giovedì 20 ottobre 2016

Breve trattato scientifico-morale sul meteorismo

      Il meteorismo, si sa, provoca l'uscita di aria dallo sfintere, dopo che è stata compressa a dovere dall'intestino. Scientificamente, può essere definito "areofagia anale"; per analogia, volgarmente parlando, può essere indicato come "rutto di culo".
      Non ho mai capito come mai questo fenomeno fisiologico viene indicato dal sostantivo "meteorismo". gli asteroidi sono solidi e non gassosi, e inoltre non puzzano di merda.

      Lo scritto più bello sul meteorismo è di Gino Bramieri, contenuto in Io Bramieri ve le racconto in un orecchio. Barzellette per adulti, De Vecchi Editore.
      Sono tre i passaggi salienti di quel saggio:
      1. quando sei abbracciato alla tua bella e ti viene voglia di scoreggiare, lei "ti stringe sempre di più, la vigliacca, ti stringe come non ha mai fatto", mentre tu fai sforzi sovrumani per non sganciare un rumoroso e imbarazzante peto;
      2. il carattere di rovesciamento, si potrebbe quasi definire carnascialesco, del modo di considerare la scoreggia subito dopo che hai subito un intervento chirurgico; mentre normalmente, il peto viene accolto con riprovazione, quando sei convalescente da un'operazione è atteso con insistenza, perché se strombetti di culo significa che l'intestino ha ripreso a lavorare e il decorso è positivo; paradosso vuole che devi farti operare per poter scoreggiare senza suscitare critiche di costume;
     3. quando ti trovi in un ambiente chiuso, poniamo in un ascensore e ti viene lo stimolo del meteorismo, se sei con altre due persone, hai ancora la possibilità di farla franca, perché qualora il peto esca silenziosamente può averlo sparato uno qualsiasi dei tre presenti; ma se vieni a trovarti con una sola persona e tiri la scoreggia, non hai scampo, perché questa sa benissimo di non aver petato lei e, di conseguenza, deduce che sei stato tu.

     Il fatto è che le scoregge scappano sempre nel momento meno opportuno. Finché sei nello studio del medico di famiglia o in un ospedale, pazienza: dopotutto, è normale che questi luoghi siano anche frequentati da chi soffre di meteorismo incontinente. Ma in altre circostanze la cosa risulta decisamente imbarazzante, se non addirittura controproducente.
      Ve lo immaginate, ad esempio, l'effetto che farebbe tirare una rombante scoreggia mentre il direttore generale dell'azienda dove lavorate sta tenendo un discorso alle maestranze? Sarebbe la stessa cosa che indirizzargli una sonora pernacchia. Con un risultato scontato: carriera finita per voi.

      Occorre dunque impiegare somma attenzione quando, non riuscendovi più a trattenere, dovete scoreggiare.
      Se siete in strada, non correte alcun rischio di fare una figuraccia: il rumore delle automobili di passaggio coprirà a sufficienza anche il più squillante suono che la vostra sfinterica tromba possa produrre. L'unica accortezza che dovrete adottare è non assumere una postura che dia nell'occhio ossia non fermarvi e tendere il sedere leggermente all'indietro per petare in modo più rilassato.
      Se siete in un locale con delle persone, è meglio che usciate da esso con un qualunque pretesto per poter scoreggiare nel corridoio. Attenti però che il locale in questione non abbia pareti di cartongesso o comunque insufficientemente insonorizzate: vi sentirebbero lo stesso.

      Un genere sommamente intrigante del meteorismo è costituito dallo scoreggiare nella vasca da bagno.
      E' la scoreggia più faticosa, perché l'aria deve smuovere una notevole quantità di acqua e ciò richiede un certo sforzo, ma che soddisfazione quando le bollicine risalgono verso la superficie e si ode il caratteristico suono blob, blob!

      Per concludere, esaminiamo brevemente le tipologie di scoreggia.
      Quanto a sonorità, le scoregge sono di due tipi: rumorosa e silenziosa. E' interessante notare che i nomi di queste due scoregge sono onomatopeici: la scoreggia rumorosa viene detta "pereta", sostantivo che rimanda al suono di una tromba ("peré-pepé-pepé!"), mentre quella silenziosa viene definita "loffa", termine che evoca qualcosa di svolazzante e subdolo. Anche perché, di solito, la loffa è più puzzolente della pereta: quest'ultima espelle aria dopo adeguata compressione intestinale, mentre la prima, oltre all'aria, può espellere anche particelle nebulizzate di feci.
      Da qui l'origine del nome della loffa semiliquida, detta appunto caloffa. Ecco le considerazioni fatte al riguardo dal prof. Luca Gambarelli, docente di Sfinteriologia alla Liberata Università di Castelnuovo ne' Monti e primario di Proctologia Meteoristica all'Ospedale Fateariafratelli di Baiso nonché autore di saggi sulla caloffa che hanno acquisito fama internazionale: "Elessi la caloffa al ruolo di 'più pericolosa', in quanto essa è la linea di confine tra la scoreggia e la sgommata nelle mutande".
      Un dubbio filosofico, direi quasi metafisico, sorge a proposito della caloffa: è scoreggia liquida o cagata nebulizzata? Come direbbe Alessandro Manzoni, ai posteri l'ardua sentenza.


