venerdì 25 dicembre 2015

Il Natale del '73

      Il Natale del ’73 fu il primo Natale in cui non aspettai Gesù Bambino. In casa nostra non si usava dire che i regali li portava Babbo Natale ma Gesù Bambino.
      Non che compresi solo nel 1973 che il Bambinello non c’entrava niente coi regali che a costo di rinunce personali mi compravano mamma e papà. Ma quello fu l’anno in cui non andai a letto la sera del 24 dicembre per sentire i miei genitori scendere in cantina a prendere quei pacchetti che avrei aperto la mattina dopo.
      L’anno precedente, l’ultimo in cui lo zio Ennio, mio padrino di battesimo, venne dalla reggiana Villa Minozzo a passare le Feste di Fine Anno con noi, il regalo principale era talmente voluminoso (una bicicletta) che i miei l’avevano dovuto mettere sul balcone proibendomi per qualche settimana di gettarvi lo sguardo: divieto che rispettai disciplinatamente.
      Nel ’73, invece, ormai ero cresciutello, frequentavo la Terza Media Inferiore, e i miei i regali me li diedero la mattina del 25 dicembre senza troppi sotterfugi.
      Andammo tutti a letto di buon’ora: quello era l’inverno dell’Austerity, che, oltre a comportare lo splendido esperimento delle domeniche con divieto della circolazione delle automobili private, aveva imposto la fine delle trasmissioni televisive prima delle undici di sera. E io, non potendo quell’anno rimanere alzato a guardare i programmi che la Rai mandava in onda la sera della vigilia di Natale, invece di aspettare Gesù Bambino feci le ore piccole in camera mia leggendo I tre moschettieri di Dumas.

      Quel Natale fu anche l’unico che, oltre a zia Carla e zio Leandro, venne a passarlo da noi zio Renato, il fratello più giovane della mia mamma. Di carattere riservato, mia madre riuscì a convincerlo a venire da noi il giorno di Natale, anche se solo per quella volta, perché nel giro di pochi mesi erano mancati entrambi i miei nonni materni e le dispiaceva che lo passasse non dico solo ma quasi: a Rivara Canavese, è vero, Renato viveva con un altro fratello e la di lui famiglia ma, come dire?, la sensibilità e le premure non erano (e non sarebbero mai state) una caratteristica di quella parte di famiglia.
      Renato mi regalò un libro, La freccia nera di Stevenson, che mi fece veramente felice. Ne avevo una versione per bambini, che i miei mi avevano fatto trovare sotto l’Albero qualche anno prima, ma quella dello zio era molto più completa e dettagliata. Ed era un romanzo da cui Anton Giulio Majano aveva tratto uno splendido sceneggiato televisivo che aveva subito catturato la mia attenzione e il mio gradimento.
      Mi feci scrivere da Renato una dedica al volume che mi aveva regalato. Quel libro è uno dei pochi romanzi per ragazzi che abbia conservato in età adulta.
      Da un po’ di anni è anche un modo per ricordare Renato: rimase sempre scapolo, ebbe i suoi seri problemi di salute e morì prematuramente nel 1989, a cinquantun’anni d’età.

      Ricordo il Natale del ’73 anche per un’altra ragione. Quell’anno il medico mi aveva prescritto delle iniezioni di calcio e mia madre me le fece fare, una al giorno, durante le vacanze invernali, in modo che non mi disturbassero nei periodi di scuola.
      Da qualche anno per le iniezioni ci rivolgevamo a un’infermiera che abitava nel condominio dove vivevamo noi, la “tota” Ritìn. Sia allora che dopo, ogni volta che necessitavamo di qualche puntura non mancò di venire e non chiese mai una sola lira di compenso. Ovviamente, avendo noi un fortissimo senso della gratitudine, ci “sdebitavano” con scatole di cioccolatini o con le torte che mia madre era bravissima a fare.
      Quell’anno, anche la mattina di Natale si presentò a casa nostra per bucarmi il sederino, incurante del fatto che avrebbe anche potuto giustificarsi per via dei festeggiamenti nella sua famiglia.
      Or bene, quando aprii la porta, Ritìn si presentò porgendomi un pacchetto di cioccolatini come dono di Natale.
      Tra il serio ed il faceto, mia madre mi disse: “Non solo viene a farti la puntura anche di giorno festivo ma ti porta pure un regalo, quando dovresti essere tu a farglielo per le iniezioni che ti fa”.
      Erano altri tempi: le famiglie erano più unite e, quando per qualche motivo non ci si poteva aiutare a vicenda, i condomini sostituivano egregiamente i parenti nel sostenere chi aveva bisogno di qualcosa.

