martedì 29 marzo 2016

Le mie ridarole

      Ridarola è un termine che in dialetto piemontese significa ridarella, quel riso incontrollabile che il più delle volte prende le persone in luoghi e in momenti per cui l'ultima cosa da fare è mettersi a ridere.
      Anche a me è successo e posso testimoniare che trattenere le risate quando a lasciarle andare si va incontro a delle autentiche figure di merda, è impresa degna delle fatiche di Ercole.

      La prima ridarola da cui venni colpito risale agli anni delle Medie Inferiori.
      In Prima, la prof.ssa Zocco, di Matematica e di Scienze, per le lezioni di Scienze ci aveva fatto portare a scuola dei vasetti di terra con delle piantine, che vennero messi sopra l’armadio in dotazione alla nostra aula.
      Alcune settimane dopo, durante l’intervallo Giuseppe venne spinto da un altro nostro compagno di classe contro l’armadio e, a causa della spinta, un vaso che era in bilico sul bordo dell’armadio cadde sulla testa di quest’ultimo con una precisione millimetrica; rimase il dubbio se il vaso fosse andato in frantumi quando cadde sul pavimento oppure un attimo prima, quando cozzò sulla testa di Giuseppe.
      La cosa sadica fu che, mentre il poveraccio si massaggiava la testa ripetendo ogni tanto: "Ahia!", noi ridevamo a crepapelle. E io, francamente, faticai non poco a smettere di ridere quando, a intervallo finito, entrò in classe la professoressa che doveva tenere quell'ora di lezione.

      Anche la mia seconda ridarola ebbe come teatro cronologico gli anni in cui frequentavo le Medie Inferiori.
      La prof.ssa Aggeri, di Italiano, Storia, Geografia e Latino, all'inizio di ogni lezione farsi consegnare da tre o quattro di noi i quaderni coi compiti che avremmo dovuto fare a casa, leggerli ad alta voce e dare il voto.
      Un giorno il compito di Antologia da verificare era il passo de I promessi sposi in cui si narra delle cause che spinsero il giovane Lodovico a farsi frate prendendo il nome di Cristoforo.
      La prof.ssa Aggeri ebbe l'infelice idea di farsi consegnare il quaderno dei compiti anche da Giampiero. Infelice per lui, naturalmente.
      Giampiero era un ragazzo intelligente ma aveva un difetto: non aveva voglia di studiare e non studiava. E quando uno non studia e gli viene richiesto di dire o scrivere qualcosa, 99 volte su 100 dice o scrive una cazzata.
      Ecco come Giampiero aveva messo per iscritto la rissa fra il nobile arrogante e il futuro fra' Cristoforo (risi talmente tanto, e ancora oggi rido ripensandoci, che mi è rimasto in testa parola per parola, fino a quando la professoressa non pose fine alla pietosa lettura):
      "Un giorno Lodovico incontrò per strada un nobile milanese.
       - Ciao, amico,- gli chiese, - come va?
       - Bene, e tu?
       Dopo di che lo prese a braccetto e andarono insieme a fare una passeggiata nel centro di Milano".
      Dal che si evince che, leggendolo in modo evidentemente distratto, di quell'episodio del capolavoro manzoniano, Giampiero non aveva proprio capito un cazzo. Oppure che, non avendo voglia di leggerlo, aveva ricostruito quell'episodio inventandoselo di sana pianta: con uguale effetto di comicità involontaria.
      Fatto sta che, mentre tutti noi studenti ridevamo a crepapelle, la prof.ssa Aggeri (il cui sguardo inorridito credo non dimenticherò mai) interruppe la lettura del "resoconto" di Giampiero, proferì un "oooohhh!" con una nota di raucedine che indicava vero sconcerto intellettuale e diede un bel 4 a Giampiero.
      Il quale non la prese per niente bene, anzi, si incazzò come una bestia, rispose male alla prof.ssa Aggeri, che gli mise una nota sul registro. Forse perché irritato dal fatto che continuavamo a sganasciarci dalle risate per le cagate che aveva scritto, Gampiero non si calmò nemmeno dopo la nota sul registro e continuò a battibeccare inviperito con la docente, la quale lo cacciò fuori dalla classe e dalla scuola, dicendogli di tornare accompagnato dai suoi genitori.
      Tornò un'ora dopo col padre, il quale, più che prendersela col figliolo, si lamentò con la prof.ssa Aggeri perché noi avevamo riso di lui.
      Ma cos'altro potevamo fare se non ridere di gusto per una colossale cazzata come quella di Lodovico e del nobile che a braccetto vanno a fare una passeggiata nel centro di Milano? Povero Manzoni! Se avesse potuto sentire questa versione, si sarebbe rivoltato nella tomba.
      Va be' che Umberto Eco ha elaborato il concetto di opera aperta, cioè del testo scritto aperto alle più diverse interpretazioni e modifiche da parte dei lettori, ma quella volta Giampiero aveva veramente esagerato.

