lunedì 24 aprile 2017

Il Memorial Fidippide del 2078

      Anche in quel 2078 a New Run, nell'Arizona, fervevano gli allenamenti per l'annuale Memorial Fidippide, maratona che ogni anno assegnava il titolo di miglior corridore dello Stato.
      Favoriti per la vittoria erano John Speed, campione uscente e detentore del record, e Jack Peasum detto l'Uncorrect, che da anni arrivava sempre secondo.
      Un giorno gli atleti si allenarono in mezzo al deserto, per allenarsi alle condizioni estreme di caldo e siccità.
      Jack Peasum stava correndo insieme ad altri due compagni di squadra sotto un sole che spaccava le pietre e in mezzo ad una sconfinata ed arroventata distesa di pietre e sabbia.
      Essendo più veloce di loro, dopo pochi minuti iniziò a distanziarli.
      "Rallenta, Jack! - Gli disse uno dei suoi compagni di squadra. - E' solo un allenamento. Anche tu non devi far altro che rispettare la tabella di marcia dell'allenatore."
      Ma Peasum, che voleva sempre essere il primo in ogni situazione, fece di no con un cenno della mano, senza nemmeno voltarsi un attimo indietro per rispondere a voce.
      La distanza a poco a poco aumentò e, prima di perderlo di vista, l'altro compagno di squadra gli disse: "Abbiamo sete, le nostre borracce sono ormai vuote. Tu invece ne hai ancora due piene. Daccene una: a te l'altra basta e avanza".
      Peasum fece di nuovo cenno di no con una mano, senza degnarli di uno sguardo, e addirittura accelerò il ritmo, distanziandoli definitivamente.
      Dopo mezz'ora, i due vennero raggiunti da John Speed, il campione di una delle squadre avversarie che era partito quaranta minuti dopo di loro.
      Mentre li stava superando, uno dei due corridori gli disse: "Siamo avversari, è vero,  ma potresti lo stesso darci una delle tue borracce, visto che noi ne siamo rimasti senza?".
      "Certamente", - rispose Speed, porgendogli una delle sue borracce.
      Poi si adeguò al loro ritmo di corsa e insieme arrivarono al punto dove i loro allenatori li stavano aspettando per riportarli su dei pulmini ai rispettivi centri di allenamento.
      Arrivarono tutti gli atleti delle varie società sportive, tranne Jack Peasum.
      Allungando il passo si era perso nel deserto. Le  squadre di ricerca lo ritrovarono sano e salvo ma impaurito, stremato e disidratato.