martedì 22 dicembre 2015

Armi improprie

      Alle Medie Inferiori, fra i nostri passatempi preferiti, sia negli intervalli che durante la ricreazione ma a volte, ehm, anche durante le lezioni ..., vi era quello di usare smontare le penne onde usarne la parte esterna come cerbottana; unica variante: al posto delle freccette e dei foglietti di carta arrotolati a cono, utilizzavamo come proiettili dei minuscoli pezzettini di carta che masticavamo per renderli un po' più pesanti impregnandoli di saliva; la forma della "pallottola" non doveva essere precisamente sferica ma presentare una parte appuntita, in modo che chi ne veniva colpito, pur non provando dolore, avvertisse la sensazione di una piccola e leggerissima puntura di spillo.
      Non so chi avesse introdotto nella nostra classe questo sport, che da decenni si tramandava di fratello in fratello, di cugino in cugino. Fatto sta che esso si diffuse rapidamente, tant’è vero che la prof.ssa Aggeri (di Lettere) ebbe modo di sequestrare un numero ingente di queste penne ristrutturate come cerbottane; in pochi mesi ne mise da parte un fornitissimo arsenale.
      A proposito di ciò, Giampiero diede prova di una sottile ironia il giorno in cui la prof.ssa Aggeri sequestrò una meraviglia della tecnologia a Paolo, il quale era riuscito a costruire una “doppietta”: il pezzo di artiglieria sequestratogli quel giorno era infatti costituito da due penne legate fra loro con del nastro adesivo, in modo che, debitamente caricate con "pallottole" insalivate, consentivano al “cecchino” di sparare due colpi con una sola soffiata. Or bene, mentre la buona profia di Lettere stava guardando sbalordita il prodigioso frutto di creatività che aveva appena sequestrato, Giampiero le si avvicinò e, assumendo un professionale tono da esperto, le disse: "La vede? Questa è una mitragliatrice".
      Per la verità, il termine esatto sarebbe stato "doppietta" e non "mitragliatrice" ma l'effetto ironico venne comunque conseguito.

      Fui invece io ad introdurre un’arma più devastante della cerbottana: la balestra-cartellina.
      Essendomi stufato di utilizzare le penne vuote come cerbottane per sparare minuscoli proiettili di carta insalivata, inventai un nuovo tipo di arma, la "balestra-cartellina” per l’appunto, costituita da una di quelle cartelline con l’elastico che contenevano i fogli; i “pezzi” sparati, naturalmente, erano di dimensioni ben maggiori, pardon, di calibro ben maggiore di quelli che potevano contenere le nostre “cerbottane”. C'era sì il lato sgradevole che per ottenerli dovevo masticare e insalivare dei pezzi di carta ben più grandi ma la soddisfazione dell'usare quell'arma valeva veramente la pena.
      Il colpo di maggior successo lo sparai quella volta che, durante l’ora di Disegno, riuscii a rovinare l’acquarello che con tanta cura stava dipingendo Riccardo.
      Dopo avere masticato a dovere un pezzo di carta, riuscii a formare un proiettile di circa 2 cm di diametro, lo posi sulla cartellina davanti all’elastico, tirai indietro quest’ultimo e lo mollai di scatto sparando alla cieca l’impasto di carta e saliva. Esso andò a cadere proprio in mezzo al foglio che stava disegnando Riccardo e su cui i colori erano ancora freschi. Non potei osservare da vicino l’effetto del tiro sull’acquarello ma, quando qualche secondo dopo Riccardo si accorse del proiettile caduto sul suo disegno, vidi chiaramente comparire sul suo volto una smorfia di disgusto e lo sentii esclamare: "Ma chi è che tira questi siluri?!". Superfluo aggiungere che mi guardai bene dal dirgli che ero stato io.