      Qualche anno dopo, esattamente nel 1976, una sera a casa sentimmo un rumore a cui seguì la voce del nostro vicino di casa, il signor Buzzetti, che chiamava la moglie: "Giuse! Giuse!". Non vi furono però ulteriori segnali di trambusto.
      Il giorno dopo, dopo cena, la signora Buzzetti ci venne a trovare per fare quattro chiacchiere e ci spiegò cos'era successo.
      Il signor Costantino (all'anagrafe era stato registrato come Isidoro ma sia in famiglia che i conoscenti lo chiamavano tutti Costantino) si era recato in bagno e qualche secondo dopo dal soffitto si era staccato il lampadario e gli era caduto sulla testa.
      Per fortuna non si era fatto nulla di male, solo un piccolo taglio sul cuoio capelluto.
      Io gli volevo molto bene, tant'è che da bambino lui e la moglie li chiamavo "zio" e "zia", e di sicuro non mi faceva alcun piacere sapere che gli era capitato quell'incidente domestico. Ma la dinamica dell'accaduto era talmente comica che mi prese una ridarola ma una ridarola di quelle che non riuscii proprio né a mascherare davanti alla signora Buzzetti né a far terminare se non dopo parecchi minuti.

      Durante il settennato presidenziale di Sandro Pertini, una notizia mi provocò una ridarola niente male.
      Pertini era solito passare la fine dell'anno a Nizza. La radio riferì che nella notte del 31 dicembre, un ladro ubriaco si era rivolto a due persone in strada chiedendo loro di aiutarlo a svaligiare una gioielleria; peccato solo che le due persone fossero due agenti della Gendarmeria in borghese, incaricati di sorvegliare l'edificio dove era ospitato il Presidente della Repubblica Italiana, agenti i quali avevano immediatamente arrestato l'incauto e sfigato scassinatore.
      La notizia, ascoltata in camera mia, mi causò una ridarola tale che, quando corsi nel tinello per raccontare l'accaduto ai miei genitori e agli zii Carla e Leandro (che ci erano venuti a trovare), ero talmente preso dalle risate che mi sedetti in un posto dove avevo dato per scontato che c'era una sedia che invece non c'era.
      Il risultato fu una plateale seduta per terra, con conseguente culata.

