domenica 31 maggio 2015

Recensione a Pierluigi Baima Bollone, "L'Antico Egitto. Storia e scienza", Ed. Priuli & Verlucca

Il nome del prof. Pierluigi Baima Bollone, oltre che alla sua fama di docente universitario e di esperto di medicina legale, è legato ai suoi studi sulla Sindone.
Lo stesso rigore scientifico egli impiega nella scrittura del saggio L'Antico Egitto. Storia e scienza, edito da Priuli & Verlucca.
E' un libro ricco di spunti di riflessioni che fa il punto sullo stato attuale delle conoscenze sull'Antico Egitto.
Non è un saggio divulgativo: chi si aspettasse un testo scorrevole e corredato con fotografie e immagini in ogni pagina rimarrebbe deluso.
Eppure, se si ha un minimo di conoscenze storiche e scientifiche, l'esposizione risulta comprensibile e generosa di fatti e informazioni che un lettore non particolarmente esperto di egittologia prima ignorava.
Basti pensare alla genesi della civiltà egizia dalle precedenti epoche preistoriche e protostoriche dell'area nord-orientale dell'Africa e all'impiego di manodopera salariata e non di schiavi nella costruzione delle piramidi. Dati scientifici, questi, che smentiscono quanto da secoli sostiene un filone letterario pseudostoriografico che si è buttato sul mondo egizio, e sui suoi presunti misteri, come le mosche si buttano sul miele.
E proprio il sottotitolo del saggio, "Storia e scienza", è il paradigma su cui si basa il saggio del prof. Baima Bollone, che utilizza i risultati che ogni branca della Scienza ha messo a disposizione nello studio dell'Antico Egitto: dalla geologia alla paleontologia, dalla botanica alle moderne tecniche di indagine diagnostica sui corpi umani, dall'utilizzo del radiocarbonio per la datazione dei reperti archeologici all'impiego della psicologia nell'interpretare le credenze religiose del mondo egizio.
L'unico neo che trovo in questo libro di Baima Bollone è la scelta di utilizzare consonanti in uso nella lingua italiana per rendere più comprensibili i nomi di località e personaggi egizi. Ad es., scrivere "Saccara" al posto di "Saqqara", "Carnac" al posto di "Karnak" o "Tutancamon" al posto di "Tutankanon", è cosa a mio avviso inutile, se non addirittura fuorviante, se si tiene conto che anche il lettore più sprovveduto di conoscenze di egittologia conosce il modo con cui, per tacita convenzione internazionale, molti nomi egizi vengono scritti ai giorni nostri.
Concludendo, L'Antico Egitto. Storia e scienza di Pierluigi Baima Bollone è il saggio adatto a chi voglia iniziare ad acquisire una conoscenza solida, seria, scientifica, sul mondo egizio, una conoscenza per la quale la lettura di un libro non sia il punto d'arrivo per la soddisfazione di una pur legittima curiosità culturale ma la griglia di partenza da cui approfondire sempre di più la conoscenza di quel meraviglioso mondo che fu l'Antico Egitto.
Meraviglioso non perché ricco di suggestioni magiche su cui da secoli lucrano i ciarlatani ma, al contrario, perché carico di stimoli a vivere quell'avventura della conoscenza che può solo basarsi sull'utilizzo della razionalità.

martedì 19 maggio 2015

Recensione a HO SOGNATO PABLO, un libro scritto da una Musa



Non lo nego affatto: per me Renata Di Leo è una dea, una Musa, una Erato dei nostri tempi. Ispiratrice di pensieri, di riflessioni che spesso assumono forma di poesie.

Renata Di Leo è un archetipo di poesia, fonte a cui i poeti attingono ispirazione per i loro versi, con l'ambizione, forse con la presunzione, di renderli degni di lei.

Cosa può fare una Musa umana, in carne ed ossa, per dare lo spunto a quel mettere in forma di sensazioni ed emozioni che è la poesia? Scrivere, naturalmente.

Renata Di Leo ha la caratteristica, la mission stabilita all'origine dei tempi da un demiurgo benevolo, di ispirare letteratura anche solo con un suo post di poche parole su un social network: potenza degli spiriti umanamente superiori, che non hanno bisogno di dilungarsi per trasmettere i loro messaggi, i loro suggerimenti.

E se Renata può tanto con una sola frase, immaginiamoci quale oceano sconfinato di spunti da pescare può essere un suo libro.

