martedì 23 maggio 2017

Cinque anni fa. Funere mersit

      Nel cuore della notte il risveglio improvviso: con tatto Karim mi disse se potevo venire un attimo a vedere.
      Mi bastò un’occhiata per capire: nel cuore della notte il tuo cuore più non batteva.
      La testa leggermente reclinata a destra reclinata; gli occhi chiusi, ormai destinati al Riposo; il viso privo delle sofferenze trascinate a lungo; il torace fermo, ormai alieno al respiro; braccia e mani distese lungo i fianchi distese, finalmente distese, non più tese nella spasmodica resistenza al dolore.
      La tua ultima immagine prima della fatale constatazione, la tua prima immagine dopo il distacco definitivo, l’immagine che porterò con me per ogni mio restante giorno terreno.
      Dopo, un mesto susseguirsi di tristi atti.
      L’accarezzarti il volto, sentendo dalla tua pelle la freddezza della morte.
      Lo stetoscopio posato sul tuo torace e l’assenza di battiti: ulteriore conferma.
      Il prendere la cornetta, svegliando la signora Rita, che non si fece mai  negare ogni volta che avesti bisogno di lei avesti bisogno; il suo accorrere per constatare ciò che già sapevo.
      Lo svegliare papà per comunicargli impacciato la fine dei tuoi giorni con noi.
      L’inizio dei due giorni dell’ultimo commiato, con noi che lentamente iniziammo ad essere sommersi dalla tua assenza.
      Il vederti nel ligneo sarcofago deposta, il porgerti sussurri di carezze alle tue orecchie ormai mute, il ringraziarti e il chiederti perdono per i sacrifici che facesti per me.
      Il vederti con le cose destinate a farti compagnia nel tuo ultimo viaggio: attorno al tuo collo il foulard che ti regalai, perché io volli che nel sepolcro portasti con te un pegno del mio amore filiale; un mazzetto dei fiori recisi dalla pianta che George ti portò, perché io volli che nel sepolcro portasti con te anche qualcosa dell’altro bambino che con amore allevasti; fra le tue dita la statuina della Signora di Lourdes, la cui fosforescenza sperai potesse per un po’ il tuo riposo illuminare di una dolce luce, pallido riflesso della tua immensa bontà, della Sua immensa bontà; una rosa, che la signora Rita depose accanto a te.
      L’ultimo mio saluto: due volte la parola “Grazie”, in un breve intervallo di lacrime, e un bacio sulla tua amatissima fronte.
      Spalle generose, soprattutto quelle del cugino Fernando, su cui piangere prima e dopo la chiusura del feretro, prima e dopo il mio ultimo sguardo su di te, ormai dormiente del sonno dei Giusti.
      Esequie, a cui assistetti fra scrosci di pianto.
      Il mesto percorso verso i giardini di pietra, l’ultima benedizione dal diacono impartita, l’ultimo bacio e l’ultima carezza al tuo feretro.
      Il chiamare Sara accanto a me, per averla vicina nel vederti scivolare nella tua ultima dimora terrena.
      Riposa in pace, mamma.

23 maggio 2017.