      Passarono i giorni, passarono le settimane. Peasum si rimise in poco tempo e riprese ad allenarsi. Così come avevano continuato a fare John Speed e gli altri atleti.
      Venne finalmente la mattina della gara di corsa. Mattina presto, perché già verso le 10 antimeridiane il clima era troppo caldo per consentire attività sportive all'aperto.
      E così, alle 7 e 30 duecento e passa atleti erano pronti ai nastri di partenza, carichi come molle.
      Pronti, via! Lo starter, sparando con la sua pistola caricata a salve, diede inizio alla corsa di oltre 42 km.
      I primi chilometri furono di studio, con qualche atleta che, sapendo benissimo di non poter vincere, si metteva alla testa della corsa per qualche secondo per avere la soddisfazione di una piccola ribalta. Ma già in quel tratto iniziale un po' di partecipanti iniziò a perdere contatto dal gruppone di testa.
      Verso il 15 km scattò Mark Effy Mer, uno solito a fare la lepre. Allungò il passo, come se il traguardo fosse a poche centinaia di metri.
      Conoscendone l'ardimentosa quanto illusoria tattica di gara, i migliori, fra cui John Speed e Jack Peasum, lo lasciarono andare, badando a tenere il loro ritmo, sostenuto ma anche non eccessivamente spedito per poter arrivare agli ultimi chilometri con una buona tose di fiato nei polmoni e senza acido lattico nelle ginocchia.
      Intanto, il gruppo di testa si assottigliava sempre di più: fra chi non riusciva più a reggere l'andatura dei più forti, qualcuno si fermava lungo il percorso, ritirandosi e salendo sulle auto dei rispettivi gruppi sportivi, mentre altri rallentavano e procedevano col loro passo, tenendo come punto d'onore l'imperativo categorico di arrivare comunque al traguardo.
      Verso il 25.mo chilometro, la solitaria sgroppata di Effy Mer, che era riuscito ad accumulare 90 secondi di vantaggio, si esaurì in poco tempo: aveva ormai finito la benzina. Iniziò ripetutamente a voltarsi indietro, segno che il peso della fatica lo aveva reso insicuro.
      Dopo un altro paio di chilometri, venne raggiunto dai migliori, ormai ridottisi a una decina di corridori. Nonostante si sforzasse di correre, venne superato come se fosse fermo e distanziato in pochi secondi. Subito dopo si ritirò. Aveva comunque riscosso la sua piccola parte di notorietà e di inquadrature delle telecamere.
      Dei dieci corridori che ora guidavano la competizione, tre erano compagni di squadra di Speed e due di Peasum. Il primo aveva promesso a tutta la squadra una fetta dei suoi premi in caso di vittoria e i tre che erano ancora con lui si alternavano alla guida del plotone di testa per tenera alta l'andatura per impedire fughe che, in quel momento della gara, avrebbero potuto rivelarsi decisive. Peasum l'Uncorrect, invece, non aveva promesso alcunché alla squadra di cui faceva parte e i due compagni riuscivano ancora a tenere il suo passo non gli stavano dando una mano. Ma non se ne preoccupava; la sua tattica era semplice: mettersi alle calcagna di John Speed e seguirlo come un'ombra: tanto, prima o poi l'iniziativa sarebbe partita da quest'ultimo e lui non avrebbe dovuto far altro che accodarsi  e bruciarlo sul traguardo.
      Tattica indovinata ma obiettivo mancato. Speed scattò sì, al 36.mo km, e Peasum gli si appiccicò come un francobollo. Ma dopo 800 metri quest'ultimo non riuscì a reggere il passo di John Speed e venne quasi subito staccato.
      Sembrava fatta per quest'ultimo, mentre Jack Peasum stava arrancando rabbiosamente: dal suo sguardo non traspariva però la sana cattiveria agonistica, che porta un atleta a non mollare mai, ma il rancore e quasi l'odio personale verso chi lo stava per l'ennesima volta distanziando.
      Ci fu però un imprevisto, un autentico colpo di scena. Appena superata la segnalazione del 38.mo km, Speed non fece caso a una macchia d'olio lasciata sul percorso da un camion che era passato durante la notte e scivolò, cadendo rovinosamente sull'asfalto.
      Rimase bloccato al suolo, sia per il dolore delle escoriazioni alle gambe e alle braccia causate dal contatto con l'asfalto, sia per la paura di essersi fatto qualcosa di più grave, tipo una distorsione.
      Speed si mise a fare qualche respiro lungo per calmarsi, poi si toccò le gambe e provò a muoverle, sia pure da seduto.
      In quel momento, da dietro arrivò Peasum che si era già reso conto dell'incidente capitato al suo avversario; con un sorriso di perfida soddisfazione, superò John Speed, aumentando l'andatura per schernirlo e, cosa molto brutta, facendogli un gesto estremamente volgare.
      Speed lo ignorò, concentrandosi sulle sue gambe. Si rialzò e fece qualche passo camminando, per vedere se avvertiva dolore. Tutto a posto: nessuna sofferenza fisica. Accennò a correre, sia pure non in modo spedito, e continuò a non avvertire dolore. Le escoriazioni riportate avevano intanto smesso di fargli male:la scarica di adrenalina che la caduta gli aveva provocato cominciava già a fare effetto.
      Speed riprese a correre, riuscendo a poco a poco ad aumentare l'andatura. Non si illudeva di poter raggiungere Peasum, che sembrava avere ormai preso il volo, ma voleva comunque concludere la corsa a testa alta, con un onorevole secondo posto.
      Il risultato della corsa sembrava già scritto ma ...
      Jack Peasum, esaltato dall'inaspettato colpo di fortuna, stava affrontando l'ultimo tratto di corsa quasi senza accorgersi del nastro d'asfalto che si presentava ai suoi piedi. I suoi pensieri erano tutti proiettati all'arrivo, al taglio del traguardo, ai flash dei fotografi e alle inquadrature delle telecamere, alle interviste (nelle quali si sarebbe subito premurato di dire che avrebbe vinto lo stesso, anche senza la caduta di Speed) e, soprattutto, alla cerimonia della premiazione, alla medaglia d'oro e alla coppa, e poi al premio in denaro, tanto, e ai premi degli sponsor, ancora più sostanziosi: soldi che, naturalmente, intendeva tenere tutti per sé.
      Così preso da tutti questi scenari di gloria, Peasum non vide nemmeno, al 40.mo km, l'ultimo punto di rifornimento, da cui prendere o una bottiglietta d'acqua da bere o una spugna bagnata con cui togliersi un po' della calura del sole ormai alto nel cielo. Pensava solo alla fama e al denaro.
      Quella distrazione gli fu, agonisticamente parlando, fatale. A meno di un chilometro dal traguardo, iniziò ad accusare la fatica, il caldo e la sete. Di colpo, come accade spesso dopo una corsa di oltre 42 km.
      Intanto, John Speed, che il rifornimento aveva fatto, stava rimontando su di lui, lentamente sì ma costantemente.
      Peasum, sempre più affannato e affaticato, si accorse di essere spacciato quando, nell'affrontare la curva che immetteva nello stadio sulla cui pista era stato posto il traguardo, vide Speed a pochi metri da lui.
      I due entrarono praticamente appaiati nello stadio, dopo di che John Speed con un deciso sprint finale staccò subito il suo avversario e con le ali ai piedi andò a tagliare il nastro dell'arrivo e a riscuotere gli scroscianti applausi di una strameritata vittoria.