Ne abbiamo avuto già la prova, e che superlativa prova!, con la sua opera d'esordio, Amo nutrirmi di te, una raccolta di racconti brevi scritta a quattro mani con Massimiliano Fusai o, per meglio dire, un bellissimo volume che raccoglie i "raccontini" (mai diminutivo fu più fuori luogo!) scritti da Renata e quelli scritti da Massimiliano.

Si dice, in ambito sportivo, che un fuoriclasse è già tale a vent'anni; può sì migliorare e acquisire esperienza ma ottiene risultati strabilianti già al debutto. Or bene, Di Leo e Fusai hanno dimostrato, col loro primo libro, di essere dei fuoriclasse della Letteratura, come hanno ampiamente riscontrato critica e pubblico.

Adesso Renata Di Leo regala ai lettori il suo nuovo libro, Ho sognato Pablo (Mediaprint Editrice), questa volta scritto da sola. Anch'esso è una raccolta di racconti brevi, autentiche perle letterarie che vanno a comporre il collier del libro.

Il titolo del volume è un evidente omaggio al grande scrittore cileno, il poeta preferito dall'Autrice: uno scrittore la cui potenza poetica respira anche nelle pagine di Renata, in virtù dell'affascinante forza dell'emulazione infusa negli scrittori dalla lettura delle opere dei loro autori prediletti.

Ho sognato Pablo è la conferma del talento di autrice di Renata Di Leo, già emerso in tutta la sua potenza narrativa ed eleganza di scrittura nella sua precedente opera, con in più l'inevitabile miglioramento che per ogni autore deve sempre scaturire ad ogni suo nuovo libro come prova di costante maturazione: un esame di Laurea superato a pieni voti. E con lode. E anche con dignità di stampa, se mi si consente il doppio senso tra voto accademico e pubblicazione editoriale.

Emozioni, sensazioni, sentimenti, esperienze di vita sono anche in questo volume magistralmente indagate ed esposte. Come ogni Scrittore con la "s" maiuscola, Renata Di Leo non ha alcun bisogno di dilungarsi per raccontare una storia: le sono sufficienti poche pagine e comunica in tutta la sua efficacia quello che vuol fare sapere al lettore.

La vita è fatta di cose belle e cose brutte, eventi felici ed eventi infausti, storie a lieto fine e storie che invece il lieto fine non hanno: l'Autrice la indaga in ogni racconto con somma maestria e con grande padronanza di stile.

Un altro aspetto della bravura di Renata Di Leo trova piena conferma in Ho sognato Pablo: l'eleganza. Quell'eleganza di scrittura che trova il suo specchio fedele nei personaggi e negli ambenti descritti nei racconti della raccolta.



Nel film Operazione Sottoveste, l'ufficiale di Marina Nick Holden (Tony Curtis) dice all'infermiera Barbara Duran: "Non si avvolgono gioielli in carta di giornale". E così non si poteva avvolgere quell'autentico gioiello letterario che è Ho sognato Pablo in un formato cartaceo che non gli fosse consono.

Il libro è, dunque, graficamente molto ben curato: carta patinata, pagine colorate, 40 foto all'altezza del valore del testo. Il risultato, senza tema di esagerare, è semplicemente strabiliante.

Un volume da non perdere da parte di chi ha o voglia avere in casa una Biblioteca con la "b" maiuscola.



Per tutti questi motivi, Ho sognato Pablo è davvero un libro da raccomandare a tutti quei lettori che cercano nell'immersione nel mare delle pagine qualcosa di bello, raffinato, elegante; qualcosa di interessante e che faccia riflettere per comprendere gli altri e anche se stessi; qualcosa che sposi in piena armonia letteratura e vita.



Questa recensione avrebbe dovuto essere scritta da Osvaldo Contenti: un Amico, mio e di Renata, un grande artista e una persona meravigliosa. Purtroppo, Osvaldo è venuto a mancare nel luglio del 2014. Io e Renata abbiamo stretto amicizia proprio in occasione di quel lutto.

Considerando che Osvaldo Contenti e i suoi dipinti mi avevano ispirato molti componimenti (scherzosamente lo chiamavo "il mio Muso ispiratore") e che poi è toccato a Renata e alle sue frasi fornirmi spunto per nuove poesie, voglio credere che sia stato lui, Osva, dal Posto Bellissimo dov'è andato, a guidarmi silenziosamente verso l'amicizia con Renata Di Leo, a indicarmi in lei, come in una staffetta letteraria, una nuova fonte cui ispirarmi.

