domenica 18 dicembre 2016

I miei scherzi lavorativi

      I miei scherzi lavorativi risalgono alla (troppo) lunga epoca in cui ho lavorato come informatico. Essi erano di due tipi: quelli che si facevano con l’ausilio dei videoterminali e quelli più prosaicamente privi di supporti informatici.
      All'inizio della mia ingloriosa carriera di informatico (professione che per mia somma fortuna non svolgo più dal 2005), un software gestiva l'acquisizione a video di programmi e documenti da modificare.
      Il problemino è che in azienda chi aveva curato la traduzione della messaggistica di detto software non aveva riflettuto sul doppio senso che in italiano aveva il termine usato per indicare il modulo del programma o della documentazione da acquisire a video, cioè "member".
      Cosicché, quando si digitava il nome di un programma o di una documentazione non presente sulla libreria, compariva sullo schermo il messaggio:

           MEMBRO NON TROVATO

      Quando sciaguratamente (per loro, s'intende) mi insegnarono il linguaggio del software che gestiva programmi e documenti, colsi al volo l'occasione e modificai il messaggio in questione in modo tale che, se si digitava il nome di un "membro" non presente sulla libreria di riferimento, compariva il messaggio:

           MEMBRO NON TROVATO. E' STATO EVIRATO

      Per chi non fosse molto addentro di cose da software, ogni programmatore aveva una sua area di memoria in cui lavorare (la AWS, acronimo di Active Working Space), a cui si poteva accedere da un qualsiasi terminale digitando il proprio codice (Roscoe Key) e la propria password.
      Se per caso uno si dimenticava di chiudere (“uscire”) la sua AWS e provava ad accedervi da un videoterminale diverso da quello su cui era ancora collegato all’AWS, compariva il messaggio:

           AWS già aperta da un altro terminale

e ovviamente il secondo accesso non veniva effettuato.
      Or bene, dopo un po’ di mesi dalla mia assunzione imparai un linguaggio di programmazione, RPF (acronimo di Roscoe Procedure Facilities), che gestiva molte attività di lavoro sulle AWS. Compresa la possibilità di impostare delle cosucce al momento dell’apertura delle medesime.
      Fra queste cosucce, purtroppo per i miei colleghi, c’era anche il comando di uscita immediata dall’AWS con invio a video del messaggio desiderato. E ciò mi diede la possibilità di fare ameni scherzi ai colleghi.

      La mia prima vittima fu la Cristina S. D’accordo con i suoi compagni d’ufficio, durante la pausa pranzo agganciai alla sua AWS il comando (“DEL;OFFON”) che la chiudeva subito e il falso messaggio che l’aveva lasciata aperta su un altro videoterminale.
      Al ritorno dal pranzo, Cristina S. andò alla sua postazione lavoro, digitò a video il suo codice e la sua password e, pum!, le comparve il messaggio di AWS aperta su un altro terminale.
      Iniziò a controllare tutti i video del suo ufficio, sotto gli sguardi fintamente sbalorditi dei suoi compagni di gruppo, e poi, non essendo ovviamente riuscita a identificare il terminale su cui era aperta la sua AWS, uscì di corsa dall’ufficio e andò a controllare, uno per uno, tutti i video della sede della software house, con la doverosa esclusione di quello del direttore generale e di quelli dei dirigenti.
      Tornò, distrutta, sconvolta e scoraggiata, un’ora dopo, ripetendo ad alta voce che non era possibile che avesse lasciato la sua AWS aperta su un altro videoterminale, visto che aveva sempre e solo lavorato nel suo ufficio!
      Solo dopo che, passata un’altra mezz’ora, Cristina S. manifestò, fra il suo viso disperato e le risate trattenute a stento mie e dei suoi compagni d’ufficio, l’intenzione di telefonare al c.e.d. per chiedere spiegazioni sull’inspiegabile anomalia, le rivelammo che si era trattato di un simpatico scherzo.