lunedì 15 maggio 2017

I miei scherzi scritti

      Fu negli anni delle Medie Superiori che iniziai ad usare la scrittura per scherzi e lazzi vari, abitudine che in seguito mantenni e intensificai negli ambienti lavorativi nei quali mi trovai inserito.
      All’I.T.C. "Elio Vittorini" scrissi finte lettere d’amore, dai contenuti un po’ licenziosi, indirizzate a compagne di classe alquanto inibite e timide, naturalmente spacciandole per opera di compagni di classe altrettanto inibiti e timidi. E scrissi anche poesiole beffarde e salaci, di quel genere letterario cioè che ancora oggi non disdegno di coltivare.
      Lo scherzo più idiota che feci con la scrittura si ridusse però ad una sola parola: vasectomia.
      Accadde che Monica, dopo essere stata operata di appendicite, tornò a scuola portando, come giustificazione per l’assenza di un mese, un certificato del suo medico della mutua dove era specificato il tipo di intervento chirurgico.
      Fu come fu, fatto sta che, prima che potesse consegnarlo al professore  che teneva la prima ora di lezione di quel giorno, il certificato medico cominciò a girare di banco in banco.
      Quando giunse a me, ebbi un’idea che credei geniale ma che in realtà era soltanto stronza: sopra (si badi bene: al di sopra e quindi non sovrapponendo) la parola “appendicectomia” vergata a mano dal medico di Monica, scrissi la parola “vasectomia”.
      L’effetto burlesco venne ovviamente esasperato dal fatto che, come ogni laureato in medicina può testimoniare, la vasectomia è la sterilizzazione maschile e non quella femminile, e Monica di sicuro maschio non era. E, intendiamoci, non lo è nemmeno adesso.
      Il certificato riprese a girare, provocando, com’era prevedibile, generale ilarità.
      Quando Monica si accorse della mia improvvida contraffazione, si adirò alquanto: espressione elegante che significa che si incazzò come una bestia.
      Mi sbatté il certificato sul banco e mi disse: "Io non lo consegno. Oggi tu vai dal mio medico e te ne fai rilasciare un altro".
      Fu Paola a porre rimedio a tutto: prese il foglietto e provò a cancellare la mia aggiunta; la parola incriminata sparì dopo qualche colpo di gomma, senza lasciare alcuna traccia.
      Così restaurato, il certificato medico venne riconsegnato a Monica, che lo diede al professore, quando questi entrò in classe.

      La povera Monica fu vittima di un altro scherzo da parte mia. Ma questa volta ebbi come complice Walter e come divulgatore un simpatico bigliettaio.
      Avevo scritto qualcosa di satirico su di lei: non ricordo né cosa né se fosse in prosa o in versi. Fatto sta che diedi il foglietto di sì alta prova letteraria a Walter e questi, all’uscita da scuola, si mise a sventagliarlo davanti agli occhi di Monica sull’autobus-navetta che li stava portando verso le rispettive abitazioni. A quel punto il bigliettaio (allora c’erano già le macchinette obliteratrici ma sulle navette per gli studenti il bigliettaio era presente), accortosi della burla, volle partecipare anch’egli, si fece consegnare il biglietto da Walter e si mise a declamarne ad alta voce il contenuto in presenza di almeno un centinaio di studenti. E di un po’ tutte le sezioni.
      Ripeto: a distanza di tanti anni, non ricordo più cosa scrissi allora ma il testo doveva essere pepato, se non addirittura osceno, visto che sull’autobus Monica si sentì avvampare dall’imbarazzo e il giorno dopo ce la menò un casino, a me e a Walter.
      Ringalluzzito da sì meraviglioso effetto, come direbbe Mike Bongiorno non volli lasciare ma raddoppiai.
      Scrissi la cover di una canzone di Gianni Nazzaro di qualche anno prima, Quanto è bella lei!
      Spezzoni di quella cover me li ricordo. Cominciava con:
           Ti prego, non mi dire
           che lui non è per me.
           anche se è un bigliettaio,
           adesso l’amerò.
      E poi, dopo qualche verso, proseguiva con:
           Quanto è bono lui,
            tu babbo non lo sai.
     Questa volta il frutto del mio ancora tutto da dimostrare talento letterario non giunse nelle mani del bigliettaio. Lo diedi a Walter, il quale per un paio di giorni lo sventolò sotto gli occhi di Monica, paventandole la possibilità di renderlo di pubblico dominio.
      Per lei furono due giorni di sofferenza. Non fece altro che implorare Walter di consegnarle il testo della mia cover. Giunse perfino a chiedere al prof. Podio, nostro insegnante di Religione, di ordinare a Walter di darle il foglietto malandrino, naturalmente senza specificargli il contenuto. Il prof. Podio, tuttavia, non intervenne.
      E forse per Monica fu un bene, viste e considerate le performances istrioniche che il buon Ferdinando Podio ci aveva già regalato. Chi lo sa? Avrebbe anche potuto farsi dare il testo della mia Quanto è bono lui! e, cosa più grave per Monica ed esilarante per noi, mettersi a cantarla davanti a tutta la classe!
     Lo scherzo finì come doveva finire. Appena Monica smise di pretendere la consegna della cover, non ce ne occupammo più. Il foglietto? O venne perso o venne distrutto.