Anche questa presentazione vuole essere una staffetta: ho, sia pure indegnamente, raccolto il testimone da Osvaldo per fare ciò che egli non ha potuto fare ossia introdurre il lettore al nuovo capolavoro di Renata Di Leo, Ho sognato Pablo.



Renata Di Leo
Ho sognato Pablo
Mediaprint Editrice, 2015
pp. 204, 18 €

Chi è su Facebook può prenotare il libro mandando un messaggio al profilo dell'Autrice "Renata Di Leo".
Chi non è su Facebook o preferisce usare un altro canale, può mandare un'e-mail all'indirizzo di posta elettronica renatadileo@virgilio.it.
L'Autrice chiederà l'indicazione di un recapito postale a cui spedire la copia o le copie del libro.
Nella busta, insieme al libro, i lettori troveranno l'indicazione del codice iban e degli altri dati necessari per effettuare l'acquisto tramite bonifico bancario oppure quelli per pagare con Postepay o con altre modalità.

lunedì 18 maggio 2015

Il Tempo mi allontana dai miei docenti

Il Tempo scorre col suo ritmo e ci porta con sé come se fossimo su una barca e avessimo lo sguardo rivolto a poppa: non vediamo in futuro ma solo il passato.
Un passato che si allontana sempre più da noi e che noi serbiamo nel backup della nostra memoria.
Purtroppo nel nostro hard disk mentale salviamo i ricordi, non le persone, che si allontanano da noi. Oppure a volte siamo noi che ci allontaniamo da loro. Di sicuro le nostre vite si allontanano dalle loro, se le perdiamo di vista. Fino a non poterle più rintracciare, se la Grande Falciatrice se le porta via.
Io voglio bene ai miei docenti, sono loro grato per tutto quello che mi hanno dato, in anni ormai lontani in cui la scuola era seria e chi ci lavorava lo faceva per vocazione e non per avere uno stipendio garantito indipendentemente dalla preparazione e dal merito.
Amo i miei docenti di quell'amore da discepolo che è e deve essere molto simile all'amore che uno nutre per i propri genitori: entrambi i ruoli, quello del padre e della madre e quello degli insegnanti, forma i giovani; io sono quello che sono, un essere libero e pensa con la sua testa, perché i miei genitori e i miei docenti mi hanno fatto diventare tale, e la mia gratitudine verso di loro è immensa, infinta.
Il Tempo mi allontana anche dai miei docenti, soprattutto da quelli a me più cari, da quelli che mi hanno dato di più.
Li ho incontrati che erano giovani o almeno non anziani; ora sono in pensione o non ci sono più. Penso a loro con nostalgia, con malinconia, con la consapevolezza di un legame terreno che mi lega a loro e che a poco a poco si assottiglia sempre di più fino a spezzarsi, quando per alcuni non si è già spezzato.
Del mio maestro in Quarta e parte della Quinta Elementare, Geremia Del Grosso, ho da qualche anno ritrovato le tracce su Facebook ma, come alcuni fanno, non va più da tempo sul suo profilo e non ho potuto richiedergli l'amicizia. Mi sarebbe piaciuto riallacciare i contatti con lui: l'ho conosciuto quand'era giovane, padre di due bambini piccoli, Manuel e Tommaso, ed è stato il primo Maestro (con la "m" maiuscola) che ho avuto. Mi piacerebbe raccontargli quello che sono diventato, quello che ho fatto e fargli sapere che sono consapevole e grato che, se ho combinato qualcosa di buono nella vita, il merito è anche suo.
Delle Medie Inferiori, tre miei professori sono già morti: la prof.ssa Zocco (Matematica) e la prof.ssa Aggeri (Italiano), se ne sono andate prematuramente già da parecchi anni; il prof. Demicheli (Storia), quello che mi ha dato più di tutti e con cui sono rimasto in contatto quasi fino alla fine, è morto nell'ottobre scorso. Della prof.ssa Fois (Disegno) ho perso le tracce da quasi quarant'anni ma, poiché già allora aveva varcato la sessantina, presumo che anch'ella non ci sia più. Tutti questi "quattro moschettieri" delle mie Medie Inferiori hanno lasciato in me una traccia indelebile quando a rigore, cultura e umanità: la sorridente dolcezza dei ricordi non cancella la tristezza del vuoto da loro lasciato.