      E venne il giorno in cui uno spot televisivo divenne un vero tormentone. Mi riferisco a quello che aveva il suo leit motiv nella frase: “Ehi, ringo! La machina … vavavumma!”.
      Gianfranco ne fu talmente acchiappato che si mise a ripeterla a ogni minima occasione. Ogni volta seguita dalla sua inconfondibile risata, che sembrava il nitrito di un cavallo.
      Altra caratteristica inconfondibile di Gianfranco era il suo masochistico modo di concentrarsi: quando rifletteva su qualcosa, prendeva fra due dita un pelo dei suoi baffetti, se lo attorcigliava e poi, strapp!, se lo estraeva con un colpo secco. Risultato: la sua peluria subnasale, ormai ridotta ai minimi sindacali, era stata inclusa dal W.W.F. fra le specie in via di estinzione.
      Tornando al Vavavumma!, decisi di giocare un bel tiro a Gianfranco. Cosa feci? Semplice.
      Agganciai all’AWS di Gianfranco il comando di uscita immediata all’apertura ma, invece di inviargli a video il messaggio di AWS già aperta su un altro terminale, gli feci comparire sullo schermo la scritta:

Ehi, Gianfranco! La machina … vavavumma!

      In un'altra circostanza, presi lo spunto dal fatto che, quando non ci si poteva collegare col centro elaborazione dati dell'azienda, sui terminali compariva la scritta:

        APPLICATION NOT POLLING

      e agganciai all'AWS di Paola G. il comando di uscita immediata all'apertura con l'invio a video della segnalazione:

      APPLICATION NOT POLLING, NOT GALLING AND NOT TACCHINING

      Una mattina nel nostro ufficio ci stavamo annoiando più del solito. A un certo punto Tatino disse: “E’ un po’ di tempo che non facciamo uno scherzo a qualcuno”. Mi misi subito d’ingegno.
      Avevamo all’epoca una consulente esterna che di cognome faceva Serpi. Cosa feci, in un lampo d’ispirazione?
      Modificai la prima videata della sua AWS in modo che, quando avesse acceso il terminale, sarebbe comparsa la frasetta, invero del tutto infondata dal punto di vista scientifico:

LE SERPI SONO MORTALI.

      Seguiva una videata riproducente il disegno di una cassa da morto.
      Peccato però che, quando la signorina accese il suo videoterminale, seduto accanto a sé aveva un dirigente della software house, il quale, evidentemente sprovvisto di senso dell’umorismo, andò subito a riferire l’accaduto a Bellachioma, il vicedirettore.
      Il quale, indignatissimo, si fece immediatamente il giro di tutti gli uffici minacciando fuoco e fiamme se una cosa del genere si fosse ripetuta. Parole testuali:

Se qualcuno fa ancora uno scherzo così, lo becco di sicuro e gli faccio fare dal direttore generale uno di quei culi che non se lo scorda più!

      Così almeno disse quando piombò furente nell’ufficio dove lavoravo io. Nel suo caso, la sua calvizie (origine di soprannomi come appunto Bellachioma e come Belli Capelli) impediva di dire che avesse un diavolo per capello ma era comunque incazzato nero; non a caso quella fu l’unica volta che lo sentii urlare.
      Nel nostro ufficio si verificò una situazione surreale. Non solo Bellachioma se la prese con Michela, la quale non c’entrava niente con la goliardatina, aggredendola verbalmente con un: “Anche se non ho prove, so che sei una che questi scherzi li fa, per cui stai attenta!”. Ma, quando mi rivolse uno sguardo, mi rassicurò dicendomi: “Sta’ tranquillo, Gian Contardo: lo so che tu non fai di queste cose”. E invece ero proprio stato io!
      Naturalmente, ehm, mi guardai bene dal prendermi le mie responsabilità accusandomi del fattaccio per scagionare Michela e gli altri colleghi sospettati.

