Il Natale del ’73 fu il primo Natale in
cui non aspettai Gesù Bambino. In casa nostra non si usava dire che i regali li
portava Babbo Natale ma Gesù Bambino.
Non che compresi solo nel 1973 che il
Bambinello non c’entrava niente coi regali che a costo di rinunce personali mi
compravano mamma e papà. Ma quello fu l’anno in cui non andai a letto la sera
del 24 dicembre per sentire i miei genitori scendere in cantina a prendere quei
pacchetti che avrei aperto la mattina dopo.
L’anno precedente, l’ultimo in cui lo zio
Ennio, mio padrino di battesimo, venne dalla reggiana Villa Minozzo a passare
le Feste di Fine Anno con noi, il regalo principale era talmente voluminoso
(una bicicletta) che i miei l’avevano dovuto mettere sul balcone proibendomi
per qualche settimana di gettarvi lo sguardo: divieto che rispettai
disciplinatamente.
Nel ’73, invece, ormai ero cresciutello,
frequentavo la Terza Media Inferiore, e i miei i regali me li diedero la
mattina del 25 dicembre senza troppi sotterfugi.
Andammo tutti a letto di buon’ora: quello
era l’inverno dell’Austerity, che, oltre a comportare lo splendido esperimento
delle domeniche con divieto della circolazione delle automobili private, aveva
imposto la fine delle trasmissioni televisive prima delle undici di sera. E io,
non potendo quell’anno rimanere alzato a guardare i programmi che la Rai
mandava in onda la sera della vigilia di Natale, invece di aspettare Gesù
Bambino feci le ore piccole in camera mia leggendo I tre moschettieri di Dumas.
Quel Natale fu anche l’unico che, oltre a
zia Carla e zio Leandro, venne a passarlo da noi zio Renato, il fratello più
giovane della mia mamma. Di carattere riservato, mia madre riuscì a convincerlo
a venire da noi il giorno di Natale, anche se solo per quella volta, perché nel
giro di pochi mesi erano mancati entrambi i miei nonni materni e le dispiaceva
che lo passasse non dico solo ma quasi: a Rivara Canavese, è vero, Renato
viveva con un altro fratello e la di lui famiglia ma, come dire?, la sensibilità
e le premure non erano (e non sarebbero mai state) una caratteristica di quella
parte di famiglia.
Renato mi regalò un libro, La freccia nera di Stevenson, che mi
fece veramente felice. Ne avevo una versione per bambini, che i miei mi avevano
fatto trovare sotto l’Albero qualche anno prima, ma quella dello zio era molto
più completa e dettagliata. Ed era un romanzo da cui Anton Giulio Majano aveva
tratto uno splendido sceneggiato televisivo che aveva subito catturato la mia
attenzione e il mio gradimento.
Mi feci scrivere da Renato una dedica al
volume che mi aveva regalato. Quel libro è uno dei pochi romanzi per ragazzi
che abbia conservato in età adulta.
Da un po’ di anni è anche un modo per
ricordare Renato: rimase sempre scapolo, ebbe i suoi seri problemi di salute e
morì prematuramente nel 1989,
a cinquantun’anni d’età.
Ricordo il Natale del ’73 anche per
un’altra ragione. Quell’anno il medico mi aveva prescritto delle iniezioni di
calcio e mia madre me le fece fare, una al giorno, durante le vacanze
invernali, in modo che non mi disturbassero nei periodi di scuola.
Da qualche anno per le iniezioni ci
rivolgevamo a un’infermiera che abitava nel condominio dove vivevamo noi, la
“tota” Ritìn. Sia allora che dopo, ogni volta che necessitavamo di qualche
puntura non mancò di venire e non chiese mai una sola lira di compenso.
Ovviamente, avendo noi un fortissimo senso della gratitudine, ci “sdebitavano”
con scatole di cioccolatini o con le torte che mia madre era bravissima a fare.
Quell’anno, anche la mattina di Natale si
presentò a casa nostra per bucarmi il sederino, incurante del fatto che avrebbe
anche potuto giustificarsi per via dei festeggiamenti nella sua famiglia.
Or bene, quando aprii la porta, Ritìn si
presentò porgendomi un pacchetto di cioccolatini come dono di Natale.
Tra il serio ed il faceto, mia madre mi
disse: “Non solo viene a farti la puntura anche di giorno festivo ma
ti porta pure un regalo, quando dovresti essere tu a farglielo per le iniezioni
che ti fa”.
Erano altri tempi: le famiglie erano più
unite e, quando per qualche motivo non ci si poteva aiutare a vicenda, i
condomini sostituivano egregiamente i parenti nel sostenere chi aveva bisogno
di qualcosa.
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