      Sempre negli anni delle Medie Superiori, avevamo come compagni di classe un ragazzo che definire misogino risponde al vero (poi, per sua fortuna, finiti gli studi cambiò da così a così e divenne un tombeur des femmes di tutto rispetto) e una ragazza che definire sessualmente inibita è dir poco.
      Or bene, su incitazione di alcuni altri compagni di classe (mascalzoncelli come me), scrissi una lettera d'amore (non certo nel senso platonico del termine ...) indirizzata alla virginal fanciulla e firmata dal ragazzo. Firma falsa, naturalmente. Consegnai l'aretiniana missiva ai miei complici e uno di essi provvide a metterla nell'agenda della virginal fanciulla.

      Un altro falso fu quello che confezionai per prendermi burla del signor Ettore Gennaro.
      Il signor Gennaro abitava  in un appartamento dello stabile in cui anche la mia famiglia aveva l'alloggio. Pur essendo socialista, non poteva vedere Craxi. Già verbalmente, quando volevo prenderlo un po' in giro, al momento di accomiatarmi da lui gli dicevo: "Mi saluti Bettino", anche se magari non avevamo in alcun modo parlato di politica.
      Or bene, passando dalla burla orale a quella scritta, un giorno mi venne l'idea di scrivergli un'accorata lettera di riavvicinamento politico con la (falsa) firma di Craxi. Dopo che l'ebbi battuta a macchina e imbustata, la misi nella sua cassetta delle lettere.
      Naturalmente, il signor Gennaro non abboccò e mi identificò subito come autore della missiva.

      Il mio scherzo per lettera più bastardo fu però quello che feci a Donato. Anche perché ebbe come presupposto una sua imprudente confidenza.
      Mai fare certe confidenze agli amici, perché nove volte su dieci gli amici sono dei grandissimi stronzi e ne approfittano.
      Quando era ancora mio collega, un bel mattino in ufficio Donato mi confidò: "Stanotte ho fatto un sogno allucinante. Ho sognato che stavo spogliando una ragazza che mi piaceva tanto: le tolgo il vestito, le tolgo il reggiseno, le tolgo le mutandine e mi accorgo che al posto della farfalla ha una nerchia enorme! Ho provato talmente tanto orrore che mi sono svegliato urlando".
      Ci facemmo due risate e la cosa sembrò finire lì. A parte i lazzi di qualche nostro compagno di lavoro a cui Donato aveva fatto la stessa confidenza, lazzi incentrati un tantino pesantemente sul suo presunto essere gay. Cosa destituita di ogni fondamento, sia ben chiaro. Come avrebbe spiegato Alessandro Benvenuti a Ricky Tognazzi nel film Maniaci sentimentali, si trattava di un sogno rivelatore al contrario ossia rivelatore di ciò che in sognatore non era.
      Passò qualche anno, Donato non era più mio collega, era un po' che non si faceva vivo con me e un bel giorno d'estate mi venne in mente di fargli un bello scherzo a proposito di quel suo sogno, pardon, incubo erotico.
     Mi misi d'ingegno col word processor di cui allora disponevo (e che per la verità non garantiva il massimo della raffinatezza grafica) e composi una specie di diploma, con tanto di cornice: del tipo di quelli che riguardano il conferimento di titoli di studio o di attestati onorifici.
      Mi inventai anche il nome, con tanto di acronimo, di un'inesistente associazione gay e composi il testo del "diploma", che recitava così:

           La F.I.S.E.O.,

           Federazione
           Italiana
           Sognatori
           Erotici
           Omosessuali,

           esaminate tutte le testimonianze scritte e, soprattutto, orali,

           conferisce al signor

           Donato ***

           il diploma di socio onorario.