      Un bel giorno Rosella si presentò in ufficio con un vestito un po' particolare: coperto fino all'altezza della gola nella parte anteriore e completamente scoperto nella parte posteriore, almeno fino a poco sopra la zona, ehm, glutea. In altre parole, aveva la schiena completamente nuda, anzi, ignuda (tanto per andare sull'italiano di una volta).
      Nessun pensiero lascivo o machista, né da parte mia né da parte degli altri suoi colleghi maschi. Ma, insomma, goliardicamente parlando, una schiena femminile nuda quale cosa poteva suggerirmi? Un cubetto di ghiaccio, naturalmente. Da appoggiare su quella schiena, altrettanto naturalmente.
      Per ragioni pollitically correct, scartai subito l'ipotesi di andare a chiedere al direttore generale o a qualche altro alto papavero se nel frigorifero in dotazione alla Direzione c'era un cubetto di giaccio da prendere in prestito. Avrei dovuto motivare quella richiesta e dire la verità non sarebbe stato molto utile alla mia immagine, peraltro già ampiamente compromessa, di impiegato ligio al dovere. E  poi, per definizione, un cubetto di ghiaccio può essere regalato (sai che dono!) ma non dato in prestito, per l'ovvia ragione che dopo un po' si scioglie e allora col cavolo che può venire restituito.
       Ma io, da testardo nato, non demordo mai di fronte alle sfide. E quando la sfida si fa ardua, riesco quasi sempre a sfoderare intuizione e improvvisazione. E così accadde anche allora.
       Mi venne in mente che lo scherzo di far saltare Rosella sulla sedia poteva riuscire anche senza un cubetto di ghiaccio: sarebbe bastato un altro oggetto, sufficientemente gelido.
      Individuarlo in azienda fu assai facile: il distributore di bevande fredde dispensava anche graziose bottigliette di Coca Cola, che uscivano dall'apertura belle gelate.
      Procurarmene una fu un gioco da ragazzi: andai nell'area deputata alle pause caffè, infilai un gettone nel distributore, premetti il pulsante della Coca Cola e dopo un paio di secondi dall'apertura comparve una bottiglietta.
      La presi e solerte rientrai in ufficio, pronto a colpire. Qui la Dea Bendata mi aveva favorito le cose: Rosella stava parlando al telefono con qualcuno e quindi era concentrata sulla conversazione.
      Non si accorse dunque di niente quando, con passo felpato, mi posizionai dietro di lei e, con un sorriso di sadica soddisfazione che già era comparso sul mio viso, le appoggiai sulla schiena la bottiglietta di Coca Cola, gelata non solo nel suo contenuto ma anche nel suo vetro.
      Rosella fece un salto sulla sedia, non altissimo come avrei sperato ma comunque lo fece.
      L'essere impegnata al telefono la trattenne indubbiamente dal commentare lo scherzo. Ammirai il suo sangue freddo: l'esclamare un gradimento della burla con un "vaffa" avrebbe anche potuto sortire l'effetto di far credere alla persona con cui stava parlando dall'altro capo della linea che il gentile invito fosse rivolto a lei.

      Quando lavoravo con Ricky e con Delia, notai che Delia aveva l’abitudine di comprare il pane alla mattina prima di recarsi in ufficio, tenerlo nella sua borsa e prenderlo al momento della fine dell’orario di lavoro per portarselo a casa.
      Un giorno, all’inizio della pausa pranzo, mi venne l’idea di farle uno scherzo. Approfittando del fatto che i miei compagni d’ufficio uscivano a mangiare un panino in uno dei bar della zona mentre io rimanevo solo a degustare il mangiare che mi preparava mia madre e che mi portavo da casa, presi il pane dalla borsa di Delia e lo nascosi in un armadio.
      Nelle mie intenzioni, lo scherzo avrebbe dovuto avere il seguente, innocuo epilogo: un quarto d’ora prima di uscire dall’ufficio, le avrei chiesto come mai quel giorno non aveva comperato il pane, Delia avrebbe aperto la sua borsa non trovandolo e, dopo averla fatta stare sulle spine per qualche minuto, le avrei rivelato il nascondiglio del prezioso alimento.
      Ma … quel pomeriggio mi dimenticai completamente dello scherzo progettato e lasciai l’ufficio senza avvertire Delia della sparizione del farinaceo manufatto!
      Solo alle dieci di sera mi ricordai del pane nascosto e mi sentii in colpa, pensando alla povera Delia alla ricerca della pagnotta perduta.
      Il mattino dopo, le porsi le mie sincere scuse ma ella mi rassicurò dicendomi che, quando si era accorta dell’assenza del pane dalla sua borsa, aveva subito pensato a un mio scherzo e si era messa a cercarlo negli armadi del nostro ufficio, trovandolo quasi subito.

