lunedì 29 febbraio 2016

Il Salone del Libro del '93

      Quella domenica di maggio del ’93 rappresentò per me la quiete prima della tempesta che si sarebbe scatenata a partire dal giorno dopo, tempesta che durò circa sei mesi (ferie estive comprese: masochisticamente passate a sospirar d'amore come un qualsiasi trovatore medievale) e che, una volta terminatasi, per avrebbe lasciato in me uno strascico di amarezza ancora per qualche tempo.
      Il venerdì precedente, dopo alcuni mesi di tergiversazioni, avevo dichiarato tramite epistola il mio amore a una signorina che mi ripagò in un modo certamente non rispettoso della mia sensibilità.
      La risposta a quella mia dichiarazione sarebbe potuta arrivare solo il lunedì e invece arrivò un mese abbondante dopo dando inizio a una piccola e tragicomica serie di insensibilità e di scorrettezze da parte sua (non ultima una lettera di “apertura” nei miei confronti che scrisse ad un periodico e che poi, una volta pubblicata da quella testata, negò di aver scritto).
      Fatto sta che quella domenica decisi di prendermi una pausa nelle mie pene d’amore e di godermi quella giornata. Tanto più che avevo già concordato con due amici, Franco e Tonino, di dedicarla a quello che era (ed è tuttora) un amore che non mi ha mai tradito: i libri.
      Andammo cioè al Salone Internazionale del Libro, che non aveva ancora cambiato il suo nome in Fiera ma che già allora si teneva al Lingotto di Torino, l’ex fabbrica della F.I.A.T. riconvertita per ospitare esposizioni ed eventi vari.
      Potendo usufruire di alcuni biglietti scontati, Franco si era già fatto un giro il venerdì sera e aveva individuato gli stands più interessanti da visitare, dove poté condurci a colpo sicuro.
      Stands con i migliori libri, direte voi. No: stands con le standiste più carine!
      Naturalmente non disdegnammo affatto curiosare anche fra i libri e ne acquistammo alcuni. Ma gettare l’occhio su tutte quelle belle gnocche fu un’esperienza oltremodo rinfrancante, soprattutto per me che ero alle prese con le mie paturnie amorose.
      Che dire? Ho sempre saputo separare il sesso dall’amore e anche nei periodi di cotte più deprimenti le altre donne le ho sempre guardate, oltretutto provando sempre certe, ehm, sensazioni. Della serie: “Il mio cuore non batte che per te ma un po’ più in giù un altro mio organo continua a stare sull’attenti per altre donne”.
      Tornando alle standiste di quel lontano 1993, una in particolare attirò la nostra attenzione: un figone seduto su una sedia, leggermente proteso in avanti in una postura decisamente sensuale. Non avemmo alcun pudore di passare una decina di volte davanti a quello stand. Scontato fu da parte mia fare l’altrettanto scontata battuta: “Come vorrei essere al posto di quella sedia!”.
      Durante le nostre peregrinazioni metà culturali e metà voyeuristiche, rimanemmo vittima di un vero e proprio sequestro. Passammo davanti allo stand di uno di quei piccoli editori che si presentano con pochi titoli in mostra e che nessuno va a visitare. Coincidenza volle che passassimo proprio di lì nel preciso istante in cui le due standiste, stufe di non vedere mai nessuno fermarsi davanti a loro, decidessero di passare all’azione. E fu così che venimmo da loro letteralmente trascinati all’interno del loro stand e obbligati a prendere in visione i libri esposti. Non ricordo più di quale argomento trattassero (forse erano volumi di fotografia ma non ne sono tanto sicuro); fatto sta che, fra i libri che non ci interessavano e la non propriamente abbagliante bellezza di quelle due standiste, cercammo con ogni scusa di liberarci. Cosa che ci riuscì solo dopo una ventina di minuti. Liberi! Di nuovo in cerca di gnocche da vedere.

venerdì 26 febbraio 2016

Pape satàn aleppe

Ho già fra le mani Pape satàn aleppe di Umberto Eco.
A parte il valore inestimabile del testo, che sensazione meravigliosa!
L'ho aperto e subito ho sentito l'inebriante profumo della carta appena stampata.
Coi polpastrelli ho avvertito la piacevole sensazione della carta di una volta.
I caratteri di stampa sono eleganti, nitidi e dalle dimensioni leggibili senza sforzo.
Se continua così, la Nave di Teseo non solo solcherà le acque di tanti mari ma avrà una lunghissima fila di lettori che vorranno salirvi a bordo.

martedì 23 febbraio 2016

Ultimo saluto a Umberto Eco in chiave gucciniana

Vedemmo un lutto quieto,
occhi anche sorridenti.
Piacere. E' mio. Son lieto.
Eravate suoi studenti?

