domenica 22 novembre 2015

Per una versione umoristica de I Promessi Sposi: prolegomeni del progetto

Il titolo di questo post, ricalcando i titoli di articoli su riviste scientifiche nei quali gli autori spiegano i perché e i percome di un percorso di ricerca che si accingono a intraprendere, è volutamente autoironico nella sua ampollosità.
La satira utilizza anche questo strumento: ingrandire ed enfatizzare l'importanza di una cosa in modo talmente accentuato da far capire che in realtà si vuole ironizzare su quella cosa.

I promessi sposi di Alessandro Manzoni entrarono per la prima volta nella mia vita con lo sceneggiato televisivo della seconda metà degli anni '60 del XX secolo girato da Sandro Bolchi e interpretato da fior di attori, che rividi, con ben maggiore consapevolezza, nel 1974.
Era estate e, nell'anno scolastico appena conclusosi, avevo fatto il mio primo incontro col capolavoro manzoniano sotto forma di alcuni brani tratti da esso che facevano parte del programma di Italiano di Terza Media.
Ricordo un'interrogazione di Antologia, che mi andò particolarmente bene perché seppi spiegare la conversione dell'Innominato in un modo che piacque alla prof.ssa Aggeri. In realtà, mi ero ricordato tutti i punti da lei spiegati nelle lezioni precedenti e la prof.ssa Aggeri gradiva molto quanto, alle interrogazioni, gli studenti si rifacevano a quello che ella aveva detto nel corso delle sue lezioni.

Feci un'esperienza più approfondita con I promessi sposi nei due anni successivi, cioè in Prima e Seconda Superiore. Non sorprenda il fatto che nel biennio si studiasse un capolavoro della letteratura italiana del XIX secolo, mentre nel triennio successivo il programma di Lettere era incentrato sulla Comoedia di Dante. Non vi era alcunché di cronologico in quella scelta ma solo il retaggio di programmi scolastici ormai datati che includevano I promessi sposi come esempio di lingua italiana e la Divina Commedia come esempio di poesia. Ovvio che l'italiano usato dal Manzoni fosse da tempo superato ma se non altro era un'occasione per conoscerne l'opera più importante e i docenti intendevano il loro insegnamento proprio in quella direzione.
La prof.ssa Bertola ci fece tenere un quaderno in cui, per ogni capitolo letto, dovevamo annotare il riassunto, le frasi più importanti, le ironie manzoniane che vi avevamo scorto e le nostre considerazioni.
Proprio quel quaderno fu la causa delle mie prime nottate passate sui libri. A pochi giorni dalla fine della Prima, la prof.ssa Bertola ci disse: "Bene, dopo il ponte del Primo Maggio voglio vedere i vostri quaderni su I promessi sposi". Anch'io, come quasi tutti i miei compagni di classe, col quaderno mi ero fermato ai primi capitoli del 18 che facevano parte del programma di Prima. Nei pochi giorni di quel ponte, lessi, riassunsi e "appuntai" una dozzina di capitoli, studiando indefessamente dalla mattina presto alla sera inoltrata. Ne valse però la pena: la prof.ssa Bertola annotò un "Bravissimo" in calce ai miei appunti sul diciottesimo capitolo.
Pleonastico aggiungere, almeno per chi mi conosce, che la parte a me più gradita di quel lavoro fu la ricerca delle ironie manzoniane, da don Abbondio che se ne tornava "bel bello" dalla sua passeggiata, ai bravi che non erano"morti nemmeno per quello" (l'ennesima grida emanata contro di loro), ai soffi del conte zio.

Proprio in quel biennio ricevetti due input, che poi, combinati insieme, mi fornirono l'ispirazione per quello che scrissi parecchi anni dopo.
Il primo fu un suggerimento che mi diede la prof.ssa Bertola: sapendo che a me piacevano molto le cose che fanno ridere, mi consigliò di leggere una parodia del capolavoro manzoniano, I promessi sposi made in U.S.A. Non ebbi modo di seguire quel suggerimento ma intanto lo spunto mi era stato dato e lo avevo immagazzinato nel mio inconscio.
Il secondo input fu una specie di gioco che alcune mie compagne di classe fecero una mattina in attesa di un'interrogazione su I promessi sposi: assegnarono ad ognuno di noi il personaggio che più ci assomigliava, per pregi e, soprattutto, per difetti. A distanza di tanti anni, me ne ricordo solo due: io divenni Fra' Cristoforo, mentre Richetto venne ben più beffardamente identificato come don Abbondio. Ho un vago sospetto su chi potesse essere etichettato come Renzo e chi come Lucia (erano i nostri primi due compagni di classe a "filare" insieme) e su chi venisse considerato il nostro don Rodrigo ma, in assenza di evidenze mnemoniche ormai svanite, preferisco prudentemente tacere.

Passarono gli anni. Un giorno, nella software house dove lavoravo il discorso cadde su I promessi sposi e qualcuno iniziò lo stesso giochetto di attribuire i ruoli dei vari personaggi ai vari colleghi e, soprattutto, ehm, dirigenti.
Fin dai primi mesi della mia assunzione avevo preso l'abitudine di scrivere simpatiche cosette o su argomenti di satira in generale o su situazioni che riguardavano fatti e persone dell'azienda di cui ero dipendente.
Ricordo una rima che feci dopo la nomina a vicepresidente di uno laureato in ingegneria: "Qui si scavan le miniere / con a capo l'ingegnere". Lo giuro: quando la scrissi, non sapevo (me lo dissero dopo) che era specializzato in ingegneria mineraria.
Tornando a I promessi sposi, venni folgorato dal giochino personaggi-persone reali e iniziai a scrivere una versione del capolavoro manzoniano tutta tagliata su misura per l'azienda dove lavoravo, non solo nell'assegnare i vari personaggi a questo e a quel collega o dirigente ma anche nell'immettervi vicende e, perché no?, gossip attinenti alla realtà di quella software house.
Perfino la peste, che pure personaggio non è, divenne in quello scritto la peste sgobbonica (anziché bubbonica), forma di malattia mortale che colpiva i dipendenti facendoli lavorare fino a morirne.
Quella mia versione venne da me intitolata I promessi sposi informatici.
Non sta a me giudicare le qualità letterarie di quello scritto. Mi fece però piacere quando alcuni colleghi, a cui l'avevo dato stampato, mi dissero di averlo portato a casa, di averne iniziato la lettura e di esserne stati talmente presi da aver fatto le ore piccole per finire di leggerlo, spanciandosi dalle risate. Certo, alcune situazioni possono far ridere solo chi le conosce da diretto spettatore ma per un autore umoristico sentirsi dire da un lettore che ha riso dall'inizio alla fine è il più grande complimento che possa ricevere.

Qualche anno dopo, rifeci la versione umoristica adattandola a persone e cose dell'associazione culturale Il cerchio aperto, di cui facevo parte. E mietendo anche lì parecchie risate.
Forse fu un po' meno perfida rispetto a quella "lavorativa", perché fra gli amici di allora non ebbi modo di riscontrare comportamenti cattivi o meschini. Ma un po' di sale ce lo misi anche lì.

Ora sento che potrei riprendere il progetto per la terza volta, anzi, mi sto già preparando predisponendo un testo di base da cui partire. Sono solo indeciso se riscrivere, ampliandolo, il testo de I promessi sposi informatici oppure se scrivere un romanzo umoristico ex novo, senza alcun riferimento a quella versione. Come avrebbe detto lo stesso Manzoni: "Ai posteri l'ardua sentenza".

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