      La rabbia e la stizza di Jack Peasum detto l'Uncorrect erano tali che non si presentò nemmeno alla cerimonia di premiazione, durante la quale tutti gli spettatori inneggiarono alla bravura di Speed.

martedì 18 aprile 2017

I miei scherzi ischitani

      Eccomi pronto a raccontare gli scherzi che feci agli amici con cui trascorsi tre vacanze ischitane, dal 1994 al 1996.
     Il primo anno fui limitato nei miei movimenti da una rovinosa caduta nei pressi della Chiesa del Soccorso (che io ribattezzai Chiesa del Pronto Soccorso), a causa della quale mi procurai la distorsione al polso sinistro con immediata steccatura del medesimo.
     Anzi, il primo scherzo della vacanza non lo feci, lo subii. Fu Maury, una sera, a farmi il sacco. Dicesi "sacco" quello scherzo tipicamente da caserma in virtù del quale si toglie dal letto una delle due lenzuola e si piega e blocca la rimanente in modo che sembrino due: la vittima, tratta in inganno da sì adattamento del lenzuolo, prova e riprova a infilarsi in mezzo ma non ci riesce. E così accadde anche a me: entrai nella camera a sei letti in cui io, Maury e altri amici eravamo ospitati e provai una buona mezz'ora a infilarmi, nel mio letto, in quelle che credevo essere due lenzuola. Alla fine, mentre Maury, comodamente già sistematosi nel suo letto, già rideva sotto i baffi, esclamai spazientito: "Ma che cazzo hanno fatto?!".
      Subito dopo l'amicone mi avvisò dello scherzo, mi informò della sua natura e mi restituì il lenzuolo sottratto e debitamente nascosto, aiutandomi a risistemare il letto.
      Maury fu altresì l'ideatore e il suggeritore dello scherzo che quel primo anno mi vide come esecutore materiale.
      Ultima sera di vacanza. Dopo cena, si decise di fare il classico bagno di mezzanotte, nella piscina con acqua termale dell'agriturismo dove ci trovavamo. Io non potevo farlo, causa polso steccato, e Maury mi propose: "Mentre noi facciamo il bagno, tu nascondi gli asciugamani e gli accappatoi degli altri, così quando escono sai che ridere nel vederli tutti infreddoliti". Potevo io rifiutare sì allettante prospettiva? Certo che no!
      E così, mentre gli altri si sollazzavano in acqua, io quatto quatto nascosi ogni accappatoio e ogni asciugamano, COMPRESO PERO' ANCHE QUELLO DI MAURY (eh, eh, eh!), dietro la siepe che circondava la piscina.
     Quando, ad uno ad uno, i bagnanti di mezzanotte uscirono dalla vasca, fu uno spettacolo favoloso vederli stupefatti per la scomparsa di sì provvidenziali manufatti tessili e subito dopo osservarli mettersi a battere i denti per il freddo e a strofinarsi energicamente braccia, gambe e addome per avere un minimo di riscaldamento corporeo.
      Già, perché quello che frega del bagno di mezzanotte non è la temperatura dell'acqua (quella ambiente è ancora calda del sole estivo da poco tramontato, non parliamo poi di quella termale, che era per l'appunto il nostro caso) ma il contrasto fra l'acqua ancora calda e l'aria fresca della notte.
      Solo Maury, da vero macho, non sembrava patire i simpatici effetti del calo di temperatura fra acqua e aria. Forse perché un po' se lo aspettava che non l'avrei risparmiato e non aveva patito l'effetto sorpresa.
      Rimessisi dallo shock termico in modo sufficiente da potersi muovere con riacquistata disinvoltura, i nostri amici si misero mettersi alla ricerca dei loro asciugamani e accappatoi. Che del resto non impiegarono molto a ritrovare.

     La seconda vacanza a Ischia, quella del 1995, fu quella più bella. Sia perché c'era Uccio, che fu sempre il collante della nostra compagnia e il catalizzatore di buonumore, risate e scherzi. Sia perché, badando bene a tenermi alla larga dalla Chiesa del Soccorso, non mi infortunai e, nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche, mi scatenai in vari divertimenti.
      Per la verità, all'inizio della vacanza Maury, che l'anno precedente mi aveva suggerito lo scherzo di nascondere asciugamani e accappatoi durante il bagno di mezzanotte, questa volta me ne propose uno ancora più bastardo. Mi disse cioè: "Mettiamoci d'accordo: io mi metto a parlare con qualche nostra amica per distrarla, tu arrivi da dietro, le slacci il top del costume da bagno e glielo porti via". Ma mi rifiutai categoricamente di fare una cosa del genere: non faccio scherzi da frustrato sessuale.

      Lo scherzo ricorrente che feci, e che mi guardai bene dal comunicarlo agli amici (quando, mesi dopo, lo confidai a Maury, questi ci rimase male assai), fu di fare pipì mentre facevo il bagno nella piscina con acqua termale. Sempre mesi dopo, raccontai lo scherzo al mio collega Luciano e questi mi disse: "Non dovevi pisciare in piscina, ci dovevi cagare dentro". Azione che sarebbe stata del tutto inutile, perché, facendovi il bagno i miei amici, di stronzi che galleggiavano sull'acqua ce n'era più che a sufficienza.

