Ridarola è un termine che in dialetto
piemontese significa ridarella, quel riso incontrollabile che il più delle
volte prende le persone in luoghi e in momenti per cui l'ultima cosa da fare è
mettersi a ridere.
Anche a me è successo e posso
testimoniare che trattenere le risate quando a lasciarle andare si va incontro
a delle autentiche figure di merda, è impresa degna delle fatiche di Ercole.
La prima ridarola da cui venni colpito
risale agli anni delle Medie Inferiori.
In
Prima, la prof.ssa Zocco, di Matematica e di Scienze, per le lezioni di Scienze
ci aveva fatto portare a scuola dei vasetti di terra con delle piantine, che
vennero messi sopra l’armadio in dotazione alla nostra aula.
Alcune
settimane dopo, durante l’intervallo Giuseppe venne spinto da un altro nostro
compagno di classe contro l’armadio e, a causa della spinta, un vaso che era in
bilico sul bordo dell’armadio cadde sulla testa di quest’ultimo con una
precisione millimetrica; rimase il dubbio se il vaso fosse andato in frantumi
quando cadde sul pavimento oppure un attimo prima, quando cozzò sulla testa di
Giuseppe.
La cosa
sadica fu che, mentre il poveraccio si massaggiava la testa ripetendo ogni
tanto: "Ahia!", noi ridevamo a crepapelle. E io, francamente, faticai
non poco a smettere di ridere quando, a intervallo finito, entrò in classe la
professoressa che doveva tenere quell'ora di lezione.
Anche la mia seconda ridarola ebbe come
teatro cronologico gli anni in cui frequentavo le Medie Inferiori.
La prof.ssa Aggeri, di Italiano, Storia,
Geografia e Latino, all'inizio di ogni lezione farsi consegnare da tre o
quattro di noi i quaderni coi compiti che avremmo dovuto fare a casa, leggerli
ad alta voce e dare il voto.
Un giorno il compito di Antologia da
verificare era il passo de I promessi
sposi in cui si narra delle cause che spinsero il giovane Lodovico a farsi
frate prendendo il nome di Cristoforo.
La prof.ssa Aggeri ebbe l'infelice idea
di farsi consegnare il quaderno dei compiti anche da Giampiero. Infelice per
lui, naturalmente.
Giampiero era un ragazzo intelligente ma
aveva un difetto: non aveva voglia di studiare e non studiava. E quando uno non
studia e gli viene richiesto di dire o scrivere qualcosa, 99 volte su 100 dice
o scrive una cazzata.
Ecco come Giampiero aveva messo per
iscritto la rissa fra il nobile arrogante e il futuro fra' Cristoforo (risi
talmente tanto, e ancora oggi rido ripensandoci, che mi è rimasto in testa
parola per parola, fino a quando la professoressa non pose fine alla pietosa
lettura):
"Un giorno Lodovico incontrò per
strada un nobile milanese.
- Ciao, amico,- gli chiese, - come
va?
- Bene, e tu?
Dopo di che lo prese a braccetto e
andarono insieme a fare una passeggiata nel centro di Milano".
Dal che si evince che, leggendolo in modo
evidentemente distratto, di quell'episodio del capolavoro manzoniano, Giampiero
non aveva proprio capito un cazzo. Oppure che, non avendo voglia di leggerlo,
aveva ricostruito quell'episodio inventandoselo di sana pianta: con uguale
effetto di comicità involontaria.
Fatto sta che, mentre tutti noi studenti
ridevamo a crepapelle, la prof.ssa Aggeri (il cui sguardo inorridito credo non
dimenticherò mai) interruppe la lettura del "resoconto" di Giampiero,
proferì un "oooohhh!" con una nota di raucedine che indicava vero
sconcerto intellettuale e diede un bel 4 a Giampiero.
Il quale non la prese per niente bene,
anzi, si incazzò come una bestia, rispose male alla prof.ssa Aggeri, che gli
mise una nota sul registro. Forse perché irritato dal fatto che continuavamo a
sganasciarci dalle risate per le cagate che aveva scritto, Gampiero non si
calmò nemmeno dopo la nota sul registro e continuò a battibeccare inviperito
con la docente, la quale lo cacciò fuori dalla classe e dalla scuola,
dicendogli di tornare accompagnato dai suoi genitori.
Tornò un'ora dopo col padre, il quale,
più che prendersela col figliolo, si lamentò con la prof.ssa Aggeri perché noi
avevamo riso di lui.
