sabato 20 agosto 2016

L'insettino sulla pagina aperta

All'amico Stefano Lo Russo

      Era d'estate. Da anni ormai Stefano non guardava più tanto i programmi televisivi; gli erano venuti a noia, fra gossip insignificanti tranne che per i telespettatori morbosamente attratti dal sapere gli affari altrui e i vari talk show dove predominava non ci diceva cose più sensate ma chi starnazzava di più e le sparava più grosse, rivolgendosi a quella parte ignorante e superficiale di pubblico che gli esperti avevano definito "analfabeti di ritorno". Lo stesso recente, travolgente successo social network, dopo un iniziale periodo di entusiasmo pericolosamente euforico e di coinvolgimento pericolosamente sfociante in sogni in cui si era visto alle prese coi vari commenti e i "mi piace", ora lo vedeva come attore molto distaccato: manteneva sì attivo un suo account su Facebook e due blog ma lo faceva in modo distaccato; pochi quarti d'ora al giorno gli erano sufficienti per postare qualche scritto e mettere qualche commento sugli spazi web delle persone che conosceva direttamente o che aveva imparato ad apprezzare su internet. Si era sostanzialmente distaccato da quel mondo, che continuava a seguire da lontano attraverso le porticine che aveva lasciato aperte pur entrandoci raramente, perché disgustato dai vari commenti ai post ed agli articoli dei periodici online: pieni di assenza di uso dei neuroni, carichi di ignoranza e di presunzione, caratterizzati da caterve di insulti traboccanti di odio e di rancore. A tal punto che si era domandato se fosse il caso, onde evitare che dalla violenza verbale si degenerasse a quella fisica, di rendere obbligatoria per legge la moderazione dei commenti, per responsabilizzare un po' tutti. Aveva anche amaramente constatato che, almeno fino a quel momento, la libertà di parola concessa a tutti i cittadini che fossero a portata di click non si era tradotta in una grande occasione di confronto, se necessario aspro ma pur sempre costruttivo e rispettoso, fra idee e posizioni diverse ma in un marasma di scontri rozzi e volgari, in cui si mirava soltanto ad imporre la propria visione delle cose, spesso priva di una sia pur minima base scientifica e morale, e a criminalizzare chi aveva idee diverse, attribuendogli la responsabilità di tutte le cose che non funzionavano nella società.
       Stefano si era dunque rifugiato, durante le sue ore di tempo libero, in quegli accoglienti appartamenti in cui del resto non aveva mai smesso di abitare: quello della lettura e quello, adiacente e comunicante, della scrittura.
      Non essendo quella sera nella predisposizione d'animo di mettersi a scrivere, Stefano prese in mano un libro ed iniziò a leggerlo.
      Il caldo sole di agosto aveva lasciato il posto alla notte e ad una temperatura più fresca. Era la settimana centrale del mese, periodo in cui la gente, anche quella che nel resto dell'anno si lamentava di non avere i soldi per arrivare a fine mese, continuava ad andare in ferie: evidentemente ad agosto i soldi per andare in vacanza li trovava. Nella città di fatto deserta, si poteva tranquillamente leggere tenendo le finestre aperte: il raro passaggio di un’automobile non disturbava granché la lettura. D’altronde, sia sul lavoro che nello studio o semplicemente nella lettura di qualche romanzo o di qualche giornale, Stefano non aveva mai avuto problemi di concentrazione; negli anni dell'Università, aveva spesso studiato con la radio accesa: non la sentiva neppure, era come se i suoni che uscivano dall'apparecchio fossero come l'ovattato sottofondo rumoroso di un ruscello che scorre lentamente; da quando poi aveva iniziato a lavorare, se quello che stava facendo lo “prendeva” non avvertiva minimamente la presenza di colleghi che chiacchierassero a voce alta o che discutessero animatamente; quando qualcosa lo interessava, riusciva ad isolarsi dal mondo che lo circondava e che non disturbava le sue letture o le sue riflessioni.