      Col secondo scherzo mi presi la rivincita sul sacco che Maury mi aveva fatto l'anno prima. Una sera, mentre Maury e gli altri piroettavano sulla terrazza dell'agriturismo al ritmo delle danze popolari, mi fiondai nella camera a noi assegnata portandomi dietro una bottiglietta d'acqua e ne versai il contenuto sul letto di Maury, AD ALTEZZA INGUINALE: in modo che, progettai beffardamente, il giorno dopo i ragazzi che curavano la pulizia delle camere, vedendo le lenzuola bagnate IN QUELLA ZONA, pensassero che Maury avesse fatto la pipì a letto. Alla veneranda età di quasi 36 anni.
     Lo scherzo riuscì a metà, nel senso che il disagio glielo procurò ma la figuraccia del piscione non la fece, perché, quando scoprì la macchia imbarazzante, Maury tolse le lenzuola andandole a stendere fuori dalla camera e quella notte dormì sul nudo materasso.

      Durante le cene all'aperto nell'agriturismo che ci ospitava, presi di mira Uccio.
      La cucina di Vito era in buona parte a base di limone, le cui scorze abbondavano sulla tavola al termine del desinare. Io, allora, ero solito prenderne una, andare di soppiatto alle spalle di Uccio, che era ancora seduto, tirargli all'indietro la maglia e far cadere la scorza di limone fra le spalle di Ucico e la sua maglia.
     Poiché dopo un paio di giorni, il giochino rischiava di diventare monotono, a patire dal terzo introdussi una piccola aggiunta: dopo che la scorza gli era scivolata lungo la schiena, ponevo una mano sulla maglia di Uccio e gli facevo un energico massaggio onde spiaccicargli ben bene la scorza sulla schiena.

      Naturalmente, non mi feci mancare nemmeno qualche puntatina sul classico. E dire classico a proposito di scherzi in una località marina significa dire gavettone.
      Secchi di plastica a bordo della piscina ce n'erano a disposizione, così come gli amici che prendevano il sole a bordo di essa e che, di conseguenza, erano ottimi bersagli.
      La condizione per la buona riuscita di un gavettone è calcolare bene la quantità di acqua da mettere nel secchio: troppo poca, impedisce al bersaglio di essere adeguatamente innaffiato; troppa, invece, fa correre il rischio di non raggiungere la vittima designata.
      Attinta ogni volta la quantità giusta di acqua da un rubinetto poco distante dalla piscina, mi davo da fare per colpire.
      Se l'amico o l'amica era sveglia e vigile, prendendo le vie larghe mi posizionavo alle sue spalle e, oplà!, lanciavo l'acqua che gli pioveva addosso senza che egli o ella potessero accorgersene.
      Se invece vedevo il bersaglio addormentato o assorto nei suoi pensieri talmente tanto da non vedere davanti a sé oppure intento a leggere, allora preferivo l'attacco frontale: tanto, non me ne importava un fico secco di essere identificato come l'autore del gavettone. Bastava posizionarsi un due-tre metri di fronte al bersaglio ed effettuare il lancio della tumida massa.
      Il gavettone frontale è decisamente il migliore, come dinamica e come capacità di coprire completamente d'acqua la vittima. Inoltre, ha maggiore visibilità e può attirare di più l'attenzione dei presenti, incrementandone l'effetto goliardico.
      Encomiabile e commovente fu la reazione di Marco, il quale, quando sollevando lo sguardo dal libro che stava leggendo si accorse che stavo per tirare il gavettone, gridò: "I libri!", e fece scudo col suo corpo ai volumi che si era portato sulla sedia sdraio. Eroe con la "e" maiuscola: non temette neppure un secondo di esporsi alla secchiata e il suo primo pensiero fu di proteggere i suoi libri.
      Dove, modestia a parte, raggiunsi la perfezione fu nel gavettone lanciato a Sandra. Ma non per miei meriti particolari; così, mi riuscì bene e basta. Sandra era addormentata su una sedia sdraio a bordo piscina. Silenziosamente mi posizionai col secchio d'acqua in mano a circa tre-quattro metri da lei ed effettuai il lancio. Vista la distanza, ebbi la soddisfazione di vedere la compatta massa acquea uscire dal secchio, librarsi un attimo in aria e planare su tutto il corpo di Sandra, che naturalmente si svegliò all'improvviso. La mia soddisfazione fu ancor più grande perché gli altri amici, avendomi visto col secchio in mano, si erano fermati ad osservare la scena e dopo ridevano di gusto, mostrando di avere notevolmente apprezzato la mia performance. Sandra si alzò di scatto dalla sdraio e voleva buttarmi in piscina, dimostrando così di essere la sola a non avere apprezzato il gavettone, ma poi desistette dal suo desiderio di rendermi pan per focaccia ossia riempiendo il secchio d'acqua e poi facendomi colare il contenuto a partire dalla testa; io rimasi immobile a subire la giusta replica.