Ma cos'altro potevamo fare se non ridere
di gusto per una colossale cazzata come quella di Lodovico e del nobile che a
braccetto vanno a fare una passeggiata nel centro di Milano? Povero Manzoni! Se
avesse potuto sentire questa versione, si sarebbe rivoltato nella tomba.
Va be' che Umberto Eco ha elaborato il
concetto di opera aperta, cioè del testo scritto aperto alle più diverse
interpretazioni e modifiche da parte dei lettori, ma quella volta Giampiero
aveva veramente esagerato.
Qualche anno dopo, esattamente nel 1976,
una sera a casa sentimmo un rumore a cui seguì la voce del nostro vicino di
casa, il signor Buzzetti, che chiamava la moglie: "Giuse! Giuse!".
Non vi furono però ulteriori segnali di trambusto.
Il giorno dopo, dopo cena, la signora
Buzzetti ci venne a trovare per fare quattro chiacchiere e ci spiegò cos'era
successo.
Il signor Costantino (all'anagrafe era
stato registrato come Isidoro ma sia in famiglia che i conoscenti lo chiamavano
tutti Costantino) si era recato in bagno e qualche secondo dopo dal soffitto si
era staccato il lampadario e gli era caduto sulla testa.
Per fortuna non si era fatto nulla di
male, solo un piccolo taglio sul cuoio capelluto.
Io gli volevo molto bene, tant'è che da
bambino lui e la moglie li chiamavo "zio" e "zia", e di
sicuro non mi faceva alcun piacere sapere che gli era capitato quell'incidente
domestico. Ma la dinamica dell'accaduto era talmente comica che mi prese una
ridarola ma una ridarola di quelle che non riuscii proprio né a mascherare
davanti alla signora Buzzetti né a far terminare se non dopo parecchi minuti.
Durante il settennato presidenziale di
Sandro Pertini, una notizia mi provocò una ridarola niente male.
Pertini era solito passare la fine
dell'anno a Nizza. La radio riferì che nella notte del 31 dicembre, un ladro
ubriaco si era rivolto a due persone in strada chiedendo loro di aiutarlo a
svaligiare una gioielleria; peccato solo che le due persone fossero due agenti
della Gendarmeria in borghese, incaricati di sorvegliare l'edificio dove era
ospitato il Presidente della Repubblica Italiana, agenti i quali avevano
immediatamente arrestato l'incauto e sfigato scassinatore.
La
notizia, ascoltata in camera mia, mi causò una ridarola tale che, quando corsi
nel tinello per raccontare l'accaduto ai miei genitori e agli zii Carla e
Leandro (che ci erano venuti a trovare), ero talmente preso dalle risate che mi
sedetti in un posto dove avevo dato per scontato che c'era una sedia che invece
non c'era.
Il risultato fu una plateale seduta per
terra, con conseguente culata.
Facciamo ora un altro salto in avanti nel
tempo e andiamo agli anni in cui lavoravo già. Un pomeriggio dovevo andare col
mio collega Tatino a una riunione. Prendemmo l’ascensore per recarci al quarto
piano della sede del Cliente della nostra azienda, dove ci aspettavano. A
questo punto Tatino si accorse di avere la camicia fuori posto e si sbottonò i
pantaloni per rimetterla in ordine, evidentemente ritenendo di avere tutto il
tempo di sistemarsi durante la salita dal primo al quarto piano. Dimenticandosi
però che l’ascensore, se nel frattempo qualcuno l’avesse chiamato, si sarebbe
fermato a un piano intermedio rispetto a quello di destinazione.
Come accade spesso quando si tratta di
far nascere involontarie situazioni comiche, l’ascensore si spalancò al secondo
piano e i nuovi passeggeri, due impiegati bancari, ebbero la sconvolgente
visione di Tatino che si stava tirando su i pantaloni dopo aver messo a posto
la camicia. Ironia aggiuntiva della sorte: un paio d’ora dopo, mi accorsi di
essermi recato a quella riunione con la bottega dei pantaloni aperta. Se i due
signori che erano entrati nell’ascensore notarono tutti questi particolari,
dovettero sicuramente aver pensato male.
Ad ogni modo, io e Tatino cogliemmo
subito il lato imbarazzante, anzi, sommamente imbarazzante della situazione.
Cosicché, dopo che i due passeggeri uscirono dall’ascensore al terzo piano
(già: per andare solo dal secondo al terzo piano non potevano fare le scale, i
bastardi?), scoppiammo a ridere. E da quel momento non ci fu freno che tenesse.