Lui certo rimarrà
dentro la nostra mente piena,
coi libri ci dirà
di legger, scriver con gran lena.

sabato 20 febbraio 2016

Quel che mi ha insegnato Umberto Eco

Di Umberto Eco, scomparso ieri all'età di 84 anni, hanno scritto e scriveranno persone molto più preparate di me. Lascio a loro il degno compito di tracciarne il profilo di grande intellettuale che si merita.
Voglio invece ricordarlo attraverso quello che la lettura delle sue opere mi fa dato.
Il mio primo incontro con Eco lo ebbi negli ultimi anni delle Medie Superiori, quando iniziai ad acquistare L'Espresso e a leggere la sua rubrica settimanale, non priva di spunti ironici.
L'Eco romanziere lo scoprii, come molti, al suo esordio con Il nome della rosa. Era la fine di luglio del 1981, avevo da pochi giorni dato l'ultimo esame della sessione estiva alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino, il mio secondo esame di Storia del Risorgimento, e una mattina mi ero recato a Palazzo Nuovo, la sede delle Facoltà umanistiche, per godermi l'ambiente accademico in totale rilassatezza e fare un giro delle librerie dei dintorni. E fu in una di queste che acquistai Il nome della rosa, che mi tenne compagnia durante le vacanze agostane.
Inizialmente ne apprezzai soprattutto la trama da giallo (ma forse sarebbe più corretto definirla da noir) e l'ambientazione nel Medioevo.
Essendo in contatto epistolare col mio ex insegnante di Storia e Geografia alle Medie Inferiori, il prof. Sante Demicheli, in una delle sue lettere mi spiegò che, rileggendolo, ne avrei colto tanti altri aspetti. Cosa che accadde qualche anno dopo, allorché, ripresolo in mano, ne afferrai il messaggio di rivendicazione della libertà della Cultura contro qualsiasi oscurantismo e la passione per il Sapere e per i libri in particolare.
Il secondo libro di Eco che acquistai e, naturalmente, lessi fu Come si fa una tesi di laurea. La motivazione, estremamente profana, fu che mi accingevo a chiedere il titolo della mia tesi di laurea e volevo capire bene come andava scritta. Mi fu di grande utilità, nel senso che, quando iniziai a portare al prof. Giuseppe Ricuperati i primi paragrafi della mia tesi su Walter Maturi, la precedente lettura di quel libretto evitò a me di fare gli errori che di solito fa chi è ignaro del modo in cui si scrive una tesi, e al mio Maestro evitò l'incomodo di correggerli. Quel libro di Eco non fu solo utile ma anche di godibile lettura; ebbi modo di parlarne col prof. Massimo Firpo ed egli mi confermò che era un'opera scritta molto bene.
Alla fine degli anni '80 del XX secolo, Il pendolo di Foucault rappresentò per me l'incontro echiano più importante. Come accade a volte nelle piccole e personali avventure intellettuali, la lettura del secondo romanzo di Eco fu per me un assorbire semi che avrebbero fruttificato in seguito. Nell'immediato, apprezzai sia la trama thriller, sia la polemica contro l'irrazionalismo, sia i molti passi di ironia allo stato puro: le pagine sugli APS (gli autori cioè che per correre dietro alle loro vanità editoriali fanno pubblicare i loro libri a proprie spese, rimanendo spennati come polli da editori senza scrupoli) furono, e sono, decisamente esilaranti.
Perché quella lettura mi "impollinò" letterariamente? Perché a poco a poco ho sviluppato un mio stile letterario nello scrivere romanzi, basato su un mix fra trama da giallo, ambientazione culturale e ironia: il mix che è alla base de Il pendolo di Foucault.
Certo, ho iniziato a scrivere romanzi solo una ventina d'anni dopo l'uscita de Il pendolo di Foucault ma è stato questo romanzo a indicarmi quello che ho trovato essere il genere letterario che più mi si confà, non solo per i romanzi ma gli altri miei scritti umoristici, in cui coniugo Cultura ed Ironia.
L'imprinting di tanti miei libri nel cassetto risale proprio a questo secondo romanzo di Umberto Eco.
Successivamente lessi tutte le altre opere di narrativa di Eco e molte Bustine di Minerva, traendone sempre piacere e nuove conoscenze.
Come lettore e, con tutta l'umiltà del caso, come scrittore voglio dargli l'ultimo saluto con un semplice: "Grazie, professor Eco. Lei mi ha reso migliore di quanto sarei stato se non L'avessi incontrata attraverso i Suoi libri".