     Veniamo ora allo scherzo delle foto che feci a Maury. L'ispirazione mi venne dalla scena del film Amici Miei Atto II in cui, al bar ristorante del Necchi, gli amiconi prendono un attimo "in prestito" le macchine fotografiche per immortalare con degli scatti le loro (degli amiconi) parti virili e i loro fondoschiena, immaginandosi la sorpresa dei turisti nipponici che, al loro ritorno in patria avrebbero fatto sviluppare le foto, vedendovi dei prodigi "architettonici" del tutto imprevisti. Eh, sì, avere cultura cinematografica a volte aiuta proprio.
      E così, quando il venerdì pomeriggio della settimana di vacanza ad Ischia ci recammo alle Terme di Poseidon, approfittai del quarto d'ora in cui Maury era andato a fare la sauna e aveva lasciato la sua macchina fotografica in custodia a me, che me ne rimasi spaparanzato su una sedia a sdraio. Presi il provvidenziale strumento tecnologico e mi misi a scattare foto "compromettenti" all'insaputa di Maury. All'insaputa ... tengo a precisare che il mio amico non è parente di quel noto politico che qualche anno fa si fece pagare una parte dell'alloggio a sua insaputa.
      Per la verità, di foto clandestine ne feci soltanto due. Una in cui mi immortalai il "davanti"; naturalmente col costume da bagno indossato, perché se mi fossi fotografato ignudo, mi avrebbero certamente arrestato in quanto mi trovavo all'aperto. La seconda foto fu un autentico atto di perfidia da parte mia: Maury era venuto in vacanza senza la palla al piede, pardon, senza la sua compagna, Grazia, che aveva appena cambiato lavoro e non poteva ancora prendersi delle ferie; or bene, sapendo che Grazia era oltremodo gelosa, scattai una foto con l'immagine della leggiadra ragazza in bikini che in quel momento stava prendendo il sole a pochi metri da me. Eh, sì, lo ammetto: a volte sono proprio stronzo. Solo a volte?

      Quella del 1996 fu l'ultima vacanza che io e gli altri amici passammo insieme. Uccio non venne e la cosa basta già a spiegare il calo del clima di allegria e di convivialità fra di noi. Ma c'era di più: la sensazione, per lo più inespressa, che cambiamenti in vista nella vita di alcuni di noi e forse anche piccoli screzi, piccole o grandi divergenze, avrebbero presto portato allo scioglimento della nostra compagnia. Cosa che puntualmente si verificò di lì a qualche mese. Di fatto, il matrimonio di Santiago e di Letizia, celebratosi nella primavera dell'anno successivo, fu l'ultima occasione in cui quasi tutti ci trovammo insieme.
      Certo, nel settembre del 1996, non mancarono momenti di allegria e di spensieratezza ma la magica atmosfera dell'amicizia di gruppo era già incrinata.
      E così, fra una battuta di Capi e l'altra (notevoli le "Se il cielo è foscolo, chiamate Ugo" e "L'isola che si vede dopo Ventotene è Ventinovene"), l'unico scherzo che feci fu quello a Cristiana.
     Se la memoria non m'inganna, fu proprio Capi a suggerirmela come bersaglio.
      Fu uno scherzo in tono minore, perché anch'io risentivo del clima più depresso che vacanziero che si respirava fra di noi. Mi limitai a sottrargli una maglietta mentre lei era in piscina e a nascondergliela dietro la siepe che circondava la piscina medesima.

      Lo scherzo diede origine a un mistero: quando rivelammo a Cristiana, che da una buona mezz'ora stava cercando la sua maglietta, il posto dove l'avevo nascosta, lei vi si recò e poi ci disse che l'indumento non c'era. Può darsi che nel frattempo qualcuno se ne fosse impossessato ma Capi sospettò che si trattasse di una piccola vendetta cinese di Cristiana, che aveva trovato la maglietta ma voleva farci credere il contrario. Fatto sta che il buon Capi la risarcì regalandole una delle sue T-shirt.