Imboccammo il corridoio ridendo a
crepapelle, con tutti gli impiegati e i consulenti del Cliente della nostra
azienda che incontravamo a guardarci sbigottiti, in quel tempio della serietà e
della professionalità.
Poi, rendendosi conto di non potersi
trattenere, Tatino si rifugiò nell’ufficio dove da mesi era distaccato il
nostro collega Walter detto Gico, mentre io corsi nel bagno più vicino. Passai
un quarto d’ora a ridere, temendo che il cuore mi scoppiasse da un momento
all’altro per lo sforzo involontario; poi, riacquistato un minimo di
autocontrollo (ma proprio un minimo!) tornai sui suoi passi ed entrai
nell’ufficio dove si era rifugiato Tatino.
A distanza di oltre vent’anni ho ancora
davanti a me nitidissima l’immagine di Tatino come lo trovai: seduto e
appoggiato con le braccia su una scrivania, stava ancora ridendo ed aveva
letteralmente le lacrime agli occhi.
Poiché la ridarola è per definizione
contagiosa, anche Gico stava ridendo di gusto. E con tutta probabilità senza
nemmeno sapere il motivo! Visto che è difficile che Tatino, preso com’era dai
singulti del riso, fosse riuscito a spiegargli il motivo di tanta incontenibile
allegria.
E anche lì i dipendenti e i consulenti
del Cliente della nostra azienda ci guardavano sbigottiti, mentre ormai in tre
stavamo ridendo come matti in quel tempio della serietà e della
professionalità.
Passarono ancora dieci minuti, nei quali
cercammo di ricomporci il più decentemente possibile, poi io e Tatino ci
recammo, già in ritardo, alla riunione. Nel corridoio scoppiammo ancora a
ridere un paio di volte ma per fortuna, una volta entrati nella sala riunioni,
riuscimmo a mantenerci tutto sommato seri, nonostante io rimasi vittima di
qualche violento attacco di ridarola, subito nascosto voltandomi da un'altra
parte o mettendomi a tossire.
Beninteso, di quello che si discusse non
riuscii a percepire un'emerita cippa, concentrato com’ero a trattenermi dal
ridere.
All’uscita dalla riunione, quando fummo
di nuovo soli nel corridoio, io e Tatino riscoppiammo a ridere; sempre ridendo,
ritornammo nei locali della nostra azienda e continuammo a sbellicarci dalle
risate per un bel po’.
Quella sera, a casa, quando spensi la
luce, venni colto da un nuovo attacco di ridarola e passò almeno un’ora prima
che si placasse, consentendomi di addormentarmi.
La mattina dopo, al ritorno in ufficio,
appena io e Tatino ci guardammo negli occhi, scoppiammo di nuovo a ridere. Per
fortuna, dopo un paio d’ore la ridarola ci abbandonò.
In altre circostanze, ebbi la fortuna di
avere delle vie di fuga per poter sfogare la ridarola.
Un pomeriggio, appena dopo la fine della
pausa pranzo, Ricky tornò nel nostro ufficio. Avendo la scrivania collocata
oltre quella di Michela, per andarsi a sedere doveva passare da lì,
naturalmente dalla parte delle sedie. Caso volle che in quel momento Michela
fosse accostata in piedi alla sua scrivania, intenta a leggere un tabulato
aperto su di essa.
La postura di Michela era ritta, non
chinata in avanti e dunque nemmeno provocante. Intendiamoci: anche se lo fosse
stata, non sarebbe stata di giustificazione di ciò che stava per succedere.
Fatto sta che, passando dietro Michela,
Ricky esclamò: "Uh, ma che bel sederino!", e poi, paf!, le diede una
centrata pacca sul fondoschiena.
Michela si voltò di scattò verso di lui e
gli rivolse uno sguardo che definire "inceneritore" è dir poco.
Pensai: "Adesso parte lo
schiaffone".
E gli sarebbe ancora andata bene, perché
avrebbe potuto benissimo partire il calcio nelle palle.
Ma per fortuna di Ricky non partì né il
manrovescio che avrebbe potuto lasciare temporanea traccia di sé su una delle
sue guance nè la ginocchiata che avrebbe potuto comprometterne la virilità.
Fatto sta che alla scena avevamo
assistito io e Gico. Naturalmente ci scappava di ridere.
A un certo punto, non riuscendo a
trattenerci più, io e Gico uscimmo dall'ufficio all'unisono, come se fossimo
sulla stessa lunghezza d'onda (in effetti, lo eravamo ... ) e, liberatici dalla
presenza dei due protagonisti (uno attivo e l'altra passiva) della chiappica
pacca, ci mettemmo a ridere, a ridere, a ridere.