      Facciamo ora un altro salto in avanti nel tempo e andiamo agli anni in cui lavoravo già. Un pomeriggio dovevo andare col mio collega Tatino a una riunione. Prendemmo l’ascensore per recarci al quarto piano della sede del Cliente della nostra azienda, dove ci aspettavano. A questo punto Tatino si accorse di avere la camicia fuori posto e si sbottonò i pantaloni per rimetterla in ordine, evidentemente ritenendo di avere tutto il tempo di sistemarsi durante la salita dal primo al quarto piano. Dimenticandosi però che l’ascensore, se nel frattempo qualcuno l’avesse chiamato, si sarebbe fermato a un piano intermedio rispetto a quello di destinazione.
      Come accade spesso quando si tratta di far nascere involontarie situazioni comiche, l’ascensore si spalancò al secondo piano e i nuovi passeggeri, due impiegati bancari, ebbero la sconvolgente visione di Tatino che si stava tirando su i pantaloni dopo aver messo a posto la camicia. Ironia aggiuntiva della sorte: un paio d’ora dopo, mi accorsi di essermi recato a quella riunione con la bottega dei pantaloni aperta. Se i due signori che erano entrati nell’ascensore notarono tutti questi particolari, dovettero sicuramente aver pensato male.
      Ad ogni modo, io e Tatino cogliemmo subito il lato imbarazzante, anzi, sommamente imbarazzante della situazione. Cosicché, dopo che i due passeggeri uscirono dall’ascensore al terzo piano (già: per andare solo dal secondo al terzo piano non potevano fare le scale, i bastardi?), scoppiammo a ridere. E da quel momento non ci fu freno che tenesse.
      Imboccammo il corridoio ridendo a crepapelle, con tutti gli impiegati e i consulenti del Cliente della nostra azienda che incontravamo a guardarci sbigottiti, in quel tempio della serietà e della professionalità.
       Poi, rendendosi conto di non potersi trattenere, Tatino si rifugiò nell’ufficio dove da mesi era distaccato il nostro collega Walter detto Gico, mentre io corsi nel bagno più vicino. Passai un quarto d’ora a ridere, temendo che il cuore mi scoppiasse da un momento all’altro per lo sforzo involontario; poi, riacquistato un minimo di autocontrollo (ma proprio un minimo!) tornai sui suoi passi ed entrai nell’ufficio dove si era rifugiato Tatino.
      A distanza di oltre vent’anni ho ancora davanti a me nitidissima l’immagine di Tatino come lo trovai: seduto e appoggiato con le braccia su una scrivania, stava ancora ridendo ed aveva letteralmente le lacrime agli occhi.
      Poiché la ridarola è per definizione contagiosa, anche Gico stava ridendo di gusto. E con tutta probabilità senza nemmeno sapere il motivo! Visto che è difficile che Tatino, preso com’era dai singulti del riso, fosse riuscito a spiegargli il motivo di tanta incontenibile allegria.
      E anche lì i dipendenti e i consulenti del Cliente della nostra azienda ci guardavano sbigottiti, mentre ormai in tre stavamo ridendo come matti in quel tempio della serietà e della professionalità.
      Passarono ancora dieci minuti, nei quali cercammo di ricomporci il più decentemente possibile, poi io e Tatino ci recammo, già in ritardo, alla riunione. Nel corridoio scoppiammo ancora a ridere un paio di volte ma per fortuna, una volta entrati nella sala riunioni, riuscimmo a mantenerci tutto sommato seri, nonostante io rimasi vittima di qualche violento attacco di ridarola, subito nascosto voltandomi da un'altra parte o mettendomi a tossire.
      Beninteso, di quello che si discusse non riuscii a percepire un'emerita cippa, concentrato com’ero a trattenermi dal ridere.
      All’uscita dalla riunione, quando fummo di nuovo soli nel corridoio, io e Tatino riscoppiammo a ridere; sempre ridendo, ritornammo nei locali della nostra azienda e continuammo a sbellicarci dalle risate per un bel po’.
      Quella sera, a casa, quando spensi la luce, venni colto da un nuovo attacco di ridarola e passò almeno un’ora prima che si placasse, consentendomi di addormentarmi.
      La mattina dopo, al ritorno in ufficio, appena io e Tatino ci guardammo negli occhi, scoppiammo di nuovo a ridere. Per fortuna, dopo un paio d’ore la ridarola ci abbandonò.