sabato 13 febbraio 2016

Festa di Carnevale del 1979

Se si eccettua le piccole ed effimere festicciole in casa o alle Elementari, l'unica festa di Carnevale cui partecipai, con tanto di travestimento, fu quella del 1979, in Quinta Superiore.
Già allora rivelavo, senza che ancora me ne rendessi conto, il mio atteggiamento bifronte davanti alla religione: credente e anelante all'Assoluto, sì, ma anche rigorosamente laico, nonostante nel corso della mia vita ebbi qualche sbandata in entrambe le direzioni sbagliate seppur di segno opposto, quella di un'eccessiva partecipazione alla fede e quella dello sconfinamento nel laicismo.
Or dunque, nonostante già allora mi professassi laico, per quella festa decisi di travestirmi da frate. Non certo per sbeffeggiare i frati, sia ben chiaro. Forse, inconsciamente, giocò un ruolo decisivo il fatto che un giorno, nel divertirsi ad abbinare ad ognuno di noi un personaggio de I promessi sposi, alcune mie compagne di classe mi paragonarono a fra' Cristoforo e la cosa mi piacque perché mi piaceva (e mi piace ancora oggi) quel personaggio. Forse, ben più consapevolmente, mi ispirai alle scene dello sceneggiato televisivo La freccia nera in cui Senzalegge (Gianni Musy) e Dick Shelton (Aldo Reggiani) si travestono da frati, scene da me preferite in quanto, manco a dirlo, la profondità delle esperienze di vita si alterna all'ironia.
Probabilmente giocò anche in quella mia scelta il fatto che un saio da frate era relativamente facile farselo confezionare in casa. E in effetti, dopo che mio padre andò a comprare non so dove una pezza di stoffa marrone e una spessa corda da adibire a canapo, mia madre con l'ausilio delle signore Mignacco, madre e figlia, che abitavano al piano di sotto rispetto al nostro alloggio, mi tagliò e cucì il saio, con tanto di cappuccio.

E festa fu. Il Martedì Grasso del 1979 i festeggiamenti si svolsero in due fasi.
La prima si svolse all'I.T.C. "Elio Vittorini" di Grugliasco: per quell'occasione la Presidenza ci aveva dato campo libero, con annullamento delle lezioni di quel giorno.
Io col mio saio e gli altri coi loro travestimenti. Me ne ricordo solo due: Alice vestita da clown e Nicola vestito da antico Romano.
Piccolo dubbio esistenziale, su cui ancora oggi qualche volta arrovello goliardicamente le mie riflessioni metafisiche: essendo l'anno prima stato girato il film Animal House e ed essendo verosimilmente quel film arrivato nelle sale italiane nella stagione 1978-79, fu mica il John Belushi del toga party a suggerire a Nick quella tenuta?
Di certo, arrivare a scoprire questa piccola verità non migliorerà il mondo ma altrettanto sicuramente non farà danni, come invece hanno fatto e, temo, continueranno a fare, quei filosofi e quei teologi che, presupponendo di essere arrivati a un'idea assoluta, forniscono agli uomini il pretesto per scannarsi a vicenda in nome di quell'idea assoluta, sia essa religiosa o politica. Ma torniamo alla nostra festa di Carnevale del 1979.
Volendomi dare un tono, per tutta la mattina ogni volta che nei corridoi incontravo qualcuno lo benedivo facendo il segno della Croce e dicendogli, come Senzalegge: "Pax vobiscum".
Mangiate, bevute, canzoni sentite e cantate, caroselli a piedi nei corridoi della scuola. Né più né meno che in tutte le feste scolastiche che si comanda. Con l'aggiunta, per essere attinenti al Carnevale, di lanci di coriandoli e di stelle filanti.