      Dopo di che, spedii la lettera al signor Donato ***.
      (Beninteso, tanto nel testo del "diploma" quanto nell'indicazione del destinatario della lettera, al posto degli asterischi scrissi il cognome di Donato.)
      Naturalmente, Donato comprese che si trattava di uno scherzo ma, stranamente, non sospettò di me.
      Credevo che il suo non telefonarmi o scrivermi in risposta fosse dovuto alla strategia di ignorare deliberatamente l'accaduto senza darmi corda per altri simpatici scherzi.
      Invece no. Quando lo incontrai di nuovo, circa un anno dopo l'invio della comunicazione dell'ambito riconoscimento, e gli accennai alla lettera della F.I.S.E.O., confessandogli di essere stato io a spedirgliela (non per scaricarmi la coscienza, perché quando faccio uno scherzo non ho mai rimorsi, ma perché volevo che mi riconoscesse come l'autore di quel colpo d'ala nell'arte della burla), scoppiò e ridere e mi disse: "Ah, così sei stato tu! E io che, nelle settimane dopo l'arrivo di quella lettera, ho telefonato a quasi tutti i nostri amici chiedendo ad ognuno se era stato lui a scrivere quella cazzata!".

martedì 9 maggio 2017

La Treccani e il Mulino Bianco


      Qualche tempo fa, sono andato sul sito dell'Enciclopedia Treccani e mi è partito il video della pubblicità delle focaccine del Mulino Bianco con Antonio Banderas.
      Cosa c'entra il Mulino Bianco con l'Enciclopedia Treccani? Come i cavoli a merenda. Anche se, naturalmente, è molto meglio fare merenda con i prodotti del Mulino Bianco piuttosto che coi cavoli.
      A meno che, naturalmente, non vi sia assonanza col concetto di banchetto: il Mulino Bianco banchetto per la gola e l'Enciclopedia Treccani banchetto di sapienza, sulla scia del dantesco Convivio.
      Va be', sarebbe stato meglio che, al posto dello spot con Banderas, fosse partito il video del trailer di Cinquanta sfumature di grigio con Dakota Johnson, figlia di Melanie Griffith.
      Tanto, sarebbe restato tutto in famiglia. Allargata, naturalmente.

      Comunque sia, anche il video del Mulino Bianco è uno stimolo per cercare lemmi sul sito dell'Enciclopedia Treccani.
      Esso infatti subliminalmente suggerisce di cercare:
      - Banderas Antonio (e, per derivazione, i lemmi Griffith Melanie, Johnson Don, Nord e Sud Dakota, Griffith Emil, Benvenuti Nino, pugilato);
      - focaccia (l'alimento cotto al forno, non la foca di facili costumi);
      - mulino (e, per derivazione i lemmi grano, macina, farina, Bacchelli Riccardo, Po, Chicòn Guccini, Pàvana);
      - gallina (e, per definizione, uova, polli gli animalisti che hanno creduto che la gallina dello spot fosse un animale vivo, marionetta da loro non riconosciuta nello spot).