      In altre circostanze, ebbi la fortuna di avere delle vie di fuga per poter sfogare la ridarola.
      Un pomeriggio, appena dopo la fine della pausa pranzo, Ricky tornò nel nostro ufficio. Avendo la scrivania collocata oltre quella di Michela, per andarsi a sedere doveva passare da lì, naturalmente dalla parte delle sedie. Caso volle che in quel momento Michela fosse accostata in piedi alla sua scrivania, intenta a leggere un tabulato aperto su di essa.
      La postura di Michela era ritta, non chinata in avanti e dunque nemmeno provocante. Intendiamoci: anche se lo fosse stata, non sarebbe stata di giustificazione di ciò che stava per succedere.
      Fatto sta che, passando dietro Michela, Ricky esclamò: "Uh, ma che bel sederino!", e poi, paf!, le diede una centrata pacca sul fondoschiena.
      Michela si voltò di scattò verso di lui e gli rivolse uno sguardo che definire "inceneritore" è dir poco.
      Pensai: "Adesso parte lo schiaffone".
      E gli sarebbe ancora andata bene, perché avrebbe potuto benissimo partire il calcio nelle palle.
      Ma per fortuna di Ricky non partì né il manrovescio che avrebbe potuto lasciare temporanea traccia di sé su una delle sue guance nè la ginocchiata che avrebbe potuto comprometterne la virilità.
      Fatto sta che alla scena avevamo assistito io e Gico. Naturalmente ci scappava di ridere.
      A un certo punto, non riuscendo a trattenerci più, io e Gico uscimmo dall'ufficio all'unisono, come se fossimo sulla stessa lunghezza d'onda (in effetti, lo eravamo ... ) e, liberatici dalla presenza dei due protagonisti (uno attivo e l'altra passiva) della chiappica pacca, ci mettemmo a ridere, a ridere, a ridere.

      Una situazione analoga, seppur priva di risvolti machisti, ebbe luogo qualche anno dopo.
      In un ufficio accanto a quello dove lavoravo io, era da qualche giorno arrivata Antonietta Felicissimo, una delle donne più belle che abbiano fatto la loro comparsa nell'azienda che all'epoca mi annoverava fra i dipendenti. In quello stesso ufficio lavorava anche Aldino, un gaffeur niente male.
      Questa volta, però, nella figuraccia che fece con Antonietta io ebbi un ruolo scatenante, sia pure del tutto involontario.
      Un pomeriggio entrai cioè nel loro ufficio per informare Aldino che l'esecuzione di un certo lavoro era andata bene e gli dissi: "Il job è andato bene. Sei contento?".
      E Aldino, con Antonietta presente, mi rispose: "Sono felicissimo".
      Subito dopo avvampò di rossore per il timore che Antonietta prendesse quell'affermazione come una presa in giro nei suoi confronti e le disse: "Scusa, scusa".
      Alla scena, oltre a me, era presente anche Mauro. E, come già era accaduto con Gico a proposito della pacca sul sedere data da Ricky a Michela, a me e a Mauro scappò da ridere e non trovammo altra via di fuga se non uscire nel corridoio e lì lasciarci prendere dalla ridarola senza opporre resistenza.