La seconda parte della festa, dopo pranzo (ma pranzo non ci fu, perché si era mangiato e bevuto tutta la mattina), si svolse a casa di Franca o, per meglio dire, della famiglia di Franca, la cui abitazione aveva nel seminterrato un'ampia tavernetta, che divenne teatro delle nostre prodezze pomeridiane.
Da notare che nell'uscire dall'I,T.C. non ci togliemmo i nostri travestimenti, per cui sia sugli autobus che a piedi (per arrivare a casa di Franca c'era un discreto tratto di strada da fare alla maniera podistica) demmo l'impressione di un'allegra e goliardica brigata. Non solo nei nostri inconsueti abiti ma anche perché non lesinammo canti e risate.
La più allegra di tutti era Alice: salutava in modo oltremodo euforico tutti i passanti che incontravamo, suonando spesso al loro indirizzo non ricordo bene se una trombetta o una lingua di Menelicche.
Durante quella nostra mosaica traversata a piedi di Grugliasco, ad Alice venne imposto di non fare casino solo in un punto, quando cioè passammo davanti ad una fabbrica occupata da operai che rischiavano il posto di lavoro: un saluto più allegro del dovuto o una strombettata con tanto di lingua di Menelicche distesa, quantunque rivolte senza alcuna malizia e solo per giovanile spensieratezza, avrebbe potuto essere interpretata come una provocazione, con tutte le possibili conseguenze del caso.
Alla fine si giunse alla tavernetta di Franca.
L'unico a trovarsi un po' in difficoltà fu Nick: la tavernetta non aveva riscaldamento, in febbraio faceva freddino anche là dentro e lui, travestito da antico Romano, era di fatto seminudo.
Il second round della festa si svolse secondo copione: balli da discoteca, con tanto di luci psichedeliche in funzione e con Nick che si esibiva nelle mosse del John Travolta de La febbre del sabato sera, mangiate e bevute. E anche gli immancabili giochi di società.
Fra cui quello che prevede di far mimare a qualcuno il titolo di un film, mentre gli altri devono indovinarlo.
Quella volta il gioco ebbe due momenti topici.
Il primo fu quando qualcuno, credo fosse Nick, per dare un po' di pepe alla cosa, suggerì ai mimi di turno (avevamo deciso di giocare a coppie) il titolo di un film che non era mai stato girato, e pure decisamente lungo: L'arte ideale di un umanoide. Ovviamente, nessuno indovinò.
Il secondo e, modestia a parte, più divertente momento clou fu quando a fare il mimo venni chiamato io, che comunque in precedenza avevo indovinato il titolo del film Un taxi color malva.
Mia partner di mimica era Luciana, la nostra compagna di classe più timida e pudica (nel senso buono e rispettoso del termine, s'intende).
Ne sono ultrasicuro: non fu per mettere in crisi me (del resto, sapevano benissimo che tipaccio disinibito e sfrontato ero già allora) ma Luciana che ci suggerirono di mimare il titolo di Spermula.
Dicono che il tempo di reazione dei centometristi al colpo di pistola dello starter sia di 23 centesimi di secondo. Quello di reazione di Luciana all'erotico titolo fu molto più veloce, forse andava misurato in nanosecondi. Fatto sta che passò un'infinitesimale frazione di tempo dal momento in cui ci venne etto sottovoce il titolo del film a quello in cui il colorito del suo volto passò dal bianco latte al rosso porpora cardinalizio.
Non solo ma, subito dopo, si coprì il viso con le mani, indietreggiò di due passi e si rifiutò di accennare il benché minimo cenno di mimica.
E così rimasi solo sulla scena, mentre i suggeritori erano già piegati in due dal ridere e gli altri si stavano chiedendo sbigottiti quale titolo potesse mai scatenare una simile "ritrosica" reazione da parte di Luciana.
Per la verità, io non provai alcun imbarazzo, sia perché stavo ridendo pure io per la subitanea vampata di rossore di Luciana, sia perché a me il titolo di quel film non scandalizzava per niente.
Come mi era già accaduto e per fortuna mi sarebbe accaduto parecchie altre volta anche in seguito, un mio lato caratteriale (o un qualche cromosoma del mio DNA, se vogliamo usare un linguaggio scientifico) si manifestò in fretta: la mia capacità di intuizione, che mi consente di trovare soluzioni, appigli, vie d'uscita anche quando, volgarmente discorrendo, sono nella cacca fino al collo. Per meglio dire, la mia è capacità di intuizione e improvvisazione: il cocktail della creatività.
L'intuizione quella volta mi venne quando, gettando lo sguardo intorno, vidi un oggetto che la fece scattare: una delle tante bottiglie di spumante già scolate del tutto.
Agii all'istante. Presi la bottiglia a me la misi nella zona inguinale, a mo' di prolungamento del mio pisello o di metafora del mio pisello in assetto da combattimento (esagerato!). Boato di risate della compagnia.
Poi, con la mano libera, indicai la bottiglia e feci segno di no, per dire che non aveva nulla a che fare col titolo del film.
Infine, sempre con la mano libera, mimai lo scorrere dello spumante dalla bottiglia e feci cenno di sì.
Al che una nostra compagna di classe, associando lo scorrere del liquido alla, ehm, posizione fallica della bottiglia, disse: "Spermula".
Mike Bongiorno avrebbe detto: "Risposta esatta!".
Probabilmente, in caso di errore, avrebbe invece detto: "Ahi! Ahi! Ahi! Lei mi va a cadere proprio sull'uccello!".
Intuizione e improvvisazioni vincenti, dunque. Certo però che, se invece che fra amici e fra quattro mura amiche, mi fossi esibito (è proprio il caso di usare questo verbo) in pubblico, mi sarei beccato una denuncia per atti osceni e oltraggio al comune senso del pudore.