Una situazione analoga, seppur priva di
risvolti machisti, ebbe luogo qualche anno dopo.
In un ufficio accanto a quello dove
lavoravo io, era da qualche giorno arrivata Antonietta Felicissimo, una delle
donne più belle che abbiano fatto la loro comparsa nell'azienda che all'epoca
mi annoverava fra i dipendenti. In quello stesso ufficio lavorava anche Aldino,
un gaffeur niente male.
Questa volta, però, nella figuraccia che
fece con Antonietta io ebbi un ruolo scatenante, sia pure del tutto
involontario.
Un pomeriggio entrai cioè nel loro
ufficio per informare Aldino che l'esecuzione di un certo lavoro era andata
bene e gli dissi: "Il job è andato bene. Sei contento?".
E Aldino, con Antonietta presente, mi
rispose: "Sono felicissimo".
Subito dopo avvampò di rossore per il
timore che Antonietta prendesse quell'affermazione come una presa in giro nei
suoi confronti e le disse: "Scusa, scusa".
Alla scena, oltre a me, era presente
anche Mauro. E, come già era accaduto con Gico a proposito della pacca sul
sedere data da Ricky a Michela, a me e a Mauro scappò da ridere e non trovammo
altra via di fuga se non uscire nel corridoio e lì lasciarci prendere dalla
ridarola senza opporre resistenza.
Una mattina uno scoop sconvolse il nostro
megaufficio (ben 18 scrivanie!): sarebbero arrivate a breve quattro giovani
consulenti! Di sesso femminile.
E subito circolò l'elenco dei loro nomi
e, soprattutto, cognomi. Un cognome soprattutto catalizzò la nostra attenzione,
comprensiva di risate generali e, per i superstiziosi, energiche toccate di
coglioni: Lamorte.
E venne del primo giorno di lavoro delle
quattro ragazze nella nostra azienda.
Alle ore 9 in punto entrarono nel nostro
ufficio, accompagnate dalla nostra capa e dal loro diretto superiore.
Il timore di tutti era per il momento
delle presentazioni. E' vero sì che di solito ci si presenta in modo informale
per nome di battesimo ma, avendo già letto l'elenco, sapevamo benissimo che
alla frase: "Ragazzi, questa è Claudia", corrispondeva il funereo
cognome.
Durante l'ora precedente, c'era chi pensava
a cose tragiche, chi faceva esercizi di meditazione Zen o training autogeno,
chi, più semplicemente, continuava a
ripetersi: "Non devo scoppiare a ridere, non devo scoppiare a ridere, non
devo scoppiare a ridere, ...". Fatto sta che tutti eravamo rimasti in
tremebonda attesa.
Una volta entrate le fanciulle, sentii
venir meno ogni resistenza a mantenere il mio viso atteggiato alla più composta
serietà e, con una disperata intuizione voltai il capo verso destra in
direzione di Luca, mio compagno di scrivania.
Luca mi guardò in faccia e scoppiò a
ridere, poi si accasciò letteralmente sulla sua scrivania e, sempre ridendo,
iniziò a dire: "Non ce la faccio! Non ce la faccio!". Sottintendendo:
"Non ce la faccio a rimanere serio".
Cos'era successo a scatenargli la
ridarola? Cos'avevo combinato io per esporre me e lui a una colossale figura di
merda, consistente nel ridere in faccia a "colei dal fatal cognome"?
Semplice. Nello sforzo immane di non
scoppiare a ridere, il mio volto era come se fosse stato colto da una paresi:
la parte sinistra, labbra e occhio soprattutto, era atteggiata a composta
serietà, mentre la destra aveva il labbro superiore piegato e conferente a
quella metà del viso evidente espressione di ghigno beffardo, e l'occhio che
improntato a riso irrefrenabile. Dovevo sicuramente sembrare uno di quegli
gnomi grotteschi che compaiono come bassorilievi sulle facciate delle
cattedrali gotiche.
Vedendo Luca ridere, scoppiai a ridere
anch'io e mi accasciai sulla mia scrivania.
Non so se io e Luca ridemmo piano o se la
nostra capa, pur fremendo dentro di sé dall'apprensione di un'imminente
figuraccia, mantenne il sangue freddo e fece finta di non vedere e di non
sentire le risatine in sottofondo, fatto sta che nessuno sembrò accorgersi del
nostro atteggiamento alquanto imbarazzante. Ad onor del vero, l'ufficio era
molto vasto, quasi esteso come un open space, e l'isola di sei scrivanie in
cui, con altri, io e Luca lavoravamo era proprio in fondo ad esso, per cui può anche
essere possibile che nessuno si fosse accorto della nostra incapacità di tenere
a freno la ridarola.