      Una mattina uno scoop sconvolse il nostro megaufficio (ben 18 scrivanie!): sarebbero arrivate a breve quattro giovani consulenti! Di sesso femminile.
      E subito circolò l'elenco dei loro nomi e, soprattutto, cognomi. Un cognome soprattutto catalizzò la nostra attenzione, comprensiva di risate generali e, per i superstiziosi, energiche toccate di coglioni: Lamorte.
      E venne del primo giorno di lavoro delle quattro ragazze nella nostra azienda.
      Alle ore 9 in punto entrarono nel nostro ufficio, accompagnate dalla nostra capa e dal loro diretto superiore.
      Il timore di tutti era per il momento delle presentazioni. E' vero sì che di solito ci si presenta in modo informale per nome di battesimo ma, avendo già letto l'elenco, sapevamo benissimo che alla frase: "Ragazzi, questa è Claudia", corrispondeva il funereo cognome.
      Durante l'ora precedente, c'era chi pensava a cose tragiche, chi faceva esercizi di meditazione Zen o training autogeno, chi, più semplicemente,  continuava a ripetersi: "Non devo scoppiare a ridere, non devo scoppiare a ridere, non devo scoppiare a ridere, ...". Fatto sta che tutti eravamo rimasti in tremebonda attesa.
      Una volta entrate le fanciulle, sentii venir meno ogni resistenza a mantenere il mio viso atteggiato alla più composta serietà e, con una disperata intuizione voltai il capo verso destra in direzione di Luca, mio compagno di scrivania.
      Luca mi guardò in faccia e scoppiò a ridere, poi si accasciò letteralmente sulla sua scrivania e, sempre ridendo, iniziò a dire: "Non ce la faccio! Non ce la faccio!". Sottintendendo: "Non ce la faccio a rimanere serio".
      Cos'era successo a scatenargli la ridarola? Cos'avevo combinato io per esporre me e lui a una colossale figura di merda, consistente nel ridere in faccia a "colei dal fatal cognome"?
      Semplice. Nello sforzo immane di non scoppiare a ridere, il mio volto era come se fosse stato colto da una paresi: la parte sinistra, labbra e occhio soprattutto, era atteggiata a composta serietà, mentre la destra aveva il labbro superiore piegato e conferente a quella metà del viso evidente espressione di ghigno beffardo, e l'occhio che improntato a riso irrefrenabile. Dovevo sicuramente sembrare uno di quegli gnomi grotteschi che compaiono come bassorilievi sulle facciate delle cattedrali gotiche.
      Vedendo Luca ridere, scoppiai a ridere anch'io e mi accasciai sulla mia scrivania.
      Non so se io e Luca ridemmo piano o se la nostra capa, pur fremendo dentro di sé dall'apprensione di un'imminente figuraccia, mantenne il sangue freddo e fece finta di non vedere e di non sentire le risatine in sottofondo, fatto sta che nessuno sembrò accorgersi del nostro atteggiamento alquanto imbarazzante. Ad onor del vero, l'ufficio era molto vasto, quasi esteso come un open space, e l'isola di sei scrivanie in cui, con altri, io e Luca lavoravamo era proprio in fondo ad esso, per cui può anche essere possibile che nessuno si fosse accorto della nostra incapacità di tenere a freno la ridarola.