Riferimenti bibliografici.
Liberata Kolkul Trombetta, Il meteorismo come terapia di liberazione dalle inibizioni cul-turali, 1995, Roma, Edizioni Il Soffio di Eolo.
Analij Bukowskij, Vento possente dai visceri ovvero la trasgressione del peto, 1997, New York, Meteorism Press.
Luca Gambarelli, Quando il paziente ti scoreggia in faccia in Quaderni di meteorismo, IV, pp. 213-45, 2010, Reggio Emilia, Edizioni Scientifiche del Cusna.
Luca Gambarelli, L'incidenza delle caloffe nella protezione antiparassitaria delle coltivazione della lavanda, 2014, Villa Minozzo, Edizioni dei Calanchi Reggiani.
Maury Albertazzi, Il meteorismo come valvola di sfogo al priapismo. Testimonianze autobiografiche, 2015, Mediglia, Casanova Edizioni.

domenica 16 ottobre 2016

Quando in strada ti scappa la pipì

      Se volessi elaborare una legge in stile Murphy, scriverei: "Quando sei fuori di casa per una passeggiata o per una commissione, ti viene voglia di urinare nel punto più lontano dalla tua abitazione".
     Ed è proprio così: il bisogno di fare pipì ti viene proprio nel punto di massima lontananza da casa tua o dal primo servizio igienico disponibile: nemmeno cento metri prima, dove potresti invertire la rotta; e nemmeno cento metri dopo, quando sei già sulla via del ritorno. Giusto, così, per darti il massimo del cammino da fare con la vescica che reclama impellentemente.

      E', quello minzionico, un bisogno subdolo, che non si annuncia gradualmente, in modo che tu possa accelerare il passo o fare dietrofront, ma all'improvviso e in tutta la sua massima intensità. Che cessa solo quando potrai finalmente scaricare l'incomodo liquido che carsicamente spumeggia nelle tue parti intime.
      Quando ti coglie, come un fulmine a ciel sereno, la prima cosa che pensi è come mai non sei andato in bagno prima di uscire di casa. Eppure una disavventura del genere ti è già capitata centinaia di volte. Ma tu niente: continui a disattendere questa piccola e pur efficacissima precauzione oltretutto salutare, perché l'urina è sempre meglio scaricarla appena possibile, anche senza avvertire alcuno stimolo.

      Cosa fare quando ti viene voglia di orinare quando hai raggiunto lo "zenit orizzontale" della tua passeggiata o della tua commissione? Ovviamente ti dirigi subito verso casa. A meno che tu non conosca nelle vicinanze un bar o comunque un locale dotato di servizi igienici aperti al pubblico. Oppure non ti trovi nei pressi di qualche vespasiano ubicato in un parco. Quest'ultima soluzione però è da evitare per motivi igienici: meglio affrontare una veloce ritirata verso casa.

      In un attimo scegli la direzione da prendere. Se hai fatto finora un percorso lineare non devi nemmeno decidere: ti basta girare sui tacchi e tornare indietro. Ma se la tua passeggiata è "circolare" o "quadrangolare", cioè se a un certo punto hai girato a destra o a sinistra ed ora ti trovi sì in posizione perpendicolare rispetto a casa tua ma devi comunque affrontare delle svolte a destra o a sinistra, devi decidere se tornare indietro o proseguire per arrivare a casa dalla direzione opposta rispetto a quella da dove sei partito. Di solito, non fa alcuna differenza ma a volte la presenza di più semafori da una direzione rispetto all'altra oppure la diversa durata del "rosso" fra i semafori, obbliga ad una rapida analisi del percorso prima di incamminarsi verso l'agognata meta ossia verso il casalingo wc.
      Comunque sia, quando ti scappa becchi tutti i semafori rossi, che rimangono di quel colore per una durata che a te sembra interminabile. E come se non bastasse, quando il semaforo diventa verde ti trovi spesso un'automobile o un camion davanti, che vuole, anzi, pretende di svoltare e col cavolo che si è fermato prima della linea dello stop quando il semaforo è diventato giallo.
      Lungo i marciapiede, poi, incontri tutte persone che conosci e tutte, dico tutte, si fermano per chiacchierare con te. Nove su dieci di solito o ti rivolgono un saluto frettoloso e tirano avanti per la loro strada o girano la testa da un'altra parte per non salutarti. Ma quando ti scappa la pipì e vorresti tornare a casa il più in fretta possibile, allora no: ti fermano, parlano di cose di cui a te non importa un fico secco e, se per caso accenni ad andartene, ti trattengono per un braccio per farti sentire la fine dei loro inutili sproloqui. Bastardi.

      Appena ti liberi dei rompiscatole, ti prende l'istinto di accelerare il passo per arrivare a casa il più in fretta possibile. Errore da non fare: più uno corre e più la pipì ribollisce dentro, aumentando lo stimolo.
      Ai semafori rossi, per cercare di trattenere la pipì ti metti a saltellare come se ti avesse morsicato una tarantola. La figura del fuori di testa è assicurata.

      Finalmente giungi non alla Terra Promessa ma al portone dello stabile dove abiti.
      Cerchi le chiavi di casa ma non le trovi. La pipì ribollisce sempre di più. Come per tutte le cose, più ti affanni a farle e più tardi le finisci. E così frughi freneticamente nelle tue tasche, una, due, tre, quattro volte. Niente: non saltano fuori. Appena riacquisti un po' di calma, infili la mano in una tasca, senti un fazzoletto, la premi su di esso e ti accorgi le il mazzo di chiavi sta sotto il fazzoletto.
      Afferri rabbiosamente le chiavi ma le tue mani, ormai tremolanti, proprio non vogliono sapere di pescare dal mazzo la chiave giusta, anche se in esso le chiavi non sono più di quattro o cinque.
      Alla fine ce la fai. Prendi la chiave giusta, la infili nella toppa, il portone si apre e ti trovi nell'androne.

      Alla velocità della luce che neanche Superman giungi davanti alla porta dell'ascensore. Occupato.
      Passano i secondi, anche i minuti. Niente. Due stronzi o due stronze stanno beatamente chiacchierando sul pianerottolo del terzo o quarto piano, naturalmente tenendo aperta la porta dell'ascensore.
      La voglia di scaricare la vescica cresce in misura direttamente proporzionale alla volgarità degli insulti che vorresti rivolgere a chi non lascia libero l'ascensore.