Ridere per le disavventure altrui non è
mai bello, soprattutto quando il malcapitato non ti ha mai fatto niente di
male. Ma a volte la vita ci pone di fronte a vicende talmente comiche, anzi,
tragicomiche, che è impossibile non provare l'impulso della ridarola.
Un pomeriggio presi un taxi. Feci appena
in tempo a salire a bordo e a dire l'indirizzo di casa mia al taxista che
questi, con la repentinità di chi viene colto all'improvviso da un dubbio,
iniziò a frugare forsennatamente sul cruscotto, nel cassetto sotto il cruscotto
e sul sedile anteriore riservato al passeggero.
Poi, imprecando, innescò la prima, il
taxi partì ed egli prese il microfono per parlare con una delle centraliniste
della compagnia dei taxi di cui faceva parte.
Naturalmente, non potei fare a meno di
sentire quello che diceva alla centralinista e compresi cos'era accaduto.
L'astuto era solito infilare nel quotidiano
che di solito acquistava il borsello contenente i suoi documenti, compresi
patente, libretto dell'automobile e licenza da taxista. Mezz'ora prima aveva
fatto sosta a un posteggio e prima di partire per una nuova corsa, ricordandosi
di avere finito di leggere il giornale, l'aveva gettato in un cestino nei
pressi del posteggio dei taxi. Aveva gettato non solo il quotidiano MA ANCHE IL
BORSELLO COI DOCUMENTI.
A Torino c'è un'espressione ironica per
definire chi si rende protagonista di simili distrazioni: "Bravo
merlo!".
Il mio amico Strazz, invece, nel commentare situazioni simili è solito usare un'altra espressione, anch'essa piemontese: "Tant brau ma tant
piciu!". Non ci sarebbe bisogno di tradurlo ma, per amor di dettaglio,
essa significa: "Tanto bravo ma tanto pirla!".
Or bene, nel sentire il resoconto
dell'accaduto a quel bravo merlo del taxista, mi prese una ridarola da far
concorrenza a quella che mi colpì quando i due bancari sorpresero Tatino in
ascensore coi pantaloni abbassati.
Ridarola che contenni ricorrendo alle
solite tecniche: ridendo "sottovoce" nascondendomi la faccia con una
mano; cercando disperatamente di guardare qualcosa fuori dal finestrino che mi
distraesse; fingendo un attacco di tosse che in qualche modo nascondesse il riso;
etc.
Sinceramente ero dispiaciuto per
l'inconveniente capitato al taxista ma la situazione era irrefrenabilmente
esilarante.
Il tragico avvenne quando il taxista
terminò la conversazione con la centralinista chiedendole di contattare i suoi
colleghi ancora fermi a quel posteggio per mandarli a frugare nel cestino onde
recuperare il borsello coi documenti. Prima, infatti, potevo sperare che,
concentrato sulla chiamata alla centrale, non facesse caso a me; ora, invece,
come si suol dire, eravamo solo io e lui e sicuramente si sarebbe accorto se mi
fosse platealmente scappato da ridere.
E mancavano ancora dieci minuti buoni
all'arrivo a destinazione a casa mia! In casi come questi, si sa, il tempo
sembra non passare mai.
Poiché la miglior difesa è l'attacco, in
quei tremendi dieci minuti del resto della corsa approfittai del fatto che il
taxista continuava ad imprecare per affrontare la questione e ogni minuto circa
gli dissi: "Coraggio, vedrà che li ritroverà, i documenti". E mi
accorsi che, oltre a far bella figura col poveraccio, quando parlavo
dell'accaduto la mia voglia di ridere si placava, anche a livello di
espressione facciale.
Terminata però la corsa e sceso dal taxi
non ce la feci a resistere e iniziai a ridere ininterrottamente durante il
percorso di una ventina di metri che separava il corso dall'interno dove
abitavamo. Chi mi avesse visto in quello stato avrebbe sicuramente pensato che
ero andato fuori di melone.
Risi anche durante la salita
dell'ascensore dal piano rialzato al settimo piano, dove c'era l'appartamento
dei miei.
Continuai a ridere per un buon quarto
d'ora, prima di riuscire a spiegare ai miei genitori cos'era successo.
E la cosa non finì lì. Durante la serata
venni colto da altri, numerosi, intensi attacchi di ridarola.