      Ridere per le disavventure altrui non è mai bello, soprattutto quando il malcapitato non ti ha mai fatto niente di male. Ma a volte la vita ci pone di fronte a vicende talmente comiche, anzi, tragicomiche, che è impossibile non provare l'impulso della ridarola.
     Un pomeriggio presi un taxi. Feci appena in tempo a salire a bordo e a dire l'indirizzo di casa mia al taxista che questi, con la repentinità di chi viene colto all'improvviso da un dubbio, iniziò a frugare forsennatamente sul cruscotto, nel cassetto sotto il cruscotto e sul sedile anteriore riservato al passeggero.
      Poi, imprecando, innescò la prima, il taxi partì ed egli prese il microfono per parlare con una delle centraliniste della compagnia dei taxi di cui faceva parte.
     Naturalmente, non potei fare a meno di sentire quello che diceva alla centralinista e compresi cos'era accaduto.
      L'astuto era solito infilare nel quotidiano che di solito acquistava il borsello contenente i suoi documenti, compresi patente, libretto dell'automobile e licenza da taxista. Mezz'ora prima aveva fatto sosta a un posteggio e prima di partire per una nuova corsa, ricordandosi di avere finito di leggere il giornale, l'aveva gettato in un cestino nei pressi del posteggio dei taxi. Aveva gettato non solo il quotidiano MA ANCHE IL BORSELLO COI DOCUMENTI.
      A Torino c'è un'espressione ironica per definire chi si rende protagonista di simili distrazioni: "Bravo merlo!".
      Il mio amico Strazz, invece, nel commentare situazioni simili è solito usare un'altra espressione, anch'essa piemontese: "Tant brau ma tant piciu!". Non ci sarebbe bisogno di tradurlo ma, per amor di dettaglio, essa significa: "Tanto bravo ma tanto pirla!".
     Or bene, nel sentire il resoconto dell'accaduto a quel bravo merlo del taxista, mi prese una ridarola da far concorrenza a quella che mi colpì quando i due bancari sorpresero Tatino in ascensore coi pantaloni abbassati.
      Ridarola che contenni ricorrendo alle solite tecniche: ridendo "sottovoce" nascondendomi la faccia con una mano; cercando disperatamente di guardare qualcosa fuori dal finestrino che mi distraesse; fingendo un attacco di tosse che in qualche modo nascondesse il riso; etc.
     Sinceramente ero dispiaciuto per l'inconveniente capitato al taxista ma la situazione era irrefrenabilmente esilarante.
     Il tragico avvenne quando il taxista terminò la conversazione con la centralinista chiedendole di contattare i suoi colleghi ancora fermi a quel posteggio per mandarli a frugare nel cestino onde recuperare il borsello coi documenti. Prima, infatti, potevo sperare che, concentrato sulla chiamata alla centrale, non facesse caso a me; ora, invece, come si suol dire, eravamo solo io e lui e sicuramente si sarebbe accorto se mi fosse platealmente scappato da ridere.
      E mancavano ancora dieci minuti buoni all'arrivo a destinazione a casa mia! In casi come questi, si sa, il tempo sembra non passare mai.
      Poiché la miglior difesa è l'attacco, in quei tremendi dieci minuti del resto della corsa approfittai del fatto che il taxista continuava ad imprecare per affrontare la questione e ogni minuto circa gli dissi: "Coraggio, vedrà che li ritroverà, i documenti". E mi accorsi che, oltre a far bella figura col poveraccio, quando parlavo dell'accaduto la mia voglia di ridere si placava, anche a livello di espressione facciale.
      Terminata però la corsa e sceso dal taxi non ce la feci a resistere e iniziai a ridere ininterrottamente durante il percorso di una ventina di metri che separava il corso dall'interno dove abitavamo. Chi mi avesse visto in quello stato avrebbe sicuramente pensato che ero andato fuori di melone.
      Risi anche durante la salita dell'ascensore dal piano rialzato al settimo piano, dove c'era l'appartamento dei miei.
      Continuai a ridere per un buon quarto d'ora, prima di riuscire a spiegare ai miei genitori cos'era successo.
      E la cosa non finì lì. Durante la serata venni colto da altri, numerosi, intensi attacchi di ridarola.

mercoledì 23 marzo 2016

La mia prima gaffe

      Ecco la mia prima gaffe o, almeno, la prima di cui serbi memoria.
      Da bambino il barbiere che mi tagliava i capelli era il signor Gaetano.
      Un giorno, incontratolo per la periodica tosatura tricologica mia e di mio padre, ci accorgemmo che egli aveva la faccia piena di cerotti, abrasioni e lividi. Ci raccontò che era caduto mentre andava in bicicletta.
      Nel guardarlo bene in faccia conciato com'era, sembrava che portasse una maschera, una grottesca maschera di carnevale.
      E purtroppo eravamo proprio nel periodo di carnevale, che all'epoca a Torino si festeggiava tradizionalmente in piazza Vittorio Veneto, detta semplicemente piazza Vittorio.
      Allora io, collegando le due cose, senza alcuna malizia né alcuna intenzione di prenderlo in giro, dissi candidamente al signor Gaetano: "Beato Lei, che non ha bisogno di una maschera per andare in piazza Vittorio!".
      E dire che allora stavo frequentando la Seconda Elementare. E' proprio vero che il buon giorno si vede dal mattino.

