.
      Era stata un’aggressione del tutto immotivata: non avevo mai fatto niente a quel bambino eppure, un pomeriggio me l'ero visto davanti e me le ero prese di santa ragione, come se il mio picchiatore fosse stato preda di un raptus improvviso.
      Apro e chiudo subito una piccola parentesi: la Casa del Sole era ufficialmente una scuola speciale per bambini spastici ma veniva anche utilizzata come luogo di parcheggio di bambini con altre problematiche, come deficit intellettivi o aggressività nelle relazioni interpersonali. Di fatto, quando non si sapeva dove "piazzare" un bambino "difficile", lo si mandava alla Casa del Sole. Con grave danno di istruzione e di riabilitazione per tutti gli scolari, perché metodi didattici e riabilitativi dovevano essere tarati su un minimo comun denominatore che inevitabilmente comportava vistose lacune nell'offerta scolastica sia per i bambini spastici che per quelli con altre problematiche.
      Tornando a quell'episodio, in precedenza avevo sempre preso le botte limitandomi a difendermi o a restituirle al momento della lite o dell’aggressione e non mi era concesso vendette di sorta. Quella volta, invece, forse perché le avevo prese senza alcuna ragione o forse perché ciò rappresentava la goccia che faceva traboccare il vaso, decisi che il manesco non l’avrebbe passata liscia.
      Il giorno dopo, dunque, quando iniziò la partitella pomeridiana, mi disinteressai completamente del gioco: il mio obiettivo era raggiungere quel bambino e suonargliele. Chi dall’alto di una tribuna avesse potuto assistere alla scena e fosse stato a conoscenza delle mie intenzioni avrebbe notato una doppia gara in quel teatro di gioco: gli altri bambini correvano dietro al pallone e io inseguivo l’oggetto della mia vendetta.
      Con senno del poi e in particolare di quello che avvenne in una partita di Serie A Milan-Juventus del campionato 1978-79, sembravo il Tardelli di quel match, quando, al fischio d’inizio, senza guardare dove andava la palla il centrocampista bianconero piombò subito su Rivera e fece un fallaccio che gli costò l’espulsione.
      Io, naturalmente, impiegai ben più dei trenta secondi che furono sufficienti al grande centrocampista bianconero per stendere l’Abatino. Ma dopo alcuni minuti riuscii finalmente a raggiungere il mio bersaglio ed a rifilargli un violento pugno in faccia; e con piena soddisfazione.
      Alle badanti e ai maestri, accorsi dopo aver assistito al gancio destro, spiegai che il mio atto era dovuto al fatto che quel bambino mi aveva picchiato il giorno prima. Probabilmente erano a conoscenza del carattere problematico di quel bambino e compresero la mia pur premeditata reazione, cosicché non venni né sgridato né punito.
      Subito dopo,  però, provai un po’ di rimorso, perché il bambino in questione portava un apparecchio acustico a un orecchio r il mio pugno vendicatore glielo aveva fatto saltare via e cadere per terra: rimorso non per l’apparecchio, del quale non ebbi modo di appurare se si ruppe oppure no, ma per avere fatto del male a quel bambino col mio cazzottone.
      La vendetta, si sa, è un piatto amaro e spesso, dopo averla compiuta, uno se ne pente, perché il male arrecato non solo non pone rimedio a quello subito in precedenza ma fa sorgere dei sensi di colpa.

Postilla. Per rispetto delle persone e della loro privacy, ho indicato alcune di esse con nomi fittizi.