      Un'altro tipo di arma da noi utilizzata era la "catapulta manuale", nel senso che non si utilizzava alcuno strumento ma solo il taglio della mano, che la parte sporgente della matita che si era messa in bilico sul banco; il colpo secco sparava la matita con lo stesso effetto di un proiettile lanciato da una catapulta.
      Come già per l'acquerello di Riccardo colpito dalla mia "balestra", anche il colpo migliore che tirai con l'effetto catapulta fu dovuto a casualità e non certo a precisa mira. Una mattina, durante un'ora lasciata scoperta da un professore assente non sostituito da un supplente, mentre in classe stavamo facendo casino, sporsi una matita dal banco e ne colpii la parte sporgente. Il proiettile percorse una curva perfetta e andò a cadere verticalmente sul banco di Liliana, rimbalzò e la colpì in faccia, non di punta ma nel lato della sua lunghezza.
      Risate generali, comprese quelle di Liliana, la quale rimase sorpresa in quanto tutta concentrata a leggere un libro di testo. Era l'unica di noi a studiare anche durante le ore in cui non c'era un docente. Tant'è vero che una volta qualcuno le attaccò sulla sedia, di spalle, un foglio con su scritto: "GENIO AL LAVORO".

sabato 5 dicembre 2015

Medical dramas

Da bambino ho avuto vari problemi di salute; in particolare, ero endemicamente colpito da tonsilliti, che mi hanno perseguitato durante gli anni delle Elementari (e anche prima).
Di fatto, dunque, sono cresciuto con l'imprinting della figura del medico, in quanto, fra le visite a casa del medico della mutua e le visite specialistiche presso ospedali ed ambulatori, il camice bianco è entrato quasi subito nella mia vita, tanto da diventarmi del tutto familiare e, quel che è positivo, amico. Ancora oggi, nutro verso i professionisti della medicina amicizia, gratitudine e, quel che conta, fiducia, in contrapposizione ai tanti pataccari sparatori di bufale che con le loro cretinate mettono a repentaglio la salute e la vita di tanti boccaloni.
In questo humus "clinico" non potevo non appassionarmi ai telefilm ambientati negli ospedali, che negli U.S.A. vengono chiamati medical dramas. Ed anche ai film e ai libri che trattano lo stesso argomento.

Da bambino giunsi a "sfiorare" il dottor Kildaire, il giovane medico protagonista dell'omonima serie televisiva interpretato da Richard Chamberlain. Vidi cioè le ultime puntate. Anni dopo, però, ne vidi molte in replica su una tv locale.
Poi ci fu la volta de I giovani medici, andati in onda sulla Rai.
La serie che mi fece letteralmente innamorare dei medical dramas fu Marcus Welby M.D., che vidi nella prima metà degli anni '70 del XX secolo sulla televisione della Svizzera Italiana. Grandi interpreti Robert Young e James Brolin.
Poi fu la volta, se ricordo bene su TeleMonteCarlo, di Medical Center, incentrato sulla figura del dottor Joe Gannon, interpretato da Chat Everett.
Negli anni '80 vidi poi Trauma Center e A cuore aperto, fra i cui attori vi era l'emergente Denzel Washington.
Fin qui, tutte produzioni statunitensi.

In Italia, fino agli anni '90, mi ricordo solo della serie Diagnosi, con Philippe Leroy e Vittorio Mezzogiorno, andata in onda nella stagione 1974-75.

Poi venne La dottoressa Giò, appunto negli anni '90, con Barbara D'Urso e Fabio Testi.
Seguita a qualche anno di distanza, da Medicina generale, Terapia d'urgenza e La scelta di Laura.

Gli anni '90 hanno visto, negli U.S.A. e poi in tutto il mondo, la messa in onda di quello che è già un cult, E.R. Medici in prima linea, sul cui set si sono via via avvicendati vari personaggi e, di conseguenza, vari attori.