      Alla fine dell'interminabile chiacchiericcio, lo chiami e lo prendi.
      Ti rendi conto che la tua capacità di resistenza è ormai al limite e, usando la Ragione, mentre l'ascensore sale decidi di portarti avanti col lavoro e ti sbottoni il cappotto o il giubbotto.

      Esci sul pianerottolo e, saltellando ormai incontrollabilmente, la porta del tuo appartamento.
      Ti precipiti con la stessa velocità di un proiettile verso il bagno, senza curarti del rischio di travolgere persone o cose.
      Entri nel bagno e senza badare minimamente di chiudere la porta o la finestra eventualmente rimasta aperta ti fiondi davanti alla tazza del water: il tuo unico desiderio è orinare, non ti importa un fico secco se qualcuno ti vede farlo.
      A quel punto, se nell'ascensore non ti sei curato di alcun pudore e non ti sei già abbassato la cerniera dei pantaloni piombando sul pianerottolo con la lampo abbassata, l'ultimo ostacolo da superare è appunto la cerniera, la quale funzionava benissimo tutte le volte che andavi in bagno senza che ti scappasse la pipì e ora, invece, si è incastrata.
      Cominci ad armeggiare con la lampo, che proprio non vuole saperne di sbloccarsi. Provi e riprovi, mentre mentalmente ti poni delle alternative tipo prendere un paio di forbici e fare a pezzi i pantaloni pur di liberarti la zona inguinale, e alla fine ce la fai ad abbassare la cerniera.
      Sembra fatta ma, colpo di scena!, sarà per il saltellare o per i movimenti frenetici per sbloccare la lampo, ti accorgi che si è attorcigliata in modo allucinantemente contorto l'apertura delle mutande adibita a far uscire il pisello per poter fare la pipì.
       Cominci allora ad armeggiare con le mutande, sfiorandoti ripetutamente il pisello, che alla minima sollecitazione potrebbe mollare la pipì, con conseguenze facilmente immaginabili. Ovviamente sei talmente concentrato su quest'ultimo imprevisto che non pensi nemmeno lontanamente alla figuraccia imbarazzante che faresti se, dalla finestra aperta qualcuno dai palazzi di fronte ti stesse guardando e ne traesse la conclusione, sbagliata ma pur verosimile, che tu ti stessi facendo una pippa.

      Alla fine anche l'ostacolo delle mutande è superato, appianato, rimosso, sia che riesci a sbrogliare la matassa attorcigliata, sia che vai per le spicce e te le tiri giù.
      E puoi dar libero sfogo alla tua impellenza, sparando un getto liquido come da un idrante a dieci atmosfere.
      Attento però a mantenere il controllo: se nell'atto liberatorio non tieni il tuo "idrante" ben posizionato verso la tazza del water, rischi che le tue personali "cascate del Niagara" incrementino di 1 il numero dei Grandi Laghi dell'America del Nord.

martedì 11 ottobre 2016

Gli errori di Dan Brown in "Angeli e demoni"

      I romanzi di Dan Brown hanno avuto uno strepitoso successo, soprattutto quelli aventi per protagonista Robert Langdon.
      Non escludo affatto che una parte delle critiche che gli sono piovute addosso siano dovute ad invidia; salvo poi scrivere libri per confutare le affermazioni contenute nei suoi romanzi, il che a ben vedere significa sfruttare la fama di Dan Brown per vendere libri che dovrebbero stroncarne le opere.
      A me i romanzi di Dan Brown piacciono, indipendentemente che egli voglia lanciare attraverso di essi messaggi di polemica intellettuale o sfruttare un po' cinicamente certi temi che sono, come dire?, "caldi" e che fanno sempre parlare chiunque li affronti, a mezzo libro, stampa, tv o altri media.
      Ma forse Dan Brown non persegue nemmeno uno di questi due fini; forse è semplicemente interessato dai temi che sceglie per i suoi romanzi. In attesa di riscontri credibili, bisogna concedergli il beneficio d'inventario.
      I suoi thriller mi piacciono, mi appassionano, trovo che siano scritti (e tradotti) bene. La vita del lettore non deve essere sempre imperniata sui saggi e sulle poesie: vi deve essere anche lo spazio per lo svago.
      E i libri di Dan Brown devono essere a mio parere intesi e letti come opere di svago; se poi attraverso di essi il lettore si avvicina a libri che trattano scientificamente gli argomenti da lui toccati, meglio ancora.
      A questo punto sorge la questione, suscitata dagli indubbi errori di distorsione storiografica dei riferimenti citati nei libri di Dan Brown: fino a che punto un romanziere (e in generale un autore di opere letterarie) può falsare la verità per conferire credibilità alla trama dei suoi libri?
      La risposta, di buon senso, è che basta non esagerare con le "licenze letterarie", distorcere il meno possibile e, soprattutto, limitare le"licenze" ai fatti e alle idee meno importanti di un evento storico odi un sistema filosofico, scientifico o religioso.