Delle Medie Superiori: ho perso le tracce delle due docenti di Lettere e Storia da cui ho imparato tanto. La prof.ssa Bertola dovrebbe avere all'incirca novant'anni, la prof.ssa Vasario (a cui, fra l'altro, sono e sarò eternamente grato per aver convinto i miei genitori a farmi andare all'Università) dovrebbe averne circa 85: spero che siano ancora vive.
Dei docenti che ho avuto modo di frequentare alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino, quelli che allora erano stimati cattedratici non ci sono più: il prof. Venturi è morto nel 1994, il prof. Tabacco nel 2000, il prof. Nada nel 2005, il prof. Vivanti nel 2012.
Un particolare commovente accomuna i prof.ri Venturi e Nada: pare che, al di là dei rispettivi problemi di salute che li hanno condotti oltre le porte dell'Eternità, entrambi non abbiano retto la perdita delle rispettive consorti. C'è qualcosa di eroico, di profondamente umano, quando una persona non sopravvive alla perdita del o della consorte: prova che quella era veramente una coppia nella vita, caratterizzata da un legame talmente indissolubile da non sopravvivere alla scomparsa di uno dei due componenti.
Da questi quattro emeriti studiosi ho appreso cose importanti, sia quanto a storiografia, sia quanto ad umanità.
Ancor più triste del vuoto lasciato da essi, scomparsi a un'età in cui la morte non è certo infrequente (sebbene mai auspicabile), è la perdita di studiosi ancor giovani avvenuta nel corso degli anni: penso al prof. Giuliano Gliozzi, grandissimo esperto di Filosofia della Storia (non diedi mai esami con lui ma seguii con entusiasmo alcune sue lezioni sullo Spirito delle Leggi di Montesquieu), e alla prof.ssa Marina Cedronio, controrelatrice della mia tesi di laurea su Walter Maturi.
E' sempre crudele, ingiusto, quando un giovane se ne va, per la sua esistenza spezzata per sempre e per quanto non potrà più ricevere e dalla vita. E' ancora più crudele ed ingiusto quando ad andarsene è una persona che tanto avrebbe ancora potuto dare all'insegnamento e alla cultura, in altre parole al miglioramento dell'Umanità e alla formazione delle future generazioni.
Altri docenti che ho incontrato negli anni '80 del XX secolo sono per fortuna ancora vivi: penso al prof. Massimo L. Salvadori, sommo esperto di Storia Contemporanea, al prof. Rinaldo Comba (all'epoca ordinario di Storia degli Insediamenti Tardoantichi e Medievali) e al prof. Giuseppe Ricuperati, mio relatore alla tesi di laurea, un Maestro per me non sono di Modernistica ma anche di umanità, oltre che naturalmente di rigore scientifico e di etica professionale.
Quando li conobbi, erano già studiosi di fama internazionale, pur avendo solo da poco superato la quarantina; ora sono in pensione (anche se, naturalmente, continuano a studiare e a scrivere). E' un segno del tempo che passa.
Così come lo è constatare che i giovani storici che conobbi quando iniziai i miei studi universitari oggi sono cattedratici esperti, a pochi anni dalla pensione: penso al prof. Mario Gallina (medievista e bizantinista), al prof. Renato Bordone (medievista) e, soprattutto al prof. Massimo Firpo, col quale instaurai rapporti di grande cordialità.
Il Tempo mi allontana dai miei docenti. Ma in me la nostalgia non crescerà mai quanto la gratitudine che provo e proverò per loro.