      Era stato dunque con il disteso stato d’animo di chi sa che si accinge a godersi s un’interessante lettura immerso nella frescura notturna che Stefano aveva cominciato a leggere quel libro, anzi, ne aveva ripreso la lettura a partire dalle due pagine in mezzo alle quali aveva lasciato il segnalibro.
      Stefano era solito servirsi di un tipo particolare, “fai da te”, di segnalibro: un foglietto di carta su cui disegnava una freccia con la punta disposta orizzontalmente. Poiché gli capitava di avventurarsi in un libro per poi interromperne la lettura per qualche giorno o per qualche settimana (leggeva sempre almeno tre o quattro libri contemporaneamente, saltando da un volume all’altro), al momento di chiudere il libro Stefano metteva quel segnalibro in modo che la freccia indicasse la pagina in cui la lettura era stata interrotta: se la freccia era rivolta verso sinistra, al momento di riprendere in mano il libro sapeva che doveva ricominciare a leggere dalla pagina a sinistra, altrimenti avrebbe ripreso dalla pagina a destra; in tal modo, era sicuro di non saltare alcun passo, se per caso non si fosse ricordato del punto in cui si era fermato la volta precedente.
      Come tutti i bibliofili, Stefano amava i libri rilegati, dalla copertina rigida; davano, come dire?, un’impressione di solidità e di durata, oltre ad essere belli alla vista e, nella maggior parte dei casi, gradevoli al tatto, tranne nei casi in cui il rivestimento della copertina era ruvido o provocava sui polpastrelli la sensazione di una stoffa sgradevole al tatto.
      I volumi dalla copertina rigida erano però un po’ scomodi da maneggiare. La sovracopertina di cui di solito erano dotati si spostava ogni volta che il libro veniva aperto (solo anni dopo Stefano avrebbe imparato a toglierla dai libri che stava leggendo, per poi rimetterla a lettura finita). Era anche un po' difficoltoso tenere aperti i libri con quel formato o, quantomeno, impedire che alcune pagine si muovessero per inerzia o per un soffio di vento, col rischio di lasciarli aperti ad una pagina, allontanarsi per qualche minuto e poi ritrovare il libro aperto qualche pagina indietro o avanti rispetto al punto in cui la lettura era stata interrotta. C’era, sì, il modo per evitare quest’ultimo inconveniente: aprire il libro più o meno alla profondità delle pagine centrali ed esercitarvi sopra una pressione fin quasi a porre in posizione parallela la prima e la seconda di copertina con la terza e la quarta; ma, facendo ciò, si rischiava di rompere la costola del volume o di staccare l’insieme delle pagine da almeno uno dei due lati della copertina.
      Preferiva, dunque, per le letture si cui si fermava ogni tanto a riflettere su un passo o su una frase i volumi dalla copertina morbida. Col tempo, acquisendo quella malizia che solo l’esperienza conferisce in ogni genere di attività, Stefano aveva preso l’abitudine, ogni volta che iniziava la lettura di un libro, di aprirlo preliminarmente alle pagine centrali, premere su di esso due o tre volte e, se si accorgeva che il volume non stava aperto “da solo” alle pagine desiderate (spesso i libri erano composti da molte pagine), ripetere l’operazione alla profondità di circa un quarto e di circa tre quarti del totale del numero delle pagine, il modo che il volume presentasse allo scorrimento quattro blocchi di pagine. Quando otteneva il risultato desiderato, poteva iniziare la lettura del volume e interromperla senza il pericolo di ritrovarsi in seguito a riprenderne l’esplorazione trovandosi sotto gli occhi una pagine diversa da quella lasciata aperta in precedenza. In tal modo, una ventata improvvisa non avrebbe fatto danni: avrebbe sì potuto portare via il segnalibro ma non avrebbe mosso le pagine.
      Il libro che Stefano stava leggendo quella sera era una pubblicazione sul Museo Egizio di Torino illustrata da molte fotografie. Aveva sì la copertina rigida ma in compenso era composto da appena un'ottantina di pagine e dunque, grazie anche alla sue dimensioni (l’altezza e la larghezza delle pagine erano maggiori di quelle di un volume di medio formato), poteva tranquillamente essere lasciato aperto su un tavolo o su una scrivania senza timore di ritornare a prenderlo in mano aperto su due pagine diverse da quelle di poco prima: i fogli larghi, e pure di carta patinata più spessa e quindi più pesante del solito, opponevano una resistenza maggiore e, soprattutto, vincente alle eventuali folate d'aria, di vento o di brezza che fossero.
      A un certo punto Stefano interruppe la lettura col volume aperto su due pagine riportanti ciascuna la statua di un faraone egizio, rispettivamente di Tutmosi III e di Amenofi III, sculture conservate nello statuario del Museo Egizio. Sentiva il bisogno, più che di riflettere su qualcosa, di lasciar scorrere i pensieri che scorrendo dentro di lui; sapeva che, finché non fosse riuscito a "svuotare" la parte conscia della sua mente da quell'affollarsi di ricordi, analogie e rimandi, non avrebbe potuto affrontare con la dovuta concentrazione la lettura delle successive pagine e la visione delle foto in esse riprodotte.