      Dan Brown, a tal riguardo, di travisamenti ne commette troppi, decisamente troppi.
     Guardando ai romanzi della "saga" di Robert Langdon, ammetto di non avere né l'interesse né le competenze in materia di esoterismo, per cui mi è impossibile analizzare Il codice daVinci e Il simbolo perduto. Meglio ricorrere agli scritti di Massimo Introvigne per questa bisogna.
      E non ho nemmeno le competenze dantesche per "setacciare" le pagine di Inferno, che peraltro è il romanzo di Dan Brown che mi è piaciuto di più.
      Mi limiterò dunque a "fare le pulci" ad Angeli e demoni, in quanto il Vaticano e le sue vicende da sempre mi appassionano e qualche conoscenza al riguardo l'ho accumulata nel corso degli anni.
      Per la verità, Angeli e demoni ha due pilastri culturali: il Vaticano e la scienza galileiana.
      Su quest'ultima, pur non essendo competente in materia, ho rilevato un grande strafalcione, il più grave strafalcione in cui chi si occupa dell'argomento possa incorrere: Dan Brown attribuisce a Galileo la scoperta del carattere ellittico e non circolare delle orbite dei pianeti, quando invece Galileo,sulla scia di Copernico, sosteneva che esse fossero circolari e solo successivamente Keplero ne scoprì la traiettoria ellittica.
      Uno studente che durante un esame attribuisse a Galileo la scoperta del carattere ellittico delle orbite planetarie verrebbe immediatamente cacciato via dal docente esaminatore.
      Possono le esigenze della trama del thriller giustificare una simile castronata? In questo caso, dico sicuramente di no.
      Non parliamo poi dell'impossibilità che Galileo sia stato il fondatore della setta degli Illuminati. Lasciando pure perdere che per Illuminati storicamente si intendono quelli di Baviera, società segreta che nacque in periodo illuminista, e dunque posteriore all'epoca in cui visse il fondatore della scienza moderna, resta il fatto che, dopo la sua condanna da parte del Sant'Uffizio, Galileo visse di fatto confinato agli arresti domiciliari e, soprattutto, sorvegliatissimo, e quindi, se anche avesse voluto fondare una setta al fine di preservare le verità scientifiche dall'oscurantismo, non gli sarebbe stato materialmente possibile. Ma fin qui, trattandosi di un romanzo, possiamo accettare questa cosa inverosimile come tributo allo svolgimento della trama.
      Veniamo ora ai riferimenti "vaticanisti". L'elenco di strafalcioni browniani che ho rinvenuto in Angeli e demoni è piuttosto lungo. E se è lungo il mio, fatto da semplice cultore di materia,immaginiamoci quanto potrebbe esserlo uno redatto da un esperto sull'argomento.
      Procediamo dunque un passo alla volta, uno svarione alla volta.
      1. Non è vero che l'elezione di un nuovo papa sia un evento che interessa solo all'Italia e ai cattolici sparsi nel mondo (che per altro sono molto numerosi) ma attira l'attenzione anche di tutti i non cattolici; di conseguenza, è impensabile che i media, e soprattutto le emittenti televisive, seguano il  Conclave distrattamente e mandino a curare i servizi giornalisti di secondo piano, se non addirittura mezze calzette.
      2. Non è possibile che al Conclave partecipino 165 cardinali: il numero massimo del Collegio Cardinalizio è 120 e praticamente, per malattie od "opportunità diplomatiche", non entrano tutti e 120 nella Cappella Sistina per eleggere il nuovo pontefice.
      3. Non è vero che il Papa deve essere scelto fra i soli cardinali: anche se da secoli non succede più, al Soglio di Pietro può essere eletto anche un vescovo non porporato, anche un semplice prete, anche un diacono, perfino un laico (purché non sposato). Pietro da Morone (Celestino V, quello del "gran rifiuto") era ad esempio un semplice eremita.
      4. Non esiste la figura del Grande Elettore, che dirige le operazioni del Conclave (lo scrutinio e la bruciatura delle schede vengono sovrintesi da tre cardinali, scelti a turno ad ogni votazione) e di conseguenza è errato affermare che non può essere eletto papa (nessun porporato, del resto, entra in Conclave col "divieto" di venire eletto al Magistero Petrino).
      5. Non è vero che il Camerlengo non deve essere cardinale, anzi, è prassi che sia proprio un cardinale, quindi deve partecipare al Conclave e non può quindi sovrintendere alla sicurezza dello Stato della Città del Vaticano durante l'elezione papale, essendo anch'egli "chiuso a chiave" a Santa Marta e nella Cappella Sistina. E' inoltre inverosimile che la carica di Camerlengo venga affidata al segretario personale del Papa.
      6. E' insolito che i cardinali entrino in Conclave nel pomeriggio inoltrato e che le votazioni inizino subito: è prassi che i porporati entrino nella Cappella Sistina nel primo pomeriggio, prestino uno alla volta il giuramento di mantenere il segreto su quanto accadrà in Conclave, poi la Cappella viene chiusa ed essi si ritirano a Santa Marta; le elezioni iniziano la mattina successiva.
      7. Non è vero che in Conclave le votazioni vanno avanti ad oltranza a distanza di un'ora una dall'altra: il Conclave prevede un massimo di 4 votazioni al giorno, due alla mattina e due al pomeriggio-sera; inoltre, tra voto, scrutinio e bruciatura delle schede, ogni votazione richiede più di un'ora.
      8. Nel corso dei secoli, non è mai trapelata indiscrezione alcuna circa la consuetudine dei cardinali riuniti in Conclave di votare ognuno per se stesso al primo scrutinio per evitare che il pontefice venga eletto al primo turno.
      9. Non mi risulta che il Vaticano, durante il Conclave, rimanga deserto e che i suoi funzionari e dipendenti vengano fatti uscire.
      10. Dan Brown scrive che la sicurezza del Vaticano è affidata alle Guardie Svizzere. Non fa alcun cenno alla Gendarmeria, l'altro corpo armato che vigila sullo Stato della Città del Vaticano.
      11. I colori della divisa delle Guardie Svizzere non sono solo il giallo e il blu mail giallo, il rosso e il blu.
      12. Fra i dirigenti delle Guardie Svizzere citati nel romanzo, uno ha un cognome italiano, Olivetti, e un altro un cognome francese, Rocher. Ora, le Guardie Svizzere vengono reclutate nei Cantoni Elvetici di tradizione cattolica e di lingua tedesca: inverosimile che i vertici delle Guardie Svizzere non abbiano cognomi tedeschi.
      13. Non è vero che i papi defunti vengono deposti nel feretro senza chiuderlo e che il feretro venga deposto nella tomba su cui viene semplicemente posata la lapide senza fissarla con viti: il feretro viene chiuso, così come la lapide sulla tomba viene fissata.
      14. Le salme dei pontefici defunti vengono esposte per l'omaggio che la gente e delle autorità e inoltre vengono riprese dai media di tutto il mondo: a meno che al papa defunto del romanzo non abbiano chiuso la bocca per esporne la salma alla devozione popolare e poi riaperta prima di deporlo nella tomba (ma che senso avrebbe avuto riaprirgliela?!), è letteralmente impossibile che nessuno, vedendone la lingua annerita, abbia nutrito sospetti sul suo avvelenamento.