Se, qualcuno più, qualcuno meno, tutte queste serie televisive hanno rispettato i criteri della scientificità e della razionalità, le due serie che recentemente hanno riscosso grande successo, Grey's Anatomy e Il dottor House, costituiscono un netto arretramento al riguardo: troppe situazioni decisamente insolite, "spettacolari", poco credibili dal punto di vista scientifico (si pensi, ad esempio, a pazienti operati che dopo due-tre giorni sono già belli pimpanti: dopo un intervento chirurgico di una certa importanza, una persona impiega parecchi giorni, se non settimane, a tornare alla forma di prima) e, soprattutto, troppi casi rari concentrati in così poco tempo e in un solo ospedale, come se un medico o un'équipe di medici si trovasse quasi ogni giorno a dover affrontare casi difficilissimi da risolvere. La realtà, per fortuna è molto meno drammatica.
Le prime serie di medical dramas cercavano di catturare l'emotività dei telespettatori puntando sul lato umano degli episodi; le ultime sembrano mirare alla spettacolarità, a scapito del realismo.

Un'ultima considerazione la merita il "motto" del dottor House: "Lei preferisce un medico che le tiene la mano mentre muore oppure un medico che la tratta male ma Le salva la vita?".
E' una domanda che non ha senso: il bravo medico deve saper fare entrambe le cose, essere gentile e premuroso e, se possibile, guarire i suoi pazienti.
Oltretutto, è provato che, se un medico riesce a instaurare un buon rapporto psicologico coi pazienti, ciò aumenta l'efficacia delle cure, è in sostanza anche un supporto terapeutico.

martedì 1 dicembre 2015

Le mie ore di Religione

Alle Elementari nei primi anni l'ora di Religione venne tenuta da alcuni seminaristi, poi da un sacerdote, don Carlo.
A proposito di quest'ultimo, ricordo un episodio divertente. In classe si era deciso, insieme alla maestra Angela Veneto, di fargli una piccola sorpresa: una recita della parabola del Buon Samaritano.
Assegnate le parti, il giorno prima che egli venisse a farci lezione di Religione facemmo una prova generale.
Edoardo doveva fare il bandito che aggredisce il viandante e Roberto il viandante aggredito. Fra quei miei due compagni di classe non corse mai buon sangue a scuola.
Sarà stato per quel motivo oppure perché Edoardo si lasciò prendere dalla foga, fatto sta che, iniziata la prova della recita, piombò letteralmente alle spalle di Roberto e gli rifilò un forte pugno in mezzo alle scapole. Roberto si accasciò a terra tutto e iniziò a lamentarsi dal dolore.
La maestra subito sgridò Edoardo dicendogli: "Ma che cosa ti è preso?! Non lo sai che nelle recite i pugni si danno per finta?!".
Edoardo, invece di mostrarsi pentito, si mise a ridere beffardamente, il che depone per la possibilità che avesse utilizzato sì ghiotta occasione per risolvere qualche conto in sospeso con Roberto.
Il quale per fortuna si riprese subito e si poté ricominciare la prova venne di nuovo, questa volta col pugno dato per finta, così come avvenne il giorno dopo alla presenza di don Carlo.
L'anno prima avevamo avuto come maestro Geremia Del Grosso e i suoi rapporti con don Carlo dimostravano come fra laici e cattolici si può collaborare senza alcuna frizione. Il maestro Del Grosso era un liberale d.o.c., dichiaratamente liberale e come tale non fece mai opera di indottrinamento laicista presso noi bambini, non lo sentimmo mai parlar male contro la religione e negli scambi di informazioni didattiche con don Carlo mostrò sempre la più ampia collaborazione con lui nel portare avanti anche la parte didattica relativa all'ora di Religione.