domenica 10 maggio 2015

Rohmer: dialoghi e immagini

Domandarsi se in un film contano di più i dialoghi o le immagini è come chiedersi se in una canzone conta di più il testo o la musica. La risposta è banale ma non per questo meno valida: in un film dialoghi e immagini devono armonizzarsi, fondersi, tendere insieme all'obiettivo prefissatosi dal regista. Così come una canzone è bella se riesce a fondere testo e musica.
Certo, armonia non significa un rigido ed astratto fifty-fifty, un 50 % per uno. In alcuni film il peso dei dialoghi è maggiore, in altri lo è il peso delle immagini, panoramiche, carrellate, inquadrature su cose e persone, mimica ed espressività degli attori e delle attrici.
In un film come "L'assedio" di Bernardo Bertolucci, ad esempio, le immagini sono dominanti: lo si potrebbe vedere nella versione sonora in una lingua che non si conosce e comprenderne tutto lo svolgimento dall'inizio alla fine.
Per le pellicole girate da Eric Rohmer, invece, il discorso è diverso.
Secondo me, nel cinema rohmeriano i dialoghi svolgono un ruolo preponderante.
Intendiamoci: non che il linguaggio delle immagini, delle inquadrature sia privo di importanza in Rohmer regista. Le panoramiche e le carrellate all'inizio di molti suoi film sono delle vere e proprie "prefazioni", "introduzioni" all'opera. E che dire poi, in "Racconto d'inverno", dell'inquadratura che riprende Charles scrivere sul suo bloc notes l'indirizzo di 36, rue Victor Hugo di Cour Bevoie, detttatogli da Felicie, e di quella successiva in cui si vede il cartello dei lavori di ristrutturazione del quartiere Victor Hugo della città di Levallois, dove arriva Felicie al termine della sua vacanza estiva? Due immagini che introducono l'equivoco sullo sbaglio di indirizzi che sta alla base dello sviluppo della trama del film.
Ma Rohmer non sarebbe Rohmer se il suo nome non fosse legato alla maestria nel costruire dialoghi.
Dialoghi fra personaggi giovani: Rohmer è abilissimo nel far recitare al meglio i giovani attori e le giovani attrici (si pensi, ad esempio, a film come "L'amico della mia amica" e "Racconto d'estate", che inspiegabilmente e scriteriatamente i distributori italiani fecero uscire col titolo di "Un ragazzo ... tre ragazze", azzeccatissimo per il soggetto della pellicola ma decisamente inappropriato se si pensa che fa parte della quadrilogia dei "Racconti delle quattro stagioni").
Dialoghi fra personaggi meno giovani ma non necessariamente anziani: basta citare il dialogo tutto filosofico che ne "La mia notte con Maud" si svolge fra il professore marxista e l'ingegnere cattolico, con una costruzione affascinante e perfetta delle frasi per illustrare le diverse posizioni di pensiero.
Il cinema di Rohmer è a mio avviso essenzialmente un cinema di dialoghi, anche se, com'è naturale in un grande regista come lui, le inquadrature non vi svolgono un ruolo subordinato né sono in alcun modo trascurate dalla sua maestria.

mercoledì 6 maggio 2015

La mia scoperta di Eric Rohmer

Era l'ormai lontano 1985. Rai 3 mandò in onda, in seconda serata, un ciclo di film di Eric Rohmer, grande cineasta francese.
A precedere le pellicole, veniva trasmessa una presentazione di Enrico Ghezzi. Quanto mai utile, perché il cinema di Rohmer a prima vista è un po' difficile da interpretare ma, quando lo si conosce "dall'interno", lo si apprezza enormemente.
Quel ciclo comprendeva i sei "Racconti morali", sei film nei quali il fil rouge era la morale (laicamente intesa non come bene contrapposto al male benzì come scelta contrapposta alla non scelta), e altre pellicole, fra cui "La femme de l'aviateur" ("La moglie dell'aviatore").
Di quel ciclo vidi tutti i film, tranne "Perceval le Gallois" (causa un week-end in campagna, dove Rai 3 non si prendeva).

Dei grandi registi francesi fino ad allora conoscevo abbastanza bene solo il cinema di Robert Bresson, visto sia alla tv che, una volta, al cinema (quell'autentico capolavoro che è "Il diavolo probabilmente ...").
Mentirei se dicessi che l'incontro con Rohmer fu un colpo di fulmine cinematografico: egli divenne il mio regista preferito solo col tempo, col progressivo accentuarsi in me di un interesse per i film che andasse ben al di là del semplice apprezzamento dello spettacolo offerto dalle pellicole.
Tuttavia, già nel 1985 il cinema rohmeriano mi piacque. Non solo. Fu grazie ad Eric Rohmer che iniziai a riflettere sul significato della morale, che fino ad allora mi era rimasto filosoficamente estraneo.
Poi, come si suol dire, l'uscita dei successivi film di Rohmer (soprattutto degli altri due cicli, "Commedie e proverbi" e i "Racconti delle quattro stagioni") rappresentò per me un pacato crescendo rossiniano nella conoscenza di questo grande autore cinematografico.
Ma di ritornare a trattare dei suoi film ci sarà occasione in qualche altro post di questo blog.