      Ammettiamo pure che alcuni di questi travisamenti siano dovuti ad esigenze di ambientazione e di trama ma resta il fatto che sono troppi e danno una visuale distorta di quello che sono l'immagine e il funzionamento quotidiano del Vaticano.

lunedì 10 ottobre 2016

Gocce che cadono lente

Gocce che cadono lente,
scivolando in silenzio
lungo le foglie inclinate
della vita.

Tempesta che scuote,
scarnifica, strazia,
oppure
pioggia leggera
che viene a rimediare
a prolungata arsura,

poco importa:

ultime gocce a cadere
lasciano su sottili verzure
l'umida traccia
della malinconia,

ricordi di dolori patiti,
che rughe profonde hanno
nell'anima scavato,

ricordi di gioie provate,
che fiori d'allegria hanno
nell'anima fatto sbocciare,

ricordi di ciò che non c'è più
e ci è stato sottratto dal Tempo.

Malinconia di dolori
che rimangono, seppur attenuati.

Malinconia di gioie,
che a poco a poco
da noi s'allontanano.

Malinconia:
gocce che cadono lente.

sabato 1 ottobre 2016

Piccole storie dell'Appennino

      Nel film Il ciclone, Leonardo Pieraccioni dice che “in un paese si fa presto a diventare dei personaggi”.
      Anche Villa Minozzo, paesino dell’Appennino tosco-emiliano sul versante reggiano, ha visto passare lungo il fiume del tempo parecchi di questi personaggi, le cui “gesta” in una città rimarrebbero appannaggio della conoscenza di pochi ma che in una località abitata da poche migliaia di anime, dove si conoscono tutti, li fanno diventare dei veri e propri miti locali, che a volte sfidano il corrosivo scorrere dei decenni dei secoli, che cancella volti e ricordi.
      Sfida che viene vinta quando il racconto delle loro imprese viene intercettato da chi ha la mania di scrivere, di fissare sulla carta (o su un hard disk) non solo le proprie idee e le proprie emozioni ma anche le testimonianze di fatti di cui altri sono stati protagonisti, attivi o passivi.

      Eventi passati di bocca in bocca, inevitabilmente deformati da una condivisione di racconto all’altra, ma che contengono una parte sostanziale di verità, come tutte le vicende consegnate al mito, sia pure un mito locale, da cultura popolare, alimentato da uomini che non hanno fatto la Storia e che presto sono diventate anonime anche alle generazioni successive ai fatti di cui si sono resi protagonisti.

      Quand’ero piccolo, mio padre mi raccontava dell’amicizia che per tutta la vita legò Baracca e Rondel. Un’amicizia che poteva durare solo nei paesi di una volta, in cui uno trascorreva tutta l’esistenza avendo come orizzonte il proprio paese o tutt’al più quelli limitrofi e uscendo da quell’orizzonte solo in via eccezionale, come un acquisto importante, una visita a una fiera o un pellegrinaggio a qualche santuario famoso. Un’amicizia, a dire il vero, un po’ movimentata dal fatto che Rondel era un burlone sempre in vena di scherzi, un Buffalmacco dell’Appennino insomma, e Baracca era, di solito, colui che quegli scherzi subiva.
       Lo scherzo più bastardo che Rondel fece a Baracca e che si trasmise ben presto di bocca in bocca ebbe luogo il giorno in cui Baracca si addormentò su un prato, con un braccio piegato e posto sotto la nuca a mo’ di cuscino e l’altro disteso perpendicolarmente al corpo, col palmo rivolto verso l’alto.
      Intuizione e improvvisazione, ho sentito dire in un film. Sinonimo di creatività e componenti fondamentali dell’intelligenza. Che a Rondel non doveva difettare di certo e che si attivò nel vedere l’amico dormire della grossa all’aria aperta.
      Come in molte imprese ben riuscite, anche il caso ebbe la sua parte. Chissà, se quel giorno e proprio in quel momento Rondel non avesse avuto impellenti stimoli intestinali …
      Fatto sta che si calò pantaloni e mutande, e andò a defecare sul palmo della mano dell’addormentatissimo Baracca, che non si svegliò sotto il peso e al calore di quella sgradevolissima mousse.
      Era intenzione di Rondel limitare lo scherzo a quella insolita deposizione o il proseguimento della burla “ecologica” era stato da lui progettato in partenza? Nessuno venne mai a saperlo.
      Comunque sia, Rondel prese uno stelo dal campo e con esso si mise a solleticare il naso di Baracca, come se una fastidiosa mosca gli stesse volando ripetutamente sotto le narici.
      Al primo passaggio della “mosca”, Baracca reagì arricciando il naso, più come reazione fisiologica che come risveglio. Stessa reazione al secondo passaggio: Baracca ancora addormentato. Arricciata ripetuta e più decisa al terzo sfiorare di naso con lo stelo: Baracca già cosciente ma con gli occhi ancora chiusi.
      Alla quarta solleticata da parte di Rondel, Baracca doveva essersi ridestato abbastanza da prendere la decisione di scacciare la “mosca” con la mano libera ma i suoi sensi non dovevano ancora essere vigili per percepire che sul palmo della mano c’era qualcosa di “cremoso” e che questo qualcosa emanava un inconfondibile odorino.
      E così il povero Baracca solleva la mano e, paf!, si cala energicamente il palmo sulla faccia, sporcandosela di cacca.
      Rondel morì quasi centenario: segno che divertirsi e combinare scherzi allunga la vita.