Alle Medie Inferiori ebbi due insegnanti di Religione decisamente anticonformisti: la prof.ssa Di Piero in Prima e in Seconda, e don Pino in Terza.
Come venni poi a sapere in seguito, la madre un po' bigotta di una ragazza di una sezione diversa dalla nostra fece addirittura cambiare scuola alla figliola perché scandalizzata dai metodi di insegnamento della prof.ssa Di Piero.
Fra le cose politically uncorrect che ci disse la prof.ssa Di Piero, vi era che non era vero quel che dice la Bibbia sulla Creazione e cioè che l'uomo non l'ha creato Dio ma discende dalla scimmia. Decisamente darwinista e decisamente anticreazionista.
In un'altra occasione si aprì una discussione sulla Salvezza. La prof.ssa Di Piero ci chiese se un selvaggio che non avesse mai conosciuto alcun missionario e quindi nemmeno il messaggio di Cristo potesse andare in Paradiso. Tutti fummo concordi nel ritenere che potesse andarci, perché non era colpa di quel selvaggio se non gli era pervenuta la Buona Novella.
A questo punto, la docente ci chiese: "E un ateo convinto, che durante tutta la sua vita fa del bene agli altri, può andare in Paradiso?".
Un mio compagno di classe, peraltro uno dei più aperti intellettualmente perché di famiglia liberaleggiante, rispose di no, perché l'ateo non ha fede religiosa.
Io invece risposi di sì, perché quello che conta non è avere fede in Dio ma vivere come cristiani.
La prof.ssa Di Piero diede ragione a me.
(Ovviamente, non cito questo perché ella sostenne il mio parere ma solo per dimostrare il suo anticonformismo.)
Parecchi anni dopo, lessi che quella mia argomentazione era stata, sia pure con tutt'altro spessore teologico, sostenuta anche da Papa Wojtyla e allora mi resi conto che proprio eretica non doveva essere.

Don Pino era allora un giovane sacerdote. Ci parlava anche dei problemi più scottanti della Chiesa dell'epoca, come la sospensione a divinis comminata a Dom Franzoni.
Fra le altre cose, ci diede una fulgida lezione di laicità. Si avvicinava il referendum abrogativo del divorzio e, quando uno di noi gli chiese cosa ne pensava, rispose: "Io voterò NO all'abrogazione del divorzio. Come cattolico e come sacerdote sono contrario ad esso ma siccome in Italia ci sono anche non cattolici, non ho il diritto di impedire loro di fare una scelta che per essi è legittima".
Anche all'ora di Religione don Pino era contrario: ci disse che secondo lui andava sostituita con un'ora di Storia delle Religioni, per consentire agli studenti di conoscere tutte le religioni.
A questo punto è doverosa una postilla. Appena ho avuto la connessione internet a disposizione, mi sono messo a cercare su Google se ci fossero notizie relative a persone che avevo perso di vista da anni. Avviai la ricerca anche col nome di don Pino e mi imbattei nel link di un sito di memoria virtuale di defunti. Andai allora a cercare sul sito dell'agenzia cimiteriale del Comune dove risiedo e trovai lo stesso nominativo nell'elenco dei defunti. Il cognome era quello, il nome pure (anche se non era Giuseppe, perché, come ci aveva raccontato durante la sua prima lezione, i suoi genitori gliene avevano imposto un altro ma già loro avevano preso a chiamarlo Giuseppe, Pino), l'anno di nascita era quello che ci aveva detto lui, sempre durante quella sua prima lezione. Ovviamente, spero ancora che si tratti di un caso di omonimia ma ne dubito. Vidi la data della morte: è morto a 54 anni d'età. Poi notai che allo stato civile risultava vedovo. Giù vedovo a 54 anni d'età. Evidentemente, per essersi sposato doveva essere tornato allo stato laicale. Forse, chissà?, le idee che aveva nella metà degli anni '70 del XX secolo hanno finito col fargli capire che erano incompatibili col suo rimanere sacerdote; o forse vi sono state altre ragioni, che io non so e che non saprò mai.