      L'anno in cui mi laureai, il 1987, Ezio Greggio imperversava con la sua gag del: "Ma lo sa che Lei è un vero ffffffenomeno?!", con tanto di saliva nebulizzata sulla faccia del malcapitato interlocutore.
      Potevo io astenermi dall'imitarlo quando mi trovavo in ufficio? Certo che no!
      E così, ogni volta che mi saltava il ghiribizzo, mi avvicinavo ad un collega e, dopo aver controllato di avere in bocca sufficiente saliva da espellere, gli dicevo: "Ma lo sa che Lei è un vero ffffffenomeno!"
      Un minimo di galanteria mi impose di fare questo scherzo solo a colleghi maschi. Principali vittime di esso furono Ricky e Donato.
      Ma i miei compagni di lavoro scemi non erano e così, dopo la quinta o sesta innaffiata di faccia, avevano capito l'andamento dello scherzo. Mi lasciavano appena il tempo di dire: "Ma lo sa che Lei è ...", e subito si allontanavano o quantomeno si paravano la faccia con le mani. Brutti stronzi!
      Cosa feci io, allora? Presi le mie contromisure, naturalmente. Mi avvicinavo di soppiatto alle loro spalle, li bloccavo con le braccia in modo da immobilizzarne il collo e, sempre da dietro, accostavo la mia bocca a uno dei lati delle loro facce ed esclamavo: "Ma lo sa che Lei è un vero ffffffenomeno!", con tanto di nebulizzazione irroratrice.

      Altro scherzo che amavo fare spesso ai colleghi (ma anche agli amici che nulla avevano a che fare col lavoro) era quello della cravatta.
      Quando vedevo uno che sfoggiava una cravatta particolarmente elegante, mi avvicinavo a lui e, mentre mi complimentavo per la qualità del capo di vestiario, ne prendevo fra le dita il lembo pendente per testarne la morbidezza. Poi, di colpo, me lo avvicinavo alla faccia e con esso mi soffiavo il naso.
       Scherzo da fare soprattutto quando si è costipati e dalle narici esce sempre qualche cosa.

      In cosa consiste lo scherzo dell’”agguato”? Non in qualcosa di violento, naturalmente. Consiste nell’arrivare di spalle a una persona senza che se ne accorga o nel comparirle davanti all’improvviso e, in entrambi i casi, nel dire con tono sostenuto: “Bau!”.
      Alle mie colleghe ne feci parecchi, di "agguati". Superfluo spiegare perché questi scherzi li facevo alle mie colleghe e non ai miei colleghi.
      Una volta, però, le cose andarono come non avevo previsto. Accadde che, vidi sbucare Marina dall'ascensore, ubicato dalla parte opposta del corridoio da dove mi trovavo io. Mi nascosi dietro uno degli armadi che, per assenza di spazio sufficiente, erano stati collocati lungo le pareti dei corridoi anziché all'interno dei vari uffici.
      Ovviamente, dovevo rimanere nascosto fino all'ultimo, altrimenti Marina mi avrebbe visto. Calcolai dunque l'attimo in cui saltare fuori all'improvviso in base all'avvicinarsi dei passi nel corridoio.
      Ma la fanciulla doveva avermi visto e, poiché dopo che io mi ero nascosto, dalle scale accanto all'ascensore era sopraggiunto anche Ulisse, uno dei funzionari dell'azienda, Marina gli fece cenno di passare davanti a lei.
      E così, quando sentii il rumore di passi arrivare a un metro da dove mi ero nascosto, sbucai fuori con un pesante balzo e feci: "Bau!" ... ad Ulisse.
      Costui era un tipo oltremodo compassato, che non si scomponeva mai, ma quella volta fece a sua volta un salto non dico lo spavento ma almeno la sorpresa.
      Poi, anche intuendo la verità dal fatto che Marina dietro di lui si era già messa a ridere, Ulisse capii di non essere stato lui il destinatario dello scherzo e si mise a ridere anche lui.
      Come al solito quando faccio una figura di merda, anche allora anziché diventare rosso in volto dall'imbarazzo mi misi a ridere a mia volta e mi limitai a chiedergli scusa.