      In un piccolo paese chi ha qualche problema, soprattutto se intellettivo, rischia di diventare l’oggetto di scherno generale (“lo scemo del villaggio” tramandato da tanta cultura popolare), con relativa emarginazione sociale, oppure viene guardato con bonaria indulgenza, viene grosso modo adottato da tutti, che gli perdonano qualche “eccesso” che a volte può compiere.
      La seconda alternativa a Villa Minozzo sembra essere stata quella di Colombo, il quale, oltre ad essere un po’ tardo di comprendonio (come il Gervasio di manzoniana memoria), era anche ladro. Il classico ladro di polli, figura frequente in paesi dalla miseria secolare nei quali chi è ridotto allo stremo cerca di arrangiarsi per sopravvivere.
      Non mi risulta, dai racconti paterni, che Colombo abbia mai subito guai giudiziari per essere, come si suol dire, un po’ lesto di mano. Ogni suo furtarello sembra essersi risolto con una ramanzina da parte delle autorità locali e, quando fu possibile, con la restituzione del maltolto.
      Che non fu possibile dare indietro al proprietario quella volta che Colombo si intrufolò in una casa, anzi, nella cantina di una casa e rubò un salame.
      Probabilmente il ladruncolo venne visto in giro con l’insaccato in mano oppure le precedenti appropriazioni indebite di cui si era reso protagonista indirizzarono subito i sospetti su di lui, fatto sta che, dopo che il proprietario di sì prezioso bene si fu recato dai Carabinieri per sporgere regolare denuncia del furto subito, il maresciallo andò subito all’abitazione di Colombo. E qui lo trovò.
      Gli chiese se era stato lui a rubare il salame di quel tale e Colombo rispose di no.
      Glielo domandò una seconda volta. Identica risposta.
      A questo punto, il graduato della Benemerita, conoscendo la proverbiale ingenuità di Colombo, gli disse: “Scommetto che hai mangiato anche la corda del salame”.
      “E no, - precisò subito Colombo. - La corda l’ho data al gatto”.
      Confessione spontanea e attendibile. “Al di là di ogni ragionevole dubbio”, come recita la famosa espressione giudiziaria.
      In un’altra circostanza, a Colombo venne in mente di andare a rubare una tela di canapa che una famiglia di contadini aveva tessuto e disteso su un prato.
      Per non essere visto, l’Arsene Lupin di Villla Minozzo decise di agire di notte, quando cioè i proprietari della tela erano andati a dormire.
      Fin qui, niente da dire sull’astuzia di Colombo.
      Peccato però che, man mano che arrotolava la tela per portarsela via, si mise a gridare ripetutamente: “Oè, gente! Dormite, dormite, ché la tela la va!”. Ossia: “Dormite, dormite, che la tela se ne va!”.
      A forza di quelle urla, i contadini ebbero il tempo di svegliarsi, vestirsi alla bell’è meglio, uscire di casa con delle lanterne e riconoscere il ladruncolo con la tela sulle spalle, la quale … la andava.

      Passiamo ora ai personaggi anonimi, del quale si è perso nome, cognome o soprannome nel corso del tempo, nei ripetuti passaggi delle loro azioni da un racconto all’altro.

      Ogni anno a Villa Minozzo (o nei dintorni) si teneva una fiera del vino, durante la quale chi aveva prodotto più nettare di Bacco delle necessità famigliari ne vendeva l’eccedenza.
      Lo zio Ennio, mio padrino, mi raccontava spesso di quei due uomini che, non si sa se per mancanza di denaro o per il semplice piacere di scroccare, si facevano il giro di tutti i banchi della fiera e, con la scusa dell’assaggio gratuito, bevevano un bicchierino di qua e uno di là, naturalmente senza acquistare vino.
      Alla sera, alla conclusione della fiera, li trovarono sdraiati su un prato, completamente ubriachi. Avevano cioè “chiappà la bala”, preso la balla, preso una sbronza. E pure coi fiocchi!

      Fino a non tanti decenni fa, la vita nell’Appennino tosco-emiliano era dura, faticosa, e per quasi tutti gli abitanti della zona bere un bicchiere all’osteria costituiva l’unico svago, l’unica occasione per socializzare, magari dopo una giornata passata nei campi per cercare di tenere lontano una miseria sempre in agguato. Estremamente istruttivi sono al riguardo i romanzi di Loriano Macchiavelli e di Francesco Guccini dedicati alle indagini del maresciallo Santovito.

      Come in ogni luogo e in ogni epoca, anche a Villa si beveva per il legittimo piacere di un buon bicchiere di vino in compagnia. A volte, però, si beveva per cercare di dimenticare temporaneamente le fatiche e le amarezze della vita.
      Come quel montanaro, - fu sempre lo zio Ennio a raccontarmelo, - il cui figlio, beccato in flagrante a rubare, era stato arrestato e condannato a qualche anno di prigione. Una volta la magistratura ci andava giù pesante con le sentenze, soprattutto quando gli imputati erano povera gente, e non largheggiava certo nel concedere le circostanze attenuanti o la sospensione condizionale della pena.
      Avere un figlio in galera era per una famiglia onesta un dolore e un disonore insopportabile. E al pover’uomo non restò che trovare conforto nella bottiglia e nell’osteria.
      Fatto sta che una sera uscì dall’osteria completamente ubriaco e traballante si avviò verso casa. A metà circa del cammino si fermò davanti a una cappelletta votiva che conteneva l’immagine della Madonna e le si rivolse con le seguenti, amare parole:

      At salut, Maria! (Trad. it.: “Ti saluto, Maria!”) Tu sei piena di grazia e io sono pieno di vino. Tuo figlio è in croce, mio figlio è in galera: due famiglie rovinate.