A festa terminata, uscimmo in strada e ci dividemmo in gruppi, a seconda delle zone dove abitavamo, per prendere i vari mezzi pubblici che ci avrebbero riportato alle rispettive case.
Dopo un po' di camminata, io e alcune mie compagne di classe ci stavamo avvicinando alla fermata del nostro autobus quando lo vedemmo giungere in lontananza.
Accelerammo il passo ma, accorgendosi che stavo rimanendo indietro, Alice mi prese per mano e mi trascinò in una corsa che nemmeno Mennea. Attraversammo volando un semaforo, che in quel momento per nostra fortuna era verde, a raggiungemmo la fermata appena in tempo per prendere l'autobus, che nel frattempo si era arrestato e stava per ripartire. Salito a bordo, potei rifiatare.
Ancora oggi mi domando come feci a non cadere durante quella folle corsa, io che sono solito ruzzolare per molto meno.

lunedì 8 febbraio 2016

Scazzottate sui banchi di scuola

A volte si confonde la violenza, premeditata, con le scazzottate che possono scappare da bambini e da ragazzi. La persona umana è fatta anche di istinti, spetta alle famiglie, tradizionali e non tradizionali, e alla scuola educare i giovani a non comportarsi in modo violento.
Le scazzottate sui banchi di scuola non vanno nemmeno confuse col bullismo: lo scambio di pugni avviene alla pari, uno contro uno, mentre il bullismo è praticato dal branco contro i più deboli.