giovedì 6 aprile 2017

I miei scherzi extralavorativi

      Dopo l'esame di Licenzia Media, mi persi di vista con quasi tutti i miei ex compagni di classe (avevamo preso diverse nelle Medie Superiori) ma io, Roberto e Giampiero continuammo a frequentarci, almeno per allora. Andavamo al cinema ogni sabato sera e ogni tanto ci ritrovavamo a casa mia di sera a fare quattro chiacchiere, ridere, scherzare.
     Una volta che ci trovammo a casa mia (pardon, a casa dei miei genitori, visto che io non ne ero il proprietario), esaurito ogni possibile argomento di conversazione, ci venne in mente di fare uno scherzo alle mie compagne di classe della Quinta Superiore. Studiavo da corrispondente in lingue estere, titolo di studio che allora, a torto o a ragione, era considerato soprattutto adatto alle ragazze; non a caso, nella mia classe c'erano 24 ragazze e noi maschietti eravamo solo 6. Ciò provocava nei miei confronti la mai rancorosa e sempre amichevole invidia di Giampiero, sia perché nella sua classe dell'istituto per geometri il rapporto maschi/femmine era più che ribaltato (su 30 studenti, le ragazze erano appena 3), sia perché era un periodo in cui Giampiero non riusciva mai a "battere chiodo". Non a caso, con la scusa che eravamo amici e approfittando del fatto che gli istituti tecnici che frequentavamo sorgevano uno accanto all'altro, si era fatto da me presentare molte mie compagne di classe e ad alcune di loro aveva vanamente chiesto di uscire con lui.
      Viste queste premesse, lo scherzo che quella sera Giampiero ci suggerì doveva conseguire il risultato di mettere un po' di zizzania fra alcune mie compagne di classe e i rispettivi ragazzi: fosse mai che almeno una litigasse col suo ganzo e Giampiero avesse strada libera. Io collaborai fornendo al mio amico tutte le informazioni che gli servivano e discutendo con lui sul tema dello scherzo e sui suoi contenuti.
      E fu così che Giampiero, contraffacendo la voce per rendersi irriconoscibile, telefonò prima a Chiara, qualificandosi come un amico del suo ragazzo e dicendole che avevano combinato una gita in montagna per la domenica successiva e si stavano organizzando per partire con una carovana di automobili. La partenza per la montagna era, secondo la fertile fantasia di Giampiero, fissata per le 10 in una certa piazza di Torino. Carognesco obiettivo di Giampiero era, oltre a quello di prendersi gioco di lei, di farla andare alle 10 in quella piazza, ovviamente senza trovarvi né il suo ragazzo né la comitiva di auto, e di farla litigare col fidanzato: già, il quel periodo, come si suol dire, Giampiero stava dietro a quella mia compagna di classe.
      Come se Chiara, nei restanti giorni della settimana che separavano dalla domenica, non potesse vedere o sentire per telefono il suo ragazzo e informarsi sulla millantata (da Giampiero) gita in montagna.
      Riattaccato che ebbe la cornetta, il mio amico ci rese edotti di un particolare erotico della telefonata, dicendoci: "Che voce sexy che aveva Chiara stasera!". E Roberto, mettendosi a ridere, commentò: "Forse stava scopando".
      Per conferire maggiore credibilità allo scherzo, Giampiero telefonò subito dopo anche a Daniela, anch'ella mia compagna di classe e frequentatrice "extra scholam" della stessa compagnia di amici di Chiara. Le disse che l'aveva chiamato Chiara e gli aveva chiesto di telefonarle per avvisarla che la domenica successiva si sarebbero trovati tutti alle 10 in una certa piazza di Torino per partire per una gita in montagna.
      Poi il mio amico zuzzurellone cambiò scherzo e telefonò a Donatella, un'altra mia compagna di classe. Avendogli io detto che il suo ragazzo era partito per andare a fare il servizio militare, cosa si inventò Giampiero? Si qualificò commilitone del suo ragazzo e le disse che per qualche giorno non l'avrebbe più chiamato perché era stato sbattuto in cella di rigore. "Una cosa da niente, - precisò Giampiero, - un piccolo litigio fra soldati scoppiato durante il rancio e che il capitano di turno non ha gradito per niente".
      Il giorno dopo dovetti sottopormi ad un sovrumano esercizio di autocontrollo per non scoppiare a ridere in classe, quando sentii quelle mie tre compagne di classe raccontarsi le telefonate ricevute la sera prima. Non avevano abboccato, naturalmente, ma erano molto preoccupate per quel tipo strano che le aveva chiamate e temevano che potesse trattarsi di un malintenzionato.

      Una sera d'estate, tornando a casa dal cinema, io, Giampiero e Roberto scendemmo dal tram in piazza Santa Rita. Era ancora presto per rientrare alle rispettive abitazioni e il fresco della notte da poco calata invogliava a restare all'aperto. Ci sedemmo su una delle panchine a chiacchierare un po'.
      A un certo punto, il discorso cadde su uno scherzo che Giampiero e Roberto avevano già fatto: depositare su uno dei binari del tram delle monetine da 5 e da dieci lire. Al transito del tram sulle rotaie, si sentiva una serie di scoppiettii, come se qualcuno stesse sparando. A raccogliere poi le monete saltate via qua e là, ci si accorgeva che il passaggio su di esse del pesante mezzo pubblico le aveva deformate e schiacciate, trasformandole in piccoli medaglioni.
      Decidemmo di ripetere lo scherzo. Ma nessuno di noi aveva monete da 5 o da dieci lire, che già all'epoca (fine degli anni '70 del XX secolo) scarseggiavano. Misi a disposizione una moneta da 50 lire: solo una, perché metterne una decina avrebbe comportato un costo eccessivo per uno scherzo di poco conto.
      Giampiero andò a depositarla su un binario e ci mettemmo in serena attesa. Dopo qualche minuto passò un tram e in effetti si sentì un colpo secco quando venne a contatto con la moneta. Non l'effetto mitragliata che avrebbero prodotto dieci monetine più piccole ma, insomma, ci si poteva accontentare.
      Giampiero andò a raccattare il 50 lire, finito sulla strada poco distante dalle rotaie, e me la riconsegnò. Era in pare deformato, schiacciato, un po' allargato ma, visto il suo spessore maggiore rispetto alle monete da 5 o da 10 lire, il tram non l'aveva ridotto a medaglia. Lo conservo ancora oggi; è un bel ricordo di anni spensierati.