      Religione vista come conforto e figure legate ad essa come protettrici dalle avversità della vita. Ma anche come persone reali, a cui rivolgersi per sfogarsi o, in certi casi, con cui prendersela se le cose non vanno per il verso giusto.
      Pare che una volta un barbuto signore di Villa Minozzo, recatosi in chiesa a pregare, come ulteriore atto di devozione si fosse chinato a baciare i piedi del Crocifisso. Nel farlo, però, si impigliò la barba nel chiodo e, quando si alzò, se ne strappò una parte piuttosto dolorosamente. Per il male che sentiva al volto e per la rabbia per l’incidente occorsogli, uscì dalla chiesa piuttosto di cattivo umore.
      Il giorno dopo ritornò in chiesa e si avvicinò al punto dove c’era il Crocifisso, che però nel frattempo era stato sostituito con un altro, più piccolo, non si sa se perché nell’incidente era stato in qualche modo danneggiato o se perché il cambio era semplicemente già stato deciso dal parroco.
      Il racconto che sentii a suo tempo a Villa descriveva il “barbudo” come intenzionato a distruggere il Crocifisso a colpi di martello. Difficile credere che le cose siano andate esattamente così, non foss’altro perché chi un giorno si china a baciare il simbolo principale della sua religione non può essere animato da vendetta profanatrice. Ma tant’è: le leggende, anche quelle piccole, locali, prodotto della cultura popolare, si arricchiscono col tempo di particolari posticci che spesso ne distorcono lo svolgimento degli eventi originari.
      Sia come sia, vedendo la sostituzione del Crocifisso, il barbuto si rivolse a quello nuovo, e più piccolo, dicendogli: “Dì a tuo padre che è inutile che abbia mandato te al suo posto: prima o poi lo becco lo stesso”.

      Una sera un contadino entrò nella chiesa di Villa Minozzo per farsi confessare dal parroco.
      Vista la lunga fila che c’era davanti al confessionale, chiese a tutte le persone che si trovavano in coda se potessero farlo passare prima perché doveva tornare alla sua cascina prima possibile per mungere le mucche.
      In un’epoca e in un paese in cui la disponibilità ad essere di aiuto al prossimo era ancora di casa, tutti acconsentirono. Al giorno d’oggi, invece, specie in una grande città, dove la maleducazione impera, se qualcuno ha bisogno di avere la precedenza in una coda, quasi nessuno gliel’accorderebbe e magari molti non lo degnerebbero nemmeno di una risposta, sia pure negativa.
      Il contadino si accomodò dunque in pole position, in attesa che il parroco finisse di confessare il fedele che stava vuotando il sacco dei suoi peccati.
      Passa un quarto d’ora e ancora il fedele davanti a lui si sta confessando. Passa un altro quarto d’ora ed è ancora lì. Quanti peccati deve avere sulla coscienza!
      Allo scoccare del terzo quarto d’ora il contadino perde la pazienza e gli urla dietro: “Insomma, porca miseriaccia! Sbrigati, ché devo andare a mungere le vacche!”.
      E qui ammetto di avere distorto in racconto originario. Non solo perché il povero contadino imprecò in dialetto ma anche, e soprattutto, perché non disse: “Porca miseriaccia!”, ma al posto di questa espressione proferì una delle più comuni bestemmie, che non cito per rispetto verso la sensibilità religiosa dei lettori.
      In effetti, bestemmiare in pubblico non è mai bello, perché, indipendentemente dalle diverse opinioni che ognuno può avere sulla religione, non bisogna offendere le idee degli altri. Bestemmiare in chiesa, poi, è decisamente un ossimoro dialettico.