      Posò il libro aperto sulla scrivania e si mise a camminare avanti e indietro nella sua stanza: passi lenti, privi di quel nervosismo che di solito è associato all’espressione “camminare avanti e indietro”. Alcuni pensano seduti, ad occhi aperti o chiusi; Stefano era solito pensare, soprattutto quando una cosa lo prendeva in modo intenso, camminando. Era simile al don Rodrigo che me I promessi sposi si sfoga andando su e giù nel salotto dopo la lite con fra' Cristoforo e non al don Abbondio che solleva gli occhi dal libro e, rimanendo seduto, si chiede chi sia Carneade. Ed era talmente abituato a camminare per riflettere che lo faceva anche in presenza di amici e colleghi, tant'è che una sua compagna di lavoro un giorno gli aveva scherzosamente detto: "Tu pensi con i piedi". Stefano ne aveva riso, perché l'autoironia non gli veniva mai meno.
      Quella sera, camminando avanti e indietro nella stanza, Stefano si accorse che su una delle due pagine aperte si era posato un insettino, di forma rotonda e più piccolo di una comune mosca.
      Quando si sentì pronto per ricominciare a leggere, vide che l'insettino non si era ancora mosso dalla pagina. Per non spaventare l’insettino, che era rimasto immobile al suo avvicinarsi, si sedette ma non riprese in mano il libro, limitandosi a leggere sulle pagine aperte.
      Quando però giunse alla fine della seconda pagina, si pose il problema di come proseguire la lettura, visto che l’insettino non voleva proprio saperne di volare via: sembrava un cucciolo addormentatosi su quel lucido, cartaceo letto.
      Schiacciarlo (cioè ucciderlo) e poi soffiarne via i resti dal libro aperto era cosa che Stefano non voleva proprio fare, visto che voleva bene agli animali. Poteva girare la pagina sperando che, sentendosi spostare, l’insettino volasse via; ma c’era il pericolo che non si muovesse, col risultato di schiacciarlo voltando la pagina. Prendere in mano il libro, scuoterlo per far sloggiare il minuscolo intruso era una soluzione meno cruenta ma Stefano non voleva nemmeno spaventarlo; e lo stesso valeva per la soluzione di soffiargli addosso: il peso esiguo dell’insenttino non avrebbe resistito allo spostamento d’aria provocato dal soffio di Stefano ma anche ciò sarebbe stato traumatico per l’animaletto.
      Indeciso sul da farsi, Stefano diede un’altra occhiata all’insettino e notò che si era posato proprio sulla zona del cuore di una delle due statue. Cuore, si sa, fa rima con amore e amore, egli lo sapeva benissimo, in senso cristiano è dato dalla parola “agape”. Poteva Stefano compiere un’azione contraria all’amore inteso nel senso cristiano? Decisamente no.
      Stefano optò allora per la soluzione più saggia: attendere. Era davvero così importante proseguire subito la lettura del libro, anche a costo di mettere a repentaglio l’incolumità di un essere vivente? No.
      Era già da alcuni anni abituato a porsi quella domanda (“E’ davvero così importante?”), ogni qual volta la sua testardaggine lo portava ad insistere su una cosa senza riuscire a trovare ad essa una soluzione o senza valutare le conseguenze di quella soluzione. Domanda a cui nella maggior parte dei casi rispondeva di no; ciò lo stava gradualmente portando a prendere la vita con più serenità, a cambiare i suoi programmi da un momento all’altro senza provare la rabbiosa frustrazione dei “precisini” che non sopportano né l’eventualità di fare qualcosa che non sia perfetto né l’idea di dover interrompere quello che stanno facendo; in altre parole, quella domanda lo stava portando a vivere meglio, educandosi alla calma e a fare le cose solo quando potevano essere fatte e non prima.
     Anche quella sera si era posto quella domanda ("E' davvero importante?"), rispondendo dentro di sé che la prosecuzione della lettura del libro non valeva assolutamente la vita dell’insettino.
      Stefano si mise così in tranquilla attesa, guardando senza angoscia il libro aperto e gettando divertiti sguardi alla simpatica figura dell’animaletto.
      Come se l’insettino volesse premiarlo per il rispetto che aveva avuto verso di lui, pochi minuti dopo si alzò in volo e lasciò il libro aperto, consentendo a Stefano di girare la pagina e di riprendere la lettura.
      Nei giorni e nei mesi successivi, Stefano ripensò varie volte a quell’episodio. Partendo dalla considerazione che la lettura di un libro, per quanto interessante esso sia, non vale la vita di un essere vivente, rifletté sul significato della cultura e giunse a una duplice conclusione.
      Innanzitutto, a livello immediato, che l’acquisizione della cultura non ti deve impedire di interromperla se qualcuno ha bisogno di te. In quella circostanza era stato l’insettino ad aver bisogno della paziente attesa di Stefano; ma, se si fosse verificato il caso di qualcuno che si fosse sentito male vicino a Stefano, interrompere immediatamente la lettura o la riflessione sarebbe stato ancor di più un imperativo categorico a cui non si sarebbe dovuto sottrarre.
      In senso lato, Stefano trasse da quell’episodio l’insegnamento che la cultura fine a se stessa, insensibile alle sofferenze delle persone e al rispetto verso gli esseri viventi, non solo è inutile ma può anche diventare pericolosa. L’unica cultura che vale la pena di apprendere è quella a servizio delle persone, è quella che può aiutare chi ha bisogno e che insegna a rispettare e a proteggere i diritti degli altri.

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