venerdì 18 marzo 2016

I miei due nomi

      Qualche anno fa ebbi il piacere di vedere una mia boutade citata da Luciana Littizzetto in un’intervista rilasciata al Magazine del Corriere della Sera.
      La boutade in questione, postata sul sito internet dell’attrice satirica torinese, era: “Se Luciana Littizzetto fosse il Vaticano, non s’impiccerebbe nelle faccende dello Stato italiano”.
      Naturalmente, nell’intervista il mio nome venne in modo sbagliato: Gian Gottardo invece di Gian Contardo.
      Essendo io dotato di umiltà e di autoironia, non me la presi. Anzi: abituato da sempre a vedere storpiato il mio nome completo, la cosa mi divertì.
      In fondo, è comprensibile che un nome insolito come Contardo (è il secondo in ordine anagrafico ma è quello dominante, perché in famiglia e gli amici più intimi mi chiamano Contardo) non venga ripetuto o scritto in modo esatto.
      Contardo: di origine germanica, la sua etimologia significa “duro, audace in battaglia”. E’ sicuramente un caso ma essa rispecchia esattamente il mio carattere: combattivo, testardo, irruente, polemico. Quanto al "duro", ehm, temo che questo significato del mio nome sia l'unica cosa con cui mi possa paragonare a Rocco Siffredi.
      Dicevo: non tutti lo ripetono in modo corretto. Il Gian che gli sta davanti ha facilitato le cose, perché quasi tutti mi chiamano Gian. E io li lascio fare, non perché la cosa mi piaccia (anzi, non mi piace per niente, perché il "Gian" ha a che fare col ramo materno della mia famiglia, e chi ha letto il mio libro Il calvario di Pina, Riccadonna Editori, sa benissimo il perché) ma per comodità e pigrizia: sarebbe veramente una palla dover ogni volta ripetere venti e più volte all’interlocutore il mio nome dominante, fino a fargli lo spelling col solo risultato di continuare a sentirlo a chiamarmi in modo sbagliato!
      Dunque, finora i modi come vengo chiamato risultano due: Contardo e Gian. Ma ve ne sono moltissimi altri.
      Innanzitutto, il nome completo: Gian Contardo. A voce mi sta anche bene, anzi, lo preferisco al semplice Gian. Ma per iscritto mi fa incazzare (sia pure leggerissimamente) quando scrivono Giancontardo al posto di Gian Contardo. E no, miei cari: io non ho un solo nome, sia pure composto, ma due, e voi dovete (anzi, dovreste) scriverli separati.
      Invidio la convenzione vigente in certe lingue di separare con un trattino i nomi multipli: François-Marie (oddio! E’ il nome di Voltaire: il nostro amicone Camillo "Eminenza!" Ruini se ne avrà a male) in francese o Karl-Heinz in tedesco. Molto comodo per evitare che a volte i due nomi vengano separati e a volte scritti tutti attaccati. In Francia, dunque, mi chiamerei Jean-Contard e in Germania Johann-Gunthardt.
      Passiamo ora alle varianti del mio nome completo.
      Le storpiature e sviste sono state tante: Gian Gottardo; Gian Cortaldo; Gian Corrado; Gian Cortaldo; Gian Cortrado; una volta mi sono pure trovato un Gian Gondando (e che?! L’aveva scritto Demita?).
      Altre volte, invece, le varianti sono legittime e simpatiche: Gianco; Janko; Gianchius; Giannino (ricordo, eh eh, l’imbarazzo che colse l’allo ra mia collega Paola Simonetta quella volta che mi chiamò così: “gianin” in piemontese significa “vermiciattolo”!); Contardino (da piccolo; la mia nonnina Anna Maria, tuttavia, adattando a me il nome di mio padre, mi definiva “il mio Vincenzino”); Contardone (con venti chili in più).
      Vi sono poi le traduzioni estere: Jean; John; Johnny: Conty (a suo tempo messomi dal prof. Sante Demicheli, mio insegnante di Storia e Geografia alle Medie Inferiori che mi diede anche l'appellativo di Colombardo; mi chiama Conty anche il mio amico americano George Deyman).
      Vi è anche Juanito Contardito, datomi in risposta (forse per rappresaglia) da mia cugina Giancarla Lucchese, quando, riferendomi al fatto che vive a Palma di Maiorca, ho preso a chiamarla Juanita Carlita.
      Mio cugino Fernando Zanni, infine, mi chiamava semplicemente Conta.
      Tirando filosoficamente le somme dal casino dei miei nomi, voi chiamatemi come volete.