      In un paese di montagna, dove la vita è dura e la miseria non è solo un concetto imparato sui libri di scuola, accade sovente di incontrare persone dal cuore generoso ma dalla pelle indurita da fatiche e sofferenze, persone magari burbere nei modi ma che rispondono sempre sì quando si tratta di aiutare qualcuno in difficoltà, persone dalla fede religiosa saldissima ma che bestemmiano in continuazione, prendendosela non con Dio ma con la  crudeltà dell’esistenza che conducono.
      Persone la cui fede cristiana non venne meno nemmeno quando, durante la Guerra Partigiana e dopo la Liberazione, aderirono al comunismo, formando quel solidissimo zoccolo duro (che solo dopo il 1989 si è sfaldato) che ben poco aveva a che fare col marxismo dogmatico e che può essere definito cattocomunista non solo negli anni di Berlinguer ma anche nel precedente periodo togliattiano. “Col pugno chiuso e col segno della Croce”, - come disse Achille Occhetto, allora segretario della F.G.C.I., ai funerali di Palmiro Togliatti.
      A Villa Minozzo accadde che, a Liberazione avvenuta, si dovette ricostruire la chiesa parrocchiale, danneggiata insieme a tante altre costruzioni dalle armi pesanti.
      Il parroco di allora chiamò tutta la popolazione a partecipare ai lavori di ricostruzione, chi con denaro, chi con la fornitura dei materiali, chi col lavoro manuale.
      Vi presero parte anche coloro che avevano aderito politicamente al comunismo. Tradizioni di famiglia, capacità di separare la sfera pubblica in cui impegnarsi in politica da quella privata in cui continuare a professare la propria religione, consapevolezza che la chiesa parrocchiale era un bene di tutta la comunità e tutti, credenti o no, dovevano sentire il dovere di prendersene cura: tutti buoni motivi che spinsero anche i “rossi” a partecipare alla ricostruzione dell’edificio di culto.
      A restauro terminato, poco prima di celebrare la prima messa dopo la riapertura dell’edificio di culto il parroco sbarrò l’ingresso a un gruppo di compaesani dicendo loro che non potevano entrare in chiesa in quanto erano comunisti e socialisti.
      Uno degli esclusi, un socialista appartenente all’unica famiglia di muratori che allora c’era a Villa, reagì dicendo all’ingrato presule: “Eh, no, la chiesa l’ho ricostruita io con la mia famiglia. Voglio proprio vedere se mi impedirete di andare a messa. Se non volete che entri, chiamate i Carabinieri”.
      Dopo di che forzò, senza peraltro incontrare resistenza, il posto di blocco del parroco (che si guardò bene dal chiamare la Benemerita) ed entrò in chiesa, dove assistette alla messa.
      Ad ogni modo, poco tempo dopo al posto del retrivo presule venne nominato parroco di Villa don Savino, uomo di profonda cultura teologica (era stato insegnante al seminario di Marolla) e di fede saldissima ma aperto alle esigenze del mondo e della gente: segno, questo, che per fortuna non sempre l’ortodossia dogmatica si sposa con l’assenza di umanità e di comprensione. Con don Savino, a nessuno venne vietato di entrare in chiesa e di partecipare alla messa, nemmeno ai “rossi”.
      La Chiesa dell’epoca proibiva ai giovani pii di andare a ballare, evidentemente considerando peccaminoso tale passatempo. Il risultato fu che, a Villa Minozzo come in tanti altri paesi, i giovani cominciarono ad andare a ballare alle Feste de L'Unità, gli unici ritrovi pubblici in cui in montagna o in campagna fosse possibile darsi alle danze. Don Savino ebbe l’intelligenza di capire che, per evitare che i giovani venissero interessati dalla propaganda politica, l’unico modo possibile era autorizzare i balli in parrocchia; e così fece: i giovani villaminozzesi di allora poterono andare a ballare con la benedizione di Santa Romana Chiesa. D’altronde, allo stesso don Savino piaceva la musica e i balli, tant’è vero che ogni tanto si confidava a qualche parrocchiano: “Se non avessi la tonaca, andrei a suonare il piano nelle orchestre da ballo”.
      Incontrai don Savino solo una volta: la mia nonnina Anna Maria era morta ed egli venne a renderle omaggio. Avevo undici anni e mia zia Tilde mi presentò a lui dicendogli che avevo lo stesso nome, Contardo, del mio nonno paterno. Non ricordo cosa mi disse ma mi mise subito a mio agio con la sua umanità e la sua simpatia; in giorni di tristezza come quelli della morte di mia nonna, riuscì perfino a farmi ridere un attimo, facendomi solletico ad un ginocchio.
      Nel 1974, quando non era più parroco di Villa (anche se continuava a vivere nella canonica), fu lui a celebrare il matrimonio di mia cugina Anna Rosa con Aldo: lo scelsero sia per affetto verso di lui che per scarsa simpatia verso il nuovo parroco. A riparare diplomaticamente lo “sgarbo” fu invece quest’ultimo, due anni dopo, a celebrare le nozze di mia cugina Livia con Fernando. Al momento di scambiarsi le fedi, Livia venne presa da un momento di commozione e si mise a piangere; evidentemente fu un momento che si protrasse un po’ troppo a lungo, visto che a un certo punto il parroco le disse: “Allora, lo vogliamo mettere questo anello o no?”.
 
      Anche a Villa Minozzo, come in molti altri paesi delle montagne tosco-emiliane, il fascismo non mise radici, limitandosi a inviare un federale col compito di impedire il verificarsi di contestazioni e di azioni ostili al Regime.
      Solo pochi scalmanati avevano aderito convintamente e facinorosamente al fascismo. Contrariamente però ai loro emuli delle città, essi non andavano in giro col manganello ma col manarino, il che ovviamente era peggio, trattandosi di un coltello a lama lunga.
      Fatto sta che un giorno i teppisti fascisti decisero di fare una gazzarra pretendendo di entrare in chiesa a fare propaganda al duce e al Regime. Fecero però i conti senza l’oste.
      L’oste in questione era un omone grande e grosso che prima della messa al bando dei partiti di opposizione aveva militato nel Partito Popolare.
      Vedendo i fascisti avvicinarsi con fare baldanzoso alla chiesa, l’omone prese una sedia, la mise davanti all’entrata della chiesa e si sedette.
      Quando gli squadristi gli intimarono di levarsi di torno, disse loro, semplicemente: “Di qui non si passa”.
      A quel punto il capo dei teppisti, o forse il più baldanzoso di essi, estrasse il manarino e glielo puntò contro.
      Senza proferir parola, l’omone si alzò dalla sedia e, incurante della lama che lo minacciava, rifilò allo squadrista un manrovescio che lo stese. Il resto dell’”agguerrita” truppa si dileguò all’istante.
      Fatto sta che a Villa Minozzo il fascismo non attecchì profondamente. Tant’è vero che, in quegli anni non ancora toccati da tecnologie da Grande Fratello come i satelliti (che al giorno d’oggi sorvegliano e spiano tutto il pianeta), durante il Ventennio gli antifascisti ogni Primo Maggio, con la scusa della scampagnata, si ritrovavano sul Monte Cusna per cantare a squarciagola l’Internazionale e il federale di Villa non ne seppe mai niente o fece finta di non saperne mai niente.

      L’ultima storia che ricordo di Villa Minozzo non ha per protagonista una persona umana ma un animale, e precisamente una gallina.
      Un giorno mia nonna si accorse che era sparita una gallina. Dopo averla cercata a lungo, la dette per persa: forse era riuscita a scappare da un buco aperto nella rete del pollaio e se l’era mangiata qualche animale selvatico.
      Grande fu quindi la sorpresa dei miei parenti nel vedere, qualche settimana dopo, la gallina tornare a casa, seguita da una coda di pulcini.
      La fedele chioccia aveva deposto le uova in un bosco lì vicino e vi si era fermata a covarle. Poi, una volta nati i pulcini e cresciuti abbastanza da poter camminare dietro di lei, era tornata dai suoi padroni portandosi dietro tutta la nidiata.
      Commovente davvero, la storia. Anche perché, considerata la fame che c’era all’epoca da quelle parti, non credo proprio che né la gallina né i suoi pulcini abbiano potuto morire di vecchiaia, anziché finire in pentola.