Prima di essere inserito, a partire dalle Medie Inferiori, in una scuola pubblica, frequentai le Elementari in una scuola speciale per bambini disabili.
Sui disabili esistono due pregiudizi: uno in negativo, che li fa considerare esseri inferiori, da discriminare o, se va bene, da compatire; l'altro in positivo che, in virtù delle loro difficoltà, li fa vedere come esseri candidi, innocenti, buoni a prescindere.
In realtà, anche fra i disabili, e anche fin da bambini, esistono tutti i tipi di umanità: i buoni e i cattivi, gli ingenui e i furbi, i leali e gli stronzi, i calmi e gli irruenti, etc.
In quella scuola, come in qualsiasi altra scuola, le baruffe e gli scambi di colpi proibiti erano all'ordine del giorno. Ma erano scambi alla pari, perché tutti avevano difficoltà nei movimenti, chi più in una parte del corpo e chi in un'altra.
Anch'io presi la mia buona dose di pugni. Ma anch'io ne diedi.
La svolta avvenne quando una volta un bambino di un'altra classe mi picchiò. Andai da una assistente sociale a lamentarmi e la solerte impiegata scolastica mi disse, stizzita e arrogante: "Non so proprio cosa farci se sei stato così oco da farti picchiare". Alla faccia del mestiere che faceva, che avrebbe dovuto essere rivolto ad aiutare le persone in difficoltà.
Fu allora che compresi che dovevo farmi furbo, difendermi da solo, rendere pan per focaccia, occhio per occhio e dente per dente. In altre parole, capii che dovevo mettermi a menare anch'io. E, modestia a parte, imparai piuttosto bene.
Ricordo due episodi in particolare.
Un pomeriggio, uno scolaro di un'altra classe mi diede un pugno. Non gli avevo nemmeno mai parlato prima e quindi non potevo avergli fatto niente di male; semplicemente, lo incrociai nei corridoi della scuola e costui, senza dirmi una parola, mi diede un cazzotto e se ne andò. Era chiaramente fuori di testa.
Rimasi basito e non reagii, anche perché il pugno mi aveva fatto parecchio male. Ma decisi di vendicarmi. A freddo.
Il giorno dopo, sempre di pomeriggio (facevamo il tempo pieno e le ore pomeridiane erano dedicate allo svago e alla ricreazione), nel cortile della scuola dove stava per cominciare la partitella quotidiana vidi l'aggressore fra i calciatori della squadra avversaria della mia. Il calcio venne in me completamente sommerso dal desiderio di fargliela pagare.
Fatto sta che, appena la partita ebbe inizio, mentre tutti gli altri correvano dietro al pallone, io mi misi a rincorrere il mio aggressore del giorno prima.
La scena fu simile a quella che costò l'immediata espulsione di Tardelli durante un Milan-Juventus: fischio d'inizio e Tardelli che, disinteressandosi completamente del pallone, piomba su Rivera e lo stende, con inevitabile cartellino rosso.
Non impiegai i 15 secondi che sarebbero poi stati sufficienti a Tardelli per catapultarsi sull'Abatino di breriana memoria, anche perché fra gli alunni della scuola ero fra quelli che aveva più difficoltà a correre, ma alla fine raggiunsi il mio aggressore e gli diedi un formidabile pugno, che fra parentesi gli fece volare via l'apparecchio acustico che portava all'orecchio sinistro.
Quando tutti mi chiesero perché l'avevo fatto, spiegai che il tipo mi aveva picchiato il giorno prima e avevo voluto restituirgli il pugno e venni, come si suol dire, perdonato.
Il secondo episodio riguardò Franchino, che fu mio compagno di classe fino alla Terza, quando venne bocciato.
Nonostante la bocciatura, sia prima che dopo, aveva il fastidioso atteggiamento da primo della classe: ogni cosa che faceva lui era la migliore e gli altri erano delle merde da dileggiare. Ricordo che una volta si vantò di avere fatto il gol decisivo in una delle partitelle perché durante la gara si era messo a pregare: sarà forse stata la mia prima esibizione di laicità ma lo mandai a cagare.
Fatto sta che, fino alla Terza durante tutto l'orario scolastico e dopo solo nella ricreazione del pomeriggio, ogni volta che esagerava col suo salire sul piedistallo per dire quanto lui era superiore agli altri, io lo menavo. Ora, sui social network, uso il sarcasmo più pungente di cui sia capace (e chi mi conosce sa quanto io sia caustico all'occorrenza) contro simili individui, allora passavo alle vie di fatto.
Or bene, anzi, per lui or male, un pomeriggio, non ricordo più a proposito di quale sua insolenza, persi le staffe e gli rifilai nello stomaco un pugno talmente forte che gli uscì tutta l'aria dai polmoni e per qualche secondo non riuscì a respirare, riprendendosi poi a poco a poco.
In un'altra circostanza, invece, mi fece uscire dai gangheri in classe e gli diedi una spinta talmente potente che andò a sbattere contro un banco, cadendo a terra lui e rovesciando il banco.
Sono fatto così: certe persone proprio non riesco a sopportarle. Anche se, naturalmente, da decenni ho bandito pugni e spinte, e mi limito a rivolgere inviti taglienti in stile Jacopo Belbo ossia "ma gavte la nata!", leggasi: suggerire con ironica autorità al pallone gonfiato di levarsi il tappo che ha infisso nello sfintere e che impedisce all'aria di cui è pieno di fuoruscire. Il pendolo di Foucault docet.

Alle Medie, sia Inferiori che Superiori, non ricorsi mai alle botte. E nemmeno i miei compagni di classe. La violenza non ci ebbe mai come protagonisti e di scazzottate (di quelle "fisiologiche", che non recano danni e non lasciano strascichi) ne vidi solo due.

Alle Medie Inferiori, un giorno Giampiero e Gian Luca escogitarono uno scherzo ai danni di Mario.
Mentre costui era seduto, uno dei due gli fece solletico lungo i fianchi e, nell'attimo in cui Mario sobbalzava sulla sedia, l'altro gliela tirò via da dietro, mandandolo a sbattere il fondoschiena sul pavimento.
Mario si rialzò come una molla e si avventò contro Gian Luca. Ne nacque un breve quanto intenso scambio di montanti e di ganci. Tutto finito in pochi secondi, con la sola conseguenza che gli occhiali di Gian Luca erano volati via in seguito ad un pugno, senza peraltro rompersi.