      In ufficio si possono anche fare simpatici scherzi telefonici. Così, tanto per divertirsi un po' e ingannare il tempo.
      Io ne escogitai uno che non richiedeva nemmeno una chiamata. Quando i collegi del mio gruppo di lavoro andavano a fare la pausa caffè, rimanevo in ufficio; dopo un po' alzavo la cornetta del telefono di uno di essi e la ponevo sulla scrivania, poi mi recavo con passo deciso nell'area dei distributori di bevande e snacks, e gli dicevo che c'era una telefonata per lui; il collega partiva di corsa alla volta dell'ufficio e, una volta entratovi, andava alla sua scrivania e afferrava la cornetta. Per scoprire che non c'era nessuno che lo cercava e che la linea era libera.

      Un altro scherzo telefonico che feci spesso fu il classico pernacchione anonimo.
      Prendevo la cornetta, facevo il numero di un interno dell'azienda dove lavoravo, BADANDO BENE DI NON FARE QUELLO DEL DIRETTORE GENERALE O DI ALTRI DIRIGENTI, e nel sentire il classico: "Pronto?", tiravo una pernacchia degna di quella che Totò fa all'ufficiale tedesco nel film I due marescialli.
      Dopo di che, riattaccavo la cornetta. Naturalmente senza proferire una sola parola.

      E veniamo al "Pronto Napo". Avevamo un collega soprannominato Napo, noto per il tono squillante di voce con cui rispondeva al telefono. I suoi "Pronto?", più che col punto interrogativo sembravano esclamati col punto esclamativo: "Pronto!". Sembrava quasi una trombetta.
      Cosa iniziammo a fare? Quando la pausa pranzo volgeva al termine ed egli era già tornato in ufficio, due-tre-quattro di noi, dopo aver attivato il vivavoce, componeva il numero del suo interno e, appena si sentiva il suo entusiastico "Pronto!", riattaccava la cornetta senza dire alcunché.
      Manco a dirlo, anch'io fui della partita e feci le mie telefonate del "Pronto Napo". Non solo. Mi presi il piacevole onere di ricordare ai miei compagni di bisboccia il giornaliero momento del "Pronto Napo".
      Un poetastro come me non poteva non volgere in rima questo importantissimo incarico e così, ogni giorno, quando mancavano 5 minuti alla ripresa del lavoro prendevo spunto dal numero dell'interno di Napo, 253, e dicevo ai miei colleghi: "Sapete che ora è? / E' l'ora del due-cinque-tre".
      Dopo di che, a turno ognuno dei presenti nel nostro ufficio faceva la chiamata del "Pronto Napo".

      Uno scherzo che imparai da altri colleghi fu quello del bagnare con acqua le sedie altrui.
      Quelle che l'azienda ci dava in uso erano sedie imbottite rivestite di un tessuto nero e, poiché l'acqua è trasparente, bastava versarcela sopra e dopo pochi minuti penetrava nell'imbottitura senza lasciare traccia sul rivestimento esterno. Un po' come i pannolini tanto reclamizzati negli spot televisivi.
      Lo scherzo consisteva nel versare circa la metà del contenuto di una bottiglietta d'acqua da mezzo litro sulla sedia di un collega o di una collega che si era assentata dall'ufficio. Al suo ritorno, quand'anche avesse dato un'occhiata al sedile, l'avrebbe trovato perfettamente asciutto, essendo l'acqua già tutta entrata nell'imbottitura. E così il malcapitato o la malcapitata si sedeva e, in virtù della glutea pressione, l'imbottitura rilasciava l'acqua, che andava a procurare una gradevole sensazione di fresco nonché una buona dose di umidità sul suo fondoschiena.
      Modestia a parte, me la cavai egregiamente anche in questa attività ludico-goliardica.