      Urca, quanta cultura uno può farsi consultando sul sito dell'Enciclopedia Treccani i lemmi subliminalmente suggeriti dal video del Mulino Bianco!

martedì 2 maggio 2017

La correzione delle bozze

      C’è una fase che prova se l’editore è in gamba o se invece è un incompetente, indipendentemente dal fatto che sia free o a pagamento: la fase dell’editing ossia la preparazione del testo prima di consegnarlo al tipografo.
      Un editore serio e preparato non gestisce la fase dell’editing limitandola alla correzione degli inevitabili refusi (l’editore a pagamento magari non guarda nemmeno quelli e manda in stampa il manoscritto esattamente come l’ha ricevuto dall’autore).
      Un editore competente trova i difetti (che sono presenti in qualunque opera) e suggerisce le migliorie all’autore: nessuna opera è perfetta, nemmeno quelle degli scrittori più affermati, i quali, in quanto grandi, sono umili e, mettendo da parte la presunzione, accettano i consigli dei loro editor (senza la “e” finale) e discutono con loro le modifiche da apportare ai loro testi.
      A volte il libro viene rivoltato come un calzino e va in stampa completamente riscritto rispetto al manoscritto originale. Posso citare come esempio Il castello di Samuele in Ritorno a Peyton Place.
      L’editore incapace invece non ci pensa nemmeno a suggerire modifiche e migliorie. E si limita alla sola correzione delle bozze. Con esiti sconcertanti.

      Già, perché anche nella correzione dei refusi si riscontra spesso una grande incompetenza da parte degli editori, degli editor e dei correttori di bozze. Ricorriamo al solito scambio di e-mail.
      Quando l’autore ha già il contratto di pubblicazione in tasca e sa che il suo manoscritto è al vaglio del correttore di bozze, riceve un’e-mail dall’editore che lo gela.

Ho dovuto sospendere la pubblicazione del Tuo libro, perché il correttore di bozze ha già rilevato dieci refusi nelle prime tre pagine e ha deciso di non andare avanti bloccandomi la pubblicazione.

      Ora, che qualche refuso possa scappare anche alla più scrupolosa verifica dell’autore, può essere. Ma in questo caso lo scrittore ha rivisto il suo testo, con calma, per ben tre volte ed è strasicuro che è impossibile che vi abbia lasciato dieci refusi solo nelle prime tre pagine.