La scazzottata cui assistetti alle Medie Superiori avvenne tra Antonio e Walter.
C'era un'ora buca, cioè senza docente, e a un certo punto i due ragassuoli, che erano e sarebbero stati sempre grandissimi amici, si misero per scherzo a scambiarsi lazzi.
A dimostrazione che le parole sono pericolosissime, perché sai da dove inizi ma non sai dove ti porteranno, dai lazzi ironici Antonio e Walter passarono alle frasi pepate e dalle frasi pepate alle offese pesanti. Un po' come il gioco romano delle rime, che veniva praticato nelle osterie e che spesso finiva con una o più coltellate.
Alla fine, inseguito a non so più quale rilancio "lazzico" di Antonio, Walter si scaraventò su di lui, tempestandolo di pugni.
E la cosa mi sorprese non poco, sia perché Walter non era solito perdere le staffe, sia perché, pur non arrivando mai alle vie di fatto, era Antonio quello fra di noi che tollerava peggio le battute salaci.
Fatto sta che si scatenò una vera e propria rissa da saloon, con un sacco di banchi e sedie rovesciate o comunque spostate rispetto alla loro ordinata ubicazione.
Tutto finito dopo pochi minuti, senza che nessuno dei due si facesse male e senza che la cosa incrinasse i loro rapporti personali. Il giorno dopo Antonio e Walter erano tornati amici come prima.
La cosa surreale e un tantino da stronzoni fu che, quando si scatenò la zuffa tra Antonio e Walter, in classe eravamo presenti solo in due (l'ora era buca), io e Giorgio. Ebbene, invece di cercare di farli smettere (cosa del resto decisamente pericolosa, vista la furia che si era impadronita dei nostri due compagni di classe), io e Giorgio assistemmo al match tutti goduti, ridendo come due scemi.

