Lo ammetto: mi è sempre piaciuto, mi
piace e mi piacerà a combinare scherzi.
Posso dividere i miei scherzi in tre
categorie: quelli degli anni della scuola, quelli lavorativi e quelli
extralavorativi. Cominciamo dai primi.
Feci il mio primo scherzo alle
Elementari. In quell'epoca ero soggetto ad emicranie e portavo sempre a scuola
un tubetto con dentro una pastiglia di analgesico caso mai ne avessi bisogno.
La pastiglia era amarissima, tant'è che a
scuola me la davano sciolta in un bicchiere di acqua e zucchero, per mitigarne
il gusto. Certo, avrei potuto benissimo ingoiarla e poi bere un po' d'acqua ma
era talmente amara che mi veniva da sputarla appena ne sentivo il sapore in
bocca.
Fatto sta che un pomeriggio, sullo
scuolabus che mi stava riportando a casa, mi accorsi di avere in tasca il
tubetto di farmaci con la pastiglia ancora dentro. Accadeva spesso, perché non
è che avessi l'emicrania tutti i giorni, ma quella volta ebbi un'intuizione
geniale e naturalmente bastarda.
Svitai il tubetto, estrassi la pastiglia
e poi la porsi al bambino di una classe diversa dalla mia che sedeva accanto a
me, dicendogli: "Vuoi una caramella?".
Alla sua risposta affermativa, gliela
diedi. E gli si mise in bocca la pastiglia e dopo neanche cinque secondi la
sputò via. Sul suo viso, nel frattempo, era apparsa un'espressione sommamente
disgustata, mentre sul mio ne era comparsa una sommamente divertita.
Negli anni delle Medie Inferiori, quando il
mio compagno di classe Roberto veniva a trovarmi a casa, uno dei nostri
divertimenti preferiti era prendere l'innaffiatoio con cui mio padre irrorava
le piante, riempirlo d'acqua e fare un gavettone "soft" dal lato del
terrazzo o da quello del balcone. Soft perché la quantità d'acqua che esce da
un innaffiatoio è decisamente minore di quella che esce da un secchio. Di
solito, Roberto faceva precedere il gavettone dalla frase, pronunciata con
perfetto tono pretesco: "Vi benedico, figlioli!".
Lo scherzo, però, non era molto
divertente, perché dalla parte del terrazzo il piano di sotto sporgeva di un
buon metro e mezzo, cosicché non si poteva guardare in strada e quindi non
sapevamo se la "benedizione" avesse innaffiato qualche passante
oppure no. Il balcone, invece, dava sul
cortile, che però era quasi sempre deserto.
Solo un paio di volte il balcone fu la
postazione di lancio per gavettoni di grande soddisfazione. Una volta le
famiglie, quando volevano cambiare i materassi, anziché acquistarli
confezionati li facevano fare dai materassai, che utilizzavano la lana di
quelli vecchi. E i materassai si facevano nei cortili dei clienti ...
Fu così che in quelle due occasioni,
preceduti dalla liturgica frase di Roberto: "Vi benedico, figlioli",
dall'innaffiatoio di mio padre partirono gratificanti gavettoni che andarono a
segno, spruzzando d'acqua sia i materassai che la lana che essi stavano
assemblando.
Sempre a casa mia, io e Roberto facemmo
il nostro primo scherzo telefonico.
Da
ragazzini già smaliziati, per farci due risate prendemmo l'elenco telefonico
per cercarvi i cognomi dal significato imbarazzante.
Quando
giungemmo alla breve sfilza di utenti con cognome "Cazzoli", ci venne
l'idea dello scherzo telefonico.
Esecutore materiale fu Roberto, che prese la cornetta e compose il
numero di telefono di uno degli abbonati di cognome Cazzoli.
Rispose
una donna.
"Pronto? Parlo con la signora Cazzi?"
"No, sono Cazzoli."
"Oh, cazzo!"
E
Roberto riattaccò la cornetta.
Che
dire? A quei tempi bastava davvero poco per divertirsi.
Una volta fui protagonista di uno scherzo
del tutto involontario, che non mi era minimamente passato per la testa né di
architettare né, tantomeno, di fare. Ma, si sa, le cose che uno fa senza
intenzione sono quelle che riescono meglio.