      Concludo la narrazione dei miei scherzi lavorativi con uno che feci in tandem con Luciano.
      Il nostro collega Faccione aveva un grosso problema: le ragazze con cui attaccava bottone non gliela davano mai. Il suo andare in bianco con le donne era dovuto a grande timidezza, che gli facevano fare delle avances oltremodo impacciate. Tant’è vero che anni dopo una tipa sulla quale aveva puntato gli occhi addosso lo definì: “Quel ragazzo timido e imbranato”.
      Una delle ragazze che lo arrapavano di più era la nostra collega Marina. Faccione non faceva che lodare le sue “zinne”; ancora più esplicito fu quando confessò, a proposito di Marina: “Quella donna sprizza sesso da tutti i pori. La voglio! La voglio!”.
     Poiché Faccione continuava a sbavare dietro a Marina, un pomeriggio io e Luciano decidemmo di giocargli un tiro barbino.
      All’epoca io, Luciano e Marina lavoravamo nella sede centrale della software house, mentre Faccione lavorava al c.e.d. (centro elaborazione dati), ubicato in un altro quartiere. Dunque, non poteva vedere Marina dal vivo.
      Si comunicava non tramite e-mail (all’epoca internet non era tanto diffusa nelle aziende) ma tramite istruzioni che consentivano di inviare messaggi da un videoterminale all’altro.
      Carognescamente io e Luciano ci mettemmo d’accordo sul modo di arraparlo ben bene e lo informarono, ognuno dal proprio videoterminale, su una clamorosa quanto falsa novità: quel giorno Marina era venuta al lavoro indossando un golfino trasparente sotto cui si vedeva che non portava altri indumenti!
      Se la sconvolgente notizia gli fosse stata comunicata da un solo collega, forse Faccione avrebbe potuto esercitare su quell’informazione un minimo spirito critico; ma, ricevendola da due colleghi (per giunta affidabili … almeno fino a quel giorno), la ritenne senz’altro fondata e ci cascò in pieno.
      Non parendogli vero di avere sì ghiotta occasione di attaccar bottone con Marina (per giunta su un argomento “piccante” riguardante proprio lei!), Faccione le messaggiò: “Qui mi giungono notizie folli: che sei venuta al lavoro praticamente nuda! Ma sei impazzita?!”.
      Marina, a stretto giro di posta (anzi, a stretto giro di messaggio), gli rispose oltremodo indispettita che non era vero e che voleva sapere chi aveva messo in giro quelle voci false: “Non è vero! Oggi indosso, come sempre, vestiti normali. I nomi! Voglio sapere i nomi!”.
      Lealmente, Faccione non fece la spia ma, volendo dire che io e Luciano eravamo talmente allupati da vedere cose pepate dove non c’erano, le messaggiò: “Eh, sì, la fame è davvero brutta: fa vedere dell’erotismo anche dove non c’è per niente”.
      Ora, questa frase poteva avere due sensi: il primo era che chi è allupato e desidera una donna, a forza di spogliarla con gli occhi (e con l’immaginazione) finisce per vederla nuda anche quando è vestita; il secondo (e purtroppo per Faccione fu proprio in quest’ultimo modo che la interpretò l’interessata) era che Marina non era affatto erotica.
      Non so se la fanciulla rispose male a Faccione, che si rese subito conto dell’N.M.C.D. (Numero Micidiale con Conseguenze Durature) che si era appena fatto. Fatto sta che Marina non solo si arrabbiò moltissimo ma per un bel po’ di tempo non gli rivolse più la parola.
      Il giorno dopo Faccione, sempre tramite messaggi al videoterminale, ci raccontò tutto lo svolgimento dell’imbarazzante episodio (essendo un archiviatore nato, aveva memorizzato tutto il dialogo fra lui e Marina e lo trasmise sia a Luciano che a me) e ci chiamò a render conto del nostro operato con un eloquente: “Che razza di figura del cavolo che mi avete fatto fare!”. Va be', al posto di "cavolo" usò un sostantivo metaforicamente equivalente iniziante anch'esso per "ca" ma io, che sono notoriamente attento all'eleganza del mio stile di scrittura, non posso riportarlo. Porca puttana d'una vacca troia!
      Quando, poco dopo, incontrai Luciano, ci scambiammo informazioni sulla piega presa dallo scherzo e ci mettemmo a sghignazzare senza ritegno sulla figura da pollo che avevamo fatto fare al povero allupato. Alla fine, Luciano osservò sarcasticamente: “E’ inutile che ci ingegniamo tanto per far fare a Faccione delle figure di merda con le donne: ci riesce benissimo da solo”.

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