sabato 6 febbraio 2016

L'investigatore privato

      Chi l’ha detto che uno deve avere il presentimento che sta per succedergli qualcosa che gli sconvolgerà la vita?
      Quella mattina le sue sensazioni erano state assolutamente normali, le stesse di tanti altri giorni: nessun presagio di una terribile mazzata del destino era spuntato nel candido e confortante manto di serenità che ricopriva la sua anima.
      Paparazzo, fotografo, investigatore privato: quante definizioni per il mestiere di chi è pagato per coprire gli altarini, per mettere di fronte a un cliente dubbioso la sua dolorosa realtà adulterina!
      Non aveva mai avuto rimorsi per il suo lavoro; mai si era sentito immerso nell’opprimente sensazione di fare qualcosa di sbagliato, di scorretto. In fondo, si era sempre detto, regalo delle verità ai miei clienti: verità scomode, atroci, ma che prima emergono dall’ombra dell’inganno e della menzogna e meglio è per l’interessato o, come gli accadde più spesso, per l’interessata. Il mio è un lavoro dignitoso e nobile, aveva sempre concluso, basato sull’accertamento della verità dei fatti e non sull’inganno.
      Seguendo questa filosofia, si era sempre premurato di fornire ai clienti prove al di là di ogni ragionevole dubbio, cestinando tutti quegli sguardi, quei gesti, quegli atteggiamenti che, guardando le foto con un certo pregiudizio della mente, potevano anche sembrare prove di un tradimento ma che egli non aveva la certezza che lo fossero.
      A questa norma morale non aveva mai derogato. Ora, poi, con tutte le diavolerie tecnologiche che il mercato metteva a disposizione degli investigatori privati, consentendo loro non solo di filmare o di fotografare ma anche di ascoltare e registrare a distanza, aveva ancora meno possibilità di sbagliare, di scambiare un cordiale rapporto d’affari o una fraterna amicizia per una relazione extraconiugale.
      Mai lo aveva sfiorato il sospetto che, forse, in un certo numero di casi un adulterio non smascherato avrebbe potuto sgonfiarsi da sé, rimanere confinato nel silenzio della (cattiva) coscienza di un marito o di una moglie, di un compagno o di una compagna, restare un piccolo intermezzo senza alcuna importanza affettiva, un momento di debolezza: la temporanea interruzione di un’unione che, senza l’emergere della scappatella, avrebbe potuto riprendere solida come prima, forse addirittura più solida di prima.
      Mai lo aveva interessato sapere quante tragedie, quante esplosioni di dolore e di risentimenti avevano scatenato i suoi rapporti circostanziati con cui informava i suoi clienti di un tradimento fino a quel momento soltanto sospettato.
      Quella mattina era uscito di casa presto per seguire un caso come tanti: la solita moglie fra i 40 e i 50 anni d’età che, con un misto di imbarazzo e di apprensione nella voce, gli aveva detto che sospettava il tradimento del marito e lo aveva incaricato di trovare le prove dell’adulterio.
      Appostarsi nei pressi dell’abitazione dei due senza dare nell’occhio era per lui pura routine: anni di professione lo avevano ormai abituato ad aspettare senza ansia e senza alcuna tensione, con la macchina fotografica e il radiogoniometro a portata di mano.
      Verso le 8 vide il marito della sua cliente uscire di casa. Dopo qualche scatto fotografico, avviò il motore della sua auto e seguì quella dell’uomo.
      La strada che stava percorrendo alle sue calcagna gli fece intuire di essere sulla pista giusta: non era il tragitto da seguire per raggiungere il suo studio di affermato professionista, il cui indirizzo gli era stato rivelato dalla sua cliente quando le aveva chiesto quel minimo indispensabile di informazioni per iniziare il suo lavoro.
      Dopo tre quarti d’ora di traffico cittadino, l’auto dell’uomo si fermò nei pressi di un elegante bar del centro storico. Il pedinato entrò nel bar, un locale dalle ampie vetrine che consentiva ai passanti di scorgere nitidamente gli avventori seduti ai tavolini: una fortuna per il nostro investigatore che, dopo aver parcheggiato a pochi metri dal bar, poteva osservare il suo obiettivo standosene comodamente seduto in macchina.
      Il pedinato prese dal bancone uno dei giornali messi a disposizione dei clienti del bar, si sedette a un tavolino, ordinò qualcosa a uno dei camerieri e si mise a leggere il quotidiano in attesa dell’arrivo della consumazione.
      Passò circa un’ora. Il nostro investigatore aveva sconfitto quella sensazione di annoiata irrequietezza che lo attanagliava durante i primi anni del suo mestiere quando si trovava a fare i conti con l’esasperante scorrere del tempo, in attesa che succedesse qualcosa che non voleva proprio accadere. Ora, sulla soglia della quarantina, era diventato impermeabile alle lunghe, interminabili attese.
      A un certo punto, nel bar entrò una giovane donna, sui trent’anni d’età. Concentrato com’era sul pedinato, aveva appena intravisto il suo ingresso. Quando però lei si avvicinò al tavolo del marito della sua cliente, che nel frattempo si era alzato, e baciò appassionatamente quest’ultimo sulla bocca, le cose cambiarono. Eccome se cambiarono!
      Infatti si accorse con sgomento che la giovane donna era sua moglie, che egli credeva si fosse recata al lavoro come tutti i giorni. Sì, era proprio lei!
      L’abitudine all’attività investigativa, che faceva sì che egli compisse meccanicamente gesti come azionare il radiogoniometro con registratore incorporato o fotografare a raffica col dito premuto sul pulsante dello scatto a ripetizione, fece sì che la sconcertante verità di sapersi tradito non gli impedisse di raccogliere le prove di un adulterio di cui anch’egli era vittima.
      Scattò foto e ascoltò la conversazione dei due amanti come se fosse in trance ma senza perdere la lucidità di rendersi conto, dagli sguardi e dai gesti dei due e dall’ascolto delle frasi che sua moglie scambiava con l’affermato professionista, di avere davvero le corna.
      Dopo qualche minuto i due si alzarono. Il marito della sua cliente pagò le consumazioni al bar, dopo di che la sua amante lo prese sotto il braccio e uscirono in strada. Prima di incamminarsi, si scambiarono un nuovo, lungo e sensuale bacio che, come si dice in questi casi, non lasciava spazio all’immaginazione.
      Si stavano dirigendo verso la loro alcova? Seguirli sarebbe stato troppo per il nostro investigatore.
      Mogio mogio, con le orecchie abbassate, li guardò allontanarsi; poi avviò il motore della sua auto per avviarsi verso il suo ufficio.
      Ormai aveva abbastanza prove per dimostrare la verità di un tradimento che, questa volta, avrebbe cambiato anche la sua vita.