venerdì 25 dicembre 2015

Il Natale del '73

      Il Natale del ’73 fu il primo Natale in cui non aspettai Gesù Bambino. In casa nostra non si usava dire che i regali li portava Babbo Natale ma Gesù Bambino.
      Non che compresi solo nel 1973 che il Bambinello non c’entrava niente coi regali che a costo di rinunce personali mi compravano mamma e papà. Ma quello fu l’anno in cui non andai a letto la sera del 24 dicembre per sentire i miei genitori scendere in cantina a prendere quei pacchetti che avrei aperto la mattina dopo.
      L’anno precedente, l’ultimo in cui lo zio Ennio, mio padrino di battesimo, venne dalla reggiana Villa Minozzo a passare le Feste di Fine Anno con noi, il regalo principale era talmente voluminoso (una bicicletta) che i miei l’avevano dovuto mettere sul balcone proibendomi per qualche settimana di gettarvi lo sguardo: divieto che rispettai disciplinatamente.
      Nel ’73, invece, ormai ero cresciutello, frequentavo la Terza Media Inferiore, e i miei i regali me li diedero la mattina del 25 dicembre senza troppi sotterfugi.
      Andammo tutti a letto di buon’ora: quello era l’inverno dell’Austerity, che, oltre a comportare lo splendido esperimento delle domeniche con divieto della circolazione delle automobili private, aveva imposto la fine delle trasmissioni televisive prima delle undici di sera. E io, non potendo quell’anno rimanere alzato a guardare i programmi che la Rai mandava in onda la sera della vigilia di Natale, invece di aspettare Gesù Bambino feci le ore piccole in camera mia leggendo I tre moschettieri di Dumas.

      Quel Natale fu anche l’unico che, oltre a zia Carla e zio Leandro, venne a passarlo da noi zio Renato, il fratello più giovane della mia mamma. Di carattere riservato, mia madre riuscì a convincerlo a venire da noi il giorno di Natale, anche se solo per quella volta, perché nel giro di pochi mesi erano mancati entrambi i miei nonni materni e le dispiaceva che lo passasse non dico solo ma quasi: a Rivara Canavese, è vero, Renato viveva con un altro fratello e la di lui famiglia ma, come dire?, la sensibilità e le premure non erano (e non sarebbero mai state) una caratteristica di quella parte di famiglia.
      Renato mi regalò un libro, La freccia nera di Stevenson, che mi fece veramente felice. Ne avevo una versione per bambini, che i miei mi avevano fatto trovare sotto l’Albero qualche anno prima, ma quella dello zio era molto più completa e dettagliata. Ed era un romanzo da cui Anton Giulio Majano aveva tratto uno splendido sceneggiato televisivo che aveva subito catturato la mia attenzione e il mio gradimento.
      Mi feci scrivere da Renato una dedica al volume che mi aveva regalato. Quel libro è uno dei pochi romanzi per ragazzi che abbia conservato in età adulta.
      Da un po’ di anni è anche un modo per ricordare Renato: rimase sempre scapolo, ebbe i suoi seri problemi di salute e morì prematuramente nel 1989, a cinquantun’anni d’età.

      Ricordo il Natale del ’73 anche per un’altra ragione. Quell’anno il medico mi aveva prescritto delle iniezioni di calcio e mia madre me le fece fare, una al giorno, durante le vacanze invernali, in modo che non mi disturbassero nei periodi di scuola.
      Da qualche anno per le iniezioni ci rivolgevamo a un’infermiera che abitava nel condominio dove vivevamo noi, la “tota” Ritìn. Sia allora che dopo, ogni volta che necessitavamo di qualche puntura non mancò di venire e non chiese mai una sola lira di compenso. Ovviamente, avendo noi un fortissimo senso della gratitudine, ci “sdebitavano” con scatole di cioccolatini o con le torte che mia madre era bravissima a fare.
      Quell’anno, anche la mattina di Natale si presentò a casa nostra per bucarmi il sederino, incurante del fatto che avrebbe anche potuto giustificarsi per via dei festeggiamenti nella sua famiglia.
      Or bene, quando aprii la porta, Ritìn si presentò porgendomi un pacchetto di cioccolatini come dono di Natale.
      Tra il serio ed il faceto, mia madre mi disse: “Non solo viene a farti la puntura anche di giorno festivo ma ti porta pure un regalo, quando dovresti essere tu a farglielo per le iniezioni che ti fa”.
      Erano altri tempi: le famiglie erano più unite e, quando per qualche motivo non ci si poteva aiutare a vicenda, i condomini sostituivano egregiamente i parenti nel sostenere chi aveva bisogno di qualcosa.

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