      Una delle mie serie televisive preferite di qualche anno fa era quella dei Jeffersons. Da essa trassi lo spunto per fare agli amici lo scherzo della porta, che George Jefferson faceva spesso al signor Bentley non per riderci sopra ma perché era un po' cafoncello e voleva con tale azione dirgli di togliersi dalle palle.
      Diciamo che negli anni '80-'90 del XX secolo esso divenne una sorta di pedaggio di iniziazione, che un amico o un amica doveva pagare la prima volta che veniva a casa mia. Dalla seconda volta in poi, non lo facevo più, anche perché svaniva l'effetto sorpresa, fondamentale negli scherzi.
      In cosa consisteva? Semplice: quando una persona usciva dall'ascensore, io tutto gioviale lo salutavo e lo invitavo ad entrare in casa ma poi, quando era arrivata col naso a pochi centimetri dall'entrate, gli sbattevo la porta in faccia.
      Per poi riaprirla dopo qualche secondo e domandare ridendo: "Ti è piaciuto lo scherzo?".

      Le automobili dei miei amici costituivano hanno costituito un ottimo teatro d'azione. Intendiamoci: non mi spinsi mai ad azioni bastarde seppur non vandaliche quali lo staccare lo spinterogeno da esse; ma qualche ghiotta opportunità goliardica non me la feci di certo sfuggire.
      Innanzitutto, quando uscendo con loro mi accorgevo che avevano le vetture con almeno un centimetro di polvere, al loro primo momento di distrazione mi fiondavo su un cofano e col vellutato tocco di un polpastrello scrivevo idilliaci inviti come: "Lavami", o poetiche manifestazioni di affetto amicale come: "Pirla".
      Il più delle volte i miei amici si accorgevano delle mie gentili paroline e con panno in mano ci davano di gomito nel cancellarle dal cofano, compiendo con tale azione la conseguente pulizia del medesimo: così io mi sentivo orgoglioso per aver indirettamente contribuito al ripristino del decoro delle loro autovetture.
      Accadeva però anche che non se ne accorgessero minimamente e nei giorni successivi se ne andassero in giro con le scritte ben evidenti sul cofano, esponendosi così a situazioni un tantino imbarazzanti. Come successe a Capi, quando andò a prendere sua figlia, allora bambina, e la pargola, dopo aver letto la parola sul cofano, gli chiese: "Papà, cosa vuol dire 'pirla'?".
      Una simpatica variante di scherzo sulle automobili me la fornì la rivista satirica Cuore, un cui numero uscì allegando in omaggio una serie di adesivi da attaccare ai parabrezza di automobilisti indisciplinati, tipo quello che parcheggiano in doppia fila o negli stalli destinati ai disabili. Erano adesivi con disegni e frasi del tipo: "Come ti permetti di posteggiare lì, gran testa di cazzo?!". Naturalmente attaccai quegli adesivi alle automobili dei miei amici.