Alle Medie Superiori l'ora di Religione fu, come dire?, degna di questo nome solo in Prima, con don Michele.
Durante la sua prima lezione, don Michele fece compilare ad ognuno di noi un elenco di argomenti da trattare, poi ne fece una sintesi, che divenne il programma di Religione di quell'anno scolastico.
Era preparato e disponibile agli approfondimenti, don Michele. Qualche volta svalvolava un po', raccontando di cose alquanto poco credibili, che più che nella sfera religiosa rientravano in quella del paranormale.
Come quella dei guaritori filippini, che con le dita avrebbero avuto il potere di separare le varie cellule e quindi di operare senza bisturi e senza ferite, "fenomeno" che poi Piero Angela e tanti altri avrebbero poi dimostrato essere un colossale imbroglio.
O come quella di quel chirurgo brasiliano defunto che ogni tanto sarebbe tornato dall'Aldilà per operare pazienti giudicati inguaribili dai medici viventi.
Sull'Aldilà, poi, fece la sparata più grossa: una volta ci disse che, se si azionava un registratore staccando il microfono, si potevano registrare e quindi sentire le voci dei trapassati. Citò al riguardo un articolo in cui si sosteneva che, fra gli altri, era stata registrata anche la voce di John Fitgerald Kennedy. Peccato solo che J.F.K. non avesse rivelato chi l'aveva ucciso a Dallas, né gli esecutori né i mandanti.
Lo ammetto: anch'io, come altri miei compagni di classe, nelle sere seguenti provai a registrare col microfono staccato ma, dai nastri ascoltati, non sentii alcuna voce dall'Aldilà.
Quando don Michele esagerava un po', ridevamo sotto i baffi ma non ci furono plateali prese in giro. Solo una volta, quando sostenne che un'aula come la nostra poteva contenere miliardi di anime, una nostra compagna di classe, la più peperina, alzò la mano e gli domandò: "Scusi, ma Lei non si vergogna a dire queste cretinate?". E alla fine di quella lezione prese a canzonarlo bonariamente dicendogli: "Guardi lassù, c'è lo spiritello sulla nuvoletta! C'è lo spiritello sulla nuvoletta!".
Ma don Michele non subì mai alcuna contestazione laicista né fu vittima di intolleranza. In quegli anni, dove pure chi avesse voluto poteva ottenere l'esonero dalla frequenza dell'ora di Religione, non lo chiese nessuno, nemmeno quei miei compagni di classe atei e di estrema sinistra. La si frequentava senza problemi, senza la frenesia di rivendicare a sproposito una laicità delle Istituzioni che nulla aveva ed ha a che fare con un'ora di insegnamento che è, appunto, insegnamento e non catechismo.
Persino il fatto che sia all'inizio che alla fine di ogni ora don Michele ci faceva alzare in piedi e recitare in silenzio una preghiera sollevò obiezioni da parte dei duri e puri. Certo, già allora era una prassi alquanto insolita, sebbene a rigor di logica perfettamente calzante ad un'ora di insegnamento religioso, ma nessuno la contestò né la disturbò mai: chi voleva pregava, chi non voleva se ne stava un minuto in silenzio, al limite sghignazzando un po', ma non dileggiava né don Michele né i compagni di classe che stavano cambiando.

Dalla Seconda Superiore in poi, l'ora di Religione divenne un contenitore vuoto da riempire: i docenti non insegnavano ma si limitavano a chiacchierare con noi del più e del meno, a scambiare con noi battute, barzellette e facezie varie.
Ciò maturò in me e nel mio compagno di classe Antonio un progetto di vita professionale alquanto ambizioso: diventare professori di Religione!
Sarebbe stata davvero una pacchia ricevere uno stipendio solo per andare nelle aule a fare quattro ciance.
Chiedemmo pure informazioni sui corsi da seguire per poter coronare quel nostro sogno. E ne venimmo talmente ossessionati che fra di noi iniziammo a chiamarci "collega".
Poi, per nostra fortuna e per fortuna della Patria, lasciammo cadere quella "simoniaca" aspirazione e le nostre rispettive vite professionali si indirizzarono verso sbocchi decisamente più produttivi e utili alla società. Almeno per quel che riguarda Antonio.
Se non altro, dalla Seconda in poi avemmo modo di conoscere, fra i docenti di Religione, delle persone veramente interessanti.
In Seconda e in Terza l'ora di Religione venne tenuto dal simpaticissimo prof. Podio: battute al fulmicotone, racconti dei suoi anni di scuola, esilaranti, che dico?, esilarantissime gags, questo era il suo repertorio.
Ed era anche sincero. Una volta ci declamò: "Quando morirò, al mio funerale magari diranno: ERA SEMPRE DEDITO AL LAVORO. Vi autorizzo a dire: NON E' VERO! VENIVA A LAVORARE SOLO PER IL VENTISETTE".
(Ventisette del mese: giorno di paga.)
Una volta fece una gag per sintetizzare i comportamenti maschili e femminili nel corteggiamento fra ragazzi. Alla fine eravamo tutti piegati in due dalle risate.
Fine esperto di psicologia, era anche dotato di grande ironia e, quel che è indice degli spiriti umanamente superiori, di altrettanto schietta autoironia.
Il prof. Podio scherzava e stava agli scherzi.
Io mi misi a scrivere poesiole satiriche su di lui (come su altri professori) e lui le lesse e ci rise di gusto.
Una volta decidemmo di fargli uno scherzo: ignorarlo completamente quando sarebbe entrato in classe, come se non ci fosse. Entrò, salutò, nessuno gli rispose. E così via, per qualche minuto. Naturalmente, capì subito che si trattava di uno scherzo e stette al gioco, arrivando addirittura a fingere di piagnucolare affinché gli dessimo retta. Il clou fu quando fece l'appello: nessuno rispose né dicendo: "Presente!" o "Sì", né alzando la mano. Solo io risposi ma alzando un piede. E il prof. Podio trattenne a stento una risata.
Il massimo della soddisfazione per me, Antonio e Richetto quando, un sabato, era in programma una manifestazione politica. Tutti i nostri compagni di classe disertarono la scuola, o perché effettivamente andarono a quell'happening o perché "marinarono"le lezioni. Noi tre invece a scuola ci andammo. Il motivo? C'era l'ora di Religione col prof. Podio!
E, poiché non c'erano nemmeno altri docenti e le altre classi in cui il prof. Podio doveva recarsi erano deserte, lo avemmo per noi durante tutta la mattina.
Fra una chiacchiera e l'altra, ne approfittammo per lunghe passeggiate lungo i corridoi dell'I.T.C., visto eravamo i soli ospiti della scuola.
Di quella fulgida mattina ricordo un aneddoto in particolare, vertente sulla visita del prof. Podio ad una chiesa. Ci disse che per provare l'acustica dell'ambiente si era messo a battere ripetutamente le mani. E meno male che nell'edificio di culto in quel momento non c'era gente! Come ci disse il lunedì successivo Antonio: "Pensate: passano dei custodi o dei preti e vedono uno che batte le mani nella chiesa vuota; chiamano subito un'ambulanza".