lunedì 4 maggio 2015

Io e Salgari

Quando, nel 1976, la Rai mandò in onda la serie televisiva su Sandokan, la mia conoscenza dei romanzi di Emilio Salgari era già alquanto vasta.
Una volta la Fiat per Natale regalava ai figli dei dipendenti che non frequentavano ancora le Medie Inferiori un pacco dono, contenente sì dolciumi e giocattoli ma anche libri.
E fu così che, quando frequentavo le Elementari, trovai nel pacco dono a me destinato "I pirati della Malesia" di Emilio Salgari. Era il romanzo successivo a quello che aveva per protagonista Lady Marianna, la Perla di Labuan, e vedeva Sandokan e Yanez impegnati a proteggere la cugina di Marianna, Ada Corisant.
Poiché il libro mi piacque, i miei genitori un po' alla volta mi regalarono altri libri di Salgari, sia quelli aventi per protagonista Sandokan sia altri, inerenti le avventure di pirati e corsari o ambientati in altri scenari, come Le pantere di Algeri. Quest'ultimo, però, non fu un regalo dei miei ma me lo prestò una mia compagna di classe alle Medie Inferiori: naturalmente glielo restituii.
Dei primi, mi piacque soprattutto Il re del mare, con Sandokan e Yanez già un po' avanti con gli anni, degli altri apprezzai Gli ultimi filibustieri con l'ineffabile ed istrionico don Barrejo.
Per quel che riguarda il "ciclo malese", più che Sandokan provai simpatia per Yanez de Gomera, portoghese dalla flemma tutta britannica.

Nel 1974, la Rai mandò in onda un programma culturale su Salgari, forse uno dei primi in cui la ricostruzione storica era intervallata da brani recitati. Ad interpretare Sandokan era l'allora giovane ma già bravissimo Gigi Proietti.
Fu guardano quel programma che appresi che i primi romanzi di Salgari non ebbero un esordio "bibliografico", cioè non vennero stampati come libri ma pubblicati a puntate su alcuni quotidiani.
Abitudine, questa, che si è persa da parecchio tempo. Non so se sia un bene o un male: certo, la lettura a puntate obbliga all'acquisto a puntate, che pone poi il problema di dare una qualche rilegatura alle parti del romanzo; ma, in un Paese che legge poco come il nostro, forse avvicinerebbe le persone alla letteratura.

Ricordo che, fra i libri di "Salgari" che mi regalarono, c'era anche Il Budda di giada. Di cognome faceva Salgari, e per questo mi fu donato, ma di nome faceva Nadir: uno dei due figli di Emilio Salgari.
I romanzi di Salgari, scrittore che non ebbe mai il successo che si meritava e morì suicidandosi, mi furono utilissimi anche sui banchi di scuola, soprattutto alle Medie Inferiori.
La professoressa di Lettere e Storia ci incaricava di fare una ricerca su qualche evento o personaggio storico a nostra scelta? Io attingevo da un romanzo salgariano.
La professoressa di Scienze ci incaricava di redigere un elenco di piante o di animali? Io prendevo i libri di Salgari e li scorrevo alla ricerca di nomi di piante o di animali.
In fondo, stavo emulando proprio Emilio Salgari, il quale trasse scenari geografici e naturalistici non tramite osservazione diretta ma documentandosi nelle biblioteche pubbliche dove aveva accesso.
Forse qualcuno storcerà il naso ma se uno scrittore è grande, riesce a trarre profitto anche dalle fonti di seconda mano.
Non posso fare a meno di paragonare l'esperienza salgariana con la straordinaria avventura storiografica di Jacques Le Goff, celebre e benemerito studioso del Medio Evo che tantissimo ha dato alla conoscenza di questo periodo storico senza consultare fonti ma solo studiando le opere dei medievisti.