      Un altro scherzo che si può fare, e che io feci, con le automobili degli amici è quello delle multe.
      Si prende una multa da un'auto di proprietari sconosciuti a cui i vigili urbani l'hanno già messa e la si infila fra il parabrezza e il tergicristalli di quella di un amico. Vederlo scoprire la multa e mettersi ad imprecare, anche perché non ha commesso alcuna infrazione al codice della strada, è una sensazione impagabile. Per tutto il resto, come recita un noto spot televisivo, c'è una certa carta di credito.
      Resta il piccolo particolare del poveraccio a cui la multa è stata tolta dal parabrezza e che, non sapendo di averla presa, non potrà pagarla: nel migliore dei casi, gli arriverà a casa una notifica con aumento dell'importo da pagare; nel peggiore, i vigili passeranno di nuovo nei pressi della sua autovettura e, vedendola priva di multa, a loro insaputa gli eleveranno una seconda contravvenzione per la stessa infrazione. Ma è un problema che non mi ha mai posto problemi di coscienza: se lo stronzo sconosciuto ha parcheggiato in sosta vietata e, peggio ancora, in uno stallo per disabili, è giusto che paghi il più possibile.
      L'azione del togliere la multa dal parabrezza di un'automobile, da me ispirata da una scena del film Il sorpasso, la feci non tanto come burla quanto per solidarietà amicale.
      Una sera, il mio amico Maury era venuto a prendermi per andare a cena insieme ad altri amici. Giunti nei pressi della pizzeria dove ci saremmo ritrovati tutti, girammo per mezz'ora alla ricerca di un posto dove parcheggiare la sua Austin Montego, da lui affettuosamente soprannominata Priscilla. Alla fine, si rassegnò e la mise in un tratto di strada dove c'era la sosta vietata, dicendomi: "Stasera prenderò la multa; l'auto davanti che ce l'ha già infilata sul parabrezza".
      Al che, mi venne in mente quella scena del capolavoro di Dino Risi e gli dissi: "Un momento. Ci penso io".
      Scesi, presi la multa dall'autovettura davanti e la misi su quella di Maury, rassicurandolo: "Se passassero di nuovo i vigili, vedrebbero che ti hanno già fatto la multa e non te la farebbero più".
      "Ma così quel poveraccio davanti si prenderebbe la multa due volte!", - esclamò Maury in un rigurgito di coscienza.
      "E allora? - Replicai beffardamente. - Così impara a non parcheggiare dove è vietato".
      Eh, sì, caro Maury, a volte serve avere un amico cinefilo.
      Al ritorno dalla cena, l'auto davanti all'Austin Montego non c'era più, per cui non sapemmo mai se il suo proprietario si era preso la multa una seconda volta. Nel migliore dei casi, si sarà vista notificare la contravvenzione a casa con tanto di aumento e di mora; nel peggiore, se ne sarà presa una seconda. Va be', peggio per lui o per lei.
      Naturalmente, tenemmo quella multa e la usammo nei successivi incontri con gli amici per far loro lo scherzo vero e proprio, mettendola di volta in volta sul parabrezza delle loro auto.

      Una sera io e alcuni miei amici ci trovammo a Torino a passeggiare nelle vie del centro dopo essere stati al cinema.
      Molte vie del centro storico subalpino sono strette ed hanno marciapiedi di lastre di pietra anch'essi stretti, lungo i quali passano a malapena due persone affiancate.
      A un certo punto mi venne voglia di scoreggiare. La nostra compagnia si era un po' sgranata. Grazia e Chiara erano venti metri davanti a me, Uccio e Maury venti metri dietro. Mi venne l'idea geniale: scoreggiare rombando davanti a Uccio ed a Maury.
      Iniziai a rallentare lentamente, calcolando mentalmente l'attimo in cui tirare la verza (o la pereta, come direbbero a Napoli) a un metro da loro.
      Ma Uccio, non so come, intuì che stavo escogitando qualcosa e all'ultimo momento lasciò passare un ragazzo che stava camminando dietro di loro.
      E io, non accorgendomi del cambiamento di bersaglio, gli scoreggiai in faccia. Proprio mentre si stava accendendo una sigaretta.
      Il poveretto rimase di stucco, poi proseguì senza emettere parola alcuna, mentre Uccio e Maury si stavano già sbellicando dalle risate.
      Una leggenda metropolitana sostenne in seguito che io col mio potente getto d'aria avevo spento l'accendino al malcapitato passante.

lunedì 3 aprile 2017

Vacanze universitarie

      Ieri sera ho guardato un'altra volta il mediometraggio "La boulangere de Monceau" ("La fornaia di Monceau" ) di Eric Rohmer.
      Vista l'ambientazione del film (il primo di Rohmer che guardai, nell'ormai lontano 1985), mi sono tornati in mente i due anni nei quali, potendo studiare a tempo pieno all'Università, ho goduto del clima rilassante delle vacanze estive, ad esami sostenuti. Dopo, avendo iniziato a lavorare e continuando a studiare studiando nel tempo libero, le vacanze estive divennero, oltre che più brevi, anche molto meno distensive.
      Diciamo che fino al 2005 ho fatto un lavoro che detestavo e le ferie diventavano un'occasione di rivincita, col logico risultato di avere su di esse delle aspettative "risarcitorie" che non si realizzavano mai. A cui si aggiungeva il fatto che, dopo qualche giorno, la mia mente iniziava a guastarmi le vacanze facendomi pensato allo sgradito giorno del rientro al lavoro.
      Nei due anni del mio cursus studiorum universitario a tempo pieno, invece, ad esami finiti il relax era totale: smettevo temporaneamente un'attività che amavo, non a caso negli ultimi giorni di luglio, quelli che precedevano la vacanza annuale a Villa Minozzo, tornavo alla sede della Facoltà di Lettere, a respirare l'aria della Cultura anche solo passeggiando nel corridoio ormai vuoto dell'Istituto di Storia (quello che allora chiamavo "il mio ambiente naturale"), e a fare il giro delle librerie dei dintorni; e, quanto alla ripresa degli studi a settembre, essa non era da me vissuta come la fine di un periodo di libertà provvisoria (come invece mi accadde dopo alla Findatasystem) ma come il ritorno ai miei amati studi, che affrontavo con passione ed entusiasmo.
      Ecco, una sensazione di relax e di benessere come quella di quelle due vacanze universitarie da studente a tempo pieno non l'ho più provata.