      Prima di replicare all’editore, va a dare un’occhiata alle prime tre pagine del suo libro e dei dieci errori cui fa cenno l’e-mail non ne trova nemmeno uno!
      Poi gli viene in mente un aspetto importante.
      E cioè che i word processor sottolineano in rosso quelli che interpretano come refusi ma che in realtà possono semplicemente essere termini stranieri o parole italiane non ancora incluse nel vocabolario a cui il software fa riferimento, indipendentemente dal fatto che l’autore abbia coniato qualche neologismo o citato qualche remota località di provincia non ancora inclusa nel vocabolario medesimo; accade dunque che il correttore di bozze superficiale o fannullone si limiti a segnalare i refusi, veri o presunti, già evidenziati dal word processor e magari non faccia attenzione a tutti quegli strafalcioni (come, ad esempio, i tempi dei verbi sbagliati) che non vengono sottolineati in rosso. Il risultato è un grosso pateracchio, con errori anche gravi sfuggiti ai correttori di bozze e arrabbiature degli autori, che si vedono addebitati errori che in realtà sono neologismi o parole straniere.
       Se ad esempio il personaggio di un romanzo è rozzo e ignorante, è logico che l’autore lo faccia parlare in modo sgrammaticato, con conseguente sfilza di parole sottolineate in rosso dal word processor. Analogamente, se un racconto si svolge in un Paese straniero, è logico che venga ambientato in località dai nomi non compresi nel vocabolario del word processor.
      Se l’editore e i suoi collaboratori sono seri e professionali, fanno tutti i controlli del caso e comprendono sia gli errori che le raffinatezze stilistiche; in caso contrario, lasciano passare strafalcioni madornali o segnalano sbagli inesistenti.
      Gettando un’altra occhiata al video del suo pc, l'autore si accorge che il word processor sottolinea in rosso i cognomi stranieri (se ad esempio il suo libro è un romanzo storico ambientato nella Francia del XVI secolo, di cognomi stranieri ne ha a iosa) e la ripetizione di una stessa parola  (cosicché, ad esempio, l’espressione “piano piano”, grammaticalmente corretta, ha il secondo “piano” sottolineato in rosso come errore dal word processor).
      E allora gli viene un dubbio ammantato di solida certezza: sarà mica che quel cazzone di correttore di bozze non abbia affatto rivisto il testo ma si sia limitato a contare le parole sottolineate in rosso e, una volta raggiunto il numero 10, abbia comunicato all’editore che il manoscritto conteneva un numero talmente elevato di errori nelle prime pagine che non valeva la pena proseguire nella correzione?
      Sì,  dev’essere proprio andata così.
      Fra parentesi, il correttore di bozze, non leggendo i manoscritti ma limitandosi a contare le parole sottolineate in rosso dal word processor, è inevitabilmente soggetto a non rilevare refusi, anche imbarazzanti, che il word processor non può segnalare perché la parola in sé non è errata. Se ad esempio, indipendentemente dalla validità o meno della teoria freudiana del lapsus (secondo la quale il lapsus non è mai casuale ma sempre rivelatore di pensieri che consciamente non si vogliono esternare),  all’autore capita di scrivere “si gettò nell’impresa con molta figa” anziché “si gettò nell’impresa con molta foga”, il word processor non sottolinea in rosso la parola “figa” e al correttore di bozze che non legge il testo sfugge questo micidiale refuso. Altro esempio di svista sfuggita al correttore di bozze cazzone: lo scrittore voleva scrivere “fece il test di gravidanza e scoprì con gioia di aspettare un figlio” ma invece gli è scappato “fece il test di gravidanza e scoprì di aspettare un foglio”; il word processor, com’è logico, non sottolinea in rosso “foglio” ma, se non si legge con attenzione il testo, non ci si accorge del refuso.
      E perché mai l’editore, invece di verificare di persona la fondatezza dell’affermazione cassatoria del correttore di  bozze, ha creduto a quest’ultimo sulla parola?

      Lo scrittore clicca allora sull’icona della sua posta elettronica e manda un’e-mail all’editore del seguente tenore:

Ho ricontrollato il testo ma nelle prime tre pagine non vi ho trovato nessun refuso.
Sei sicuro che il correttore di bozze ha fatto il suo lavoro e non si sia invece limitato a contare le parole segnalate in rosso dal word processor?
Guarda che i word processor segnalano come refusi nomi stranieri e parti di espressioni che invece sono corrette.

      E-mail dell’editore:

Mi sembra di poter escludere una simile leggerezza: il mio correttore di bozze è una persona seria e preparata.

      E-mail dell’autore:

Ma tu hai controllato?

      E-mail dell’editore:

No.

      Ovvio, un editore stordito non controlla mai l'operato dei suoi collaboratori.

      E-mail dell’autore, che si aspettava almeno un “ora controllerò”:

Allora è meglio che controlli.
Ripeto: ho ricontrollato il testo; sono sicuro che non ci sono refusi.

      E-mail dell’editore, dopo 23 giorni (evidentemente è il minimo di tempo necessario per verificare a video il contenuto di tre pagine di testo):

Avevi ragione, sai. Non si tratta di refusi.

      Alla faccia di quella persona “seria e preparata” che sarebbe il correttore di bozze!
      Per quieto vivere, l’autore rinuncia a proporre all’editore di licenziare il correttore di bozze, il quale o è un cazzone che non sa fare il suo lavoro  oppure è un ladro che ruba soldi all’editore facendosi pagare una revisione dei testi che in realtà è solo una conta delle parole sottolineate in rosso dal word processor. E si offre (l’autore, non il ladro) di correggere lui le bozze. E pure gratuitamente.

      Proposta subito accettata dall’editore. Chissà come mai?