sabato 5 marzo 2016

I miei titoli

      Negli anni in cui frequentavo le Medie Superiori, i diplomati erano per fortuna già abbastanza numerosi e il fregiarsi del titolo di studio conferito dal diploma non era più frequente, anzi, notando qualche isolato vanaglorioso che si faceva mettere sulla targhetta del citofono un "rag." o un "geom." prima del cognome, già all'epoca mi veniva da commentare: "Che pirla!".
      Il diploma che conseguii io, poi, aveva un titolo talmente chilometrico ("Perito Aziendale e Corrispondente in Lingue Estere") che, anche se avessi voluto fregiarmene, sarebbe stata una mission impossible presentarmi sbandierandolo o scriverlo su una targhetta o su dei biglietti da visita. Lunghezza per lunghezza, era, ed è, molto meglio declamare i titoli dei film di Lina Wertmueller: se non altro, si fa la figura di dotti cinefili.

      Ho invece ceduto, sia pure per un brevissimo tempo, alla vanità di sbandierare il "dott." in seguito al conseguimento della laurea in Lettere Moderne. Avevo però la parziale giustificazione di essermi sudato, e meritato, quella laurea, presa da lavoratore studente e quindi dopo avervi dedicato per anni ogni ora libera, sere, sabati, domeniche, festività e ferie comprese.
      Smaltito quel periodo di narcisismo intellettuale, non ho più fatto grande attenzione al mio titolo di "dott.".
      Dopo circa un anno dall'esame di laurea, mentre una sera uscivo dal lavoro incontrai una signora che lavorava in un'azienda che divideva i locali con quella alle cui dipendenze mi trovavo io e la sentii dire: "Buona sera, dottore".
      Mi voltai per vedere chi aveva salutato e, solo allora, constatando che alle mie spalle non c'era nessuno, afferrai che aveva salutato me. Non avevo più prestato attenzione al fatto che anch'io ero laureato e quindi potevo fregiarmi del titolo di dottore.
      Risposi al saluto della signora e uscii dal luogo di lavoro rallegrandomi perché ormai mi ero lasciato alle spalle la vanagloria di tenere al mio titolo di studio.

     Adesso, dopo l'introduzione delle lauree brevi, legalmente potrei fregiarmi del titolo di dottore magistrale ("dott. mag."), che spetta anche a chi ha conseguito le vecchie, tradizionali lauree quadriennali. Ma troverei la cosa ridicola.

      Fatto sta che, ogni tanto, mi vedo costretto a ritirare fuori il "dott." (senza "mag.", però). Accade quando mi imbatto in qualcuno che mi tratta come una merda, come un essere a lui inferiore, e allora il mio titolo lo tirò fuori. Se poi il tipo è particolarmente stronzo, gli sbandiero sul naso la mia votazione di laurea di 110 e lode. E se è un autentico figlio di puttana, gli calo sul muso il mio quoziente d'intelligenza, che dovrebbe (il condizionale è d'obbligo, perché i test non sempre sono attendibili) essere superiore a 150, con tanto di stoccata finale: "Non so se Lei può dire altrettanto a proposito del Suo".
      In fondo, sono argomentazioni dialettiche molto più eleganti del rivolgere al pallone gonfiato l'esortazione di Jacopo Belbo ne Il pendolo di Foucault: "Ma gavte la nata!", ossia di levarsi il tappo che, infisso nello sfintere, impedisce all'aria di cui è pieno di uscire con un sibilo acuto.
      Accade raramente, sia ben chiaro. Ed esibisco i miei titoli solo agli stronzi. Mai che lo faccia con chi negli studi abbia conseguito risultati minori rispetto ai miei. Non è mai bello vantarsi con chi in una qualunque attività non ha conseguito i tuoi stessi risultati: non è bello umiliare le persone per far sfoggio di meschina vanagloria.

giovedì 3 marzo 2016

Preghiera dell'umorismo di Tommaso Moro

"Dammi, o Signore,
  il senso dell'umorismo,
  concedimi la grazia di comprendere uno scherzo,
  affinché conosca nella vita un po' di gioia
  e possa farne parte anche ad altri"
                                            (Tommaso Moro).