Il docente di Religione di Quarta e Quinta era invece meno brioso del prof. Podio, quantunque gentile e colloquiale.
Durante la sua prima lezione, si fece un numero niente male. Disse: "Vedo che in questa classe la maggioranza è composta da ragazze, così belle e sviluppate". E nel corso della sua orazione ogni volta che accennò alle nostre compagne di classe ricorse nuovamente agli aggettivi "belle e sviluppate", sempre seguiti da una risatina da mandrillo.
Un'altra volta si era messo a chiacchierare con una nostra compagna di classe. Giorgio mi disse a bassa voce: "Osservalo bene. La sta guardando con lo sguardo di chi si sta chiedendo: CHISSA' SE QUESTA RAGAZZA CI STA?".
Una mattina si mise a declamare alcune poesie scritte da lui. Declamare, non leggere: con tanto di toni alzati per i versi più eclatanti. Io mi trovavo in fondo all'aula e non afferravo il contenuto di quei versi, recitati davanti a un uditorio composto da quattro o cinque nostre compagne di classe. A un certo punto alzò sensibilmente la voce per declamare un verso a cui evidentemente teneva e subito dopo Antonio, che si trovava dietro di lui, si mise un indice accanto a una tempia come per dire: "Questo è pazzo!".
Quel prof. si fece notare per la sua creatività nel gestire le sue assenze da scuola: ogni volta che non poteva venire, anziché mettersi in malattia o prendere un permesso, mandava a suo posto uno dei suoi fratelli. Diciamolo: un pioniere di quei contratti di lavoro a base "famigliare" che da qualche anno sono in vigore in alcuni Paesi dell'Europa del Nord.
Verso la fine della Quinta, si dimise, perché, laureato in Economia e Commercio (titolo di studio molto attinente alla docenza in Religione ...), aveva vinto un concorso per entrare come impiegato in un noto istituto di credito.
Al suo posto venne un giovane studente universitario, molto simpatico e alla mano.
Commentando il cambio di docente di Religione, la nostra prof. di Inglese, Emma Zavaroni, cui l'ironia non mancava di sicuro, ci disse: "Bene, è arrivato il sostituto del prof. ***. La Presidenza dell'Istituto ha diffidato la Curia dal mandare un altro dei fratelli ***".