Ma torniamo al punto di partenza, cioè alla serie televisiva della Rai su Sandokan, girata da Sergio Sollima e interpretata da Kabir Bedi, Carole André e Philippe Leroy. Io, naturalmente, ero interessato alla storia e anche curioso di vedere come sarebbe stata trasposta nella versione televisiva ma le mie compagne di classe (all'epoca eravamo sedicenni) rimasero più che altro colpite dal fascino di Kabir Bedi, anzi, persero letteralmente la testa per lui: scrivevano il suo nome sulle loro borse, sui braccialetti di cuoio, incollavano le sue foto sui loro diari, etc.
Una volta, non so chi ebbe l'idea, vollero truccare uno di noi compagni di classe da Sandokan. Mi offrii come volontario: con le matite del trucco mi ombreggiarono la zona degli occhi e mi disegnarono un punto in mezzo alla fronte (cosa questa, ehm, più indiana che malese ...), e per completare l'opera una di esse mise a disposizione un suo foulard e me lo avvolsero sul capo come un turbante. Mancava solo la barba, che all'epoca non mi era ancora cresciuta in modo soddisfacente. Ah, se in quegli anni fosse stato possibile fare i selfie! Ne avrei avuto dei bei souvenir.
Mi offrii volontario per quella simpatica mascherata, certo, ma qualche settimana prima avevo giocato in bel tiro alle mie compagne di classe: essendo io già allora un buon conoscitore delle vicende di Sandokan e non avendo invece esse in precedenza mai letto alcunché di Salgari, carognescamente già dopo la seconda puntata della serie televisiva mi premunii di informarle che alla fine Marianna Guillonk sarebbe morta. Ci rimasero un po' male.

Visto l'enorme successo della serie televisiva, le imprese di Sandokan videro quasi subito un sequel cinematografico, "La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa!", girato dallo stesso Sollima e sempre interpretato da Kabir Bedi e Philippe Leroy.
Poi, una ventina d'anni dopo, Mediaset produsse una nuova serie televisiva, "Il ritorno di Sandokan", con Kabir Bedi e Fabio Testi.
Nella scelta del cast, vi fu una garbata ma a mio avviso ugualmente fondata polemica da parte di Philippe Leroy, sostituito da Testi nel ruolo di Yanez in quanto giudicato "troppo vecchio". Bravissimo Testi, sia ben chiaro, ma secondo me Leroy sarebbe stato ancora il miglior Yanez possibile. Quanto al giudizio sull'età, quello che fece negli anni successivi (lo ricordo, ad esempio, in un episodio de "Il commissario Navarro" e in qualche puntata de "Il comandante Florent") dimostrarono che Philippe Leroy non era affatto "troppo vecchio".
Quanto ai libri di Salgari, come purtroppo accade a romanzi a torto ritenuti solo per ragazzi, iniziarono a prendere polvere nella mia libreria man mano che iniziai a provare altri interessi.
Già adulto, feci dei volumi salgariani, insieme a molti altri libri "per ragazzi" che avevo, quello che si deve fare quando non interessano più: li regalai a una coppia di amici che aveva due figli sui dieci anni d'età, il periodo giusto per i libri d'avventura e, in generale, per appassionarsi alla lettura.

sabato 2 maggio 2015

Si comincia con un nuovo blog

E così, dopo tre precedenti esperienze da blogger, comincio una nuova avventura.
Non so dove mi porterà, né a quali lidi approderò con questo mio navigare ma forse i percorsi più belli sono quelli che si dipanano allo sguardo passo dopo passo, senza alcuna pianificazione.
La vita mi ha insegnato che fare progetti precisi porta inevitabilmente a doverli rivedere in corsa e quindi tanto vale, almeno per questo blog, partire senza prefissarmi una meta precisa.
Ciò non significa, naturalmente, che io non abbia idee chiare su cosa scrivere, su quali argomenti trattare.
In un mondo, in una società sempre più caratterizzato da odio e da intolleranza, voglio creare con questo blog un'oasi di serenità, un'isola da cui le polemiche siano bandite, quindi mi occuperò di temi che, come si suol dire, non possano creare scintille, temi che possano invece costituire occasioni di riflessioni, di scavare nel profondo di sé: perché, purtroppo, al giorno d'oggi molti, troppi, si arrogano la presunzione di conoscere e giudicare, peggio ancora condannare gli altri in modo sommario e non conoscono nemmeno se stessi, il loro essere, i loro pregi, i loro difetti.
In altri termini, i miei post conterranno spunti biografici, tentativi letterari e scritti umoristici, caratterizzati dall'ironia, quella vera, che fa sorridere e ridere ma non irride, non offende, non ferisce.
Buona avventura, a me soprattutto, prima ancora che ai venticinque lettori di manzoniana memoria che spero questo blog possa trovare.