Nella primavera del 1974 i gironi di
semifinale di Coppa Italia si erano svolti per un po’ con una distanza di tre
settimane fra una partita e l’altra. Nel girone della Juventus erano comprese
anche il Cesena, il Palermo e la Lazio, che stava guidando la classifica di
Serie A, tallonata dalla Juve. Presupponendo io che l’intervallo di tre settimane
fosse la regola e non essendoci allora tutta l’informazione televisiva che c’è
al giorno d’oggi, il mercoledì pomeriggio in cui credevo ci fosse Juve-Lazio di
Coppa Italia avevo combinato con Roberto (peraltro tifoso del Toro) e Giampiero
(un nostro compagno di classe) di andarla a vedere. Gli accordi erano che io e
Roberto ci saremmo incontrati con Giampiero all’entrata dello Stadio Comunale.
Giunti a una delle entrate dello stadio,
io e Roberto non solo non trovammo Giampiero, che evidentemente non era ancora
arrivato, ma nemmeno la benché minima traccia di altri tifosi. Provammo allora
a chiedere a uno dei custodi, che incontrammo nei paraggi, e questi ci disse
che non era in programma alcuna partita! Evidentemente, il calendario dei
gironi non prevedeva la scadenza fissa di tre settimane fra una partita e
l’altra.
Ad ogni modo, aspettammo Giampiero ancora
per qualche minuto e alla fine, visto che non arrivava, andammo via.
Il giorno dopo si scatenò l’uragano.
Entrati in classe, trovammo Giampiero arrabbiatissimo, che inveendo
animatamente contro di noi ci accusò di avergli fatto uno scherzo. Fra un
improperio e l’altro, ci disse che non solo si era recato allo stadio ma si era
portato dietro una decina di amici formando con loro un variopinto e rumoroso
corteo munito di bandiere bianconere, di trombe e di tamburi: immaginatevi gli
sguardi sconcertati dei passanti nel vedere un gruppo di giovani tifosi recarsi
gioiosamente allo stadio per vedere una partita che non si sarebbe giocata! Non
sorprende dunque che Giampiero fosse piuttosto inviperito: oltre ad essersi
recato al “Comunale” per niente, aveva anche fatto una figuraccia coi suoi
amici.
Inutili furono le spiegazioni mie e di
Roberto: a nulla servì ripetergli varie volte che anche noi eravamo andati allo
stadio e che non si era trattato di uno scherzo. Giampiero ci tenne il muso per
parecchi giorni. Poi, come si suol dire, facemmo pace e mettemmo una pietra
sopra l'imbarazzantissimo episodio.
Ora, col senno del poi, riconosco che per
Giampiero era difficilissimo, se non impossibile, credere alla nostra buona
fede; tutto lasciava propendere per la tesi dello scherzo. Dunque, se allora mi
arrabbiai perché non aveva creduto alla mia buona fede, adesso capisco che
tutto, in quell’equivoco, congiurava a favore della tesi della burla e quindi è
comprensibile che Giampiero abbia creduto che avessimo voluto fargli uno
scherzo.
Ironia della sorte, circa sei mesi dopo
iniziò ad andare in onda l'ultima edizione di Canzonissima, la cui sigla aveva come colonna sonora la canzone La vita l'è bella, interpretata da Cochi
e Renato. Or bene, col sottofondo del passo della canzone in cui si dice:
"C'è chi sbaglia ad andare allo stadio", si vedeva Cochi e Renato
vestiti da tifosi entrare in uno stadio vuoto. Ogni volta che la vedeva, mia
madre si metteva a ridere dicendomi: "Sembrano Giampiero e i suoi amici
qualche mese fa". Con la differenza che Cochi e Renato allo stadio vuoto
erano potuti accedere, mentre i custodi dello Stadio Comunale non avevano fatto
entrare Giampiero e i suoi amici.
Alle Medie Superiori feci un simpatico
scherzo alla mia compagna di classe Monica. Alla fine della Quarta, eravamo
andati in pizzeria a festeggiare l'inizio delle vacanze.
Usciti di là, passammo il resto del
pomeriggio al Parco Rignon, a fare due passi e quattro chiacchiere.
Anche in quel parco c'erano le tipiche
fontanelle di Torino, con la parte superiore modellata a forma di toro.
Caratteristica di queste fontanelle è che buttano fuori l'acqua sia verso il
basso che verso l'alto, grazie ad un sistema di vasi comunicanti. Di solito,
dal getto che cade verso il basso si abbeverano i cani che vengono portati a
spasso, mentre allo zampillo che punta verso il cielo (come sono poetico!) si
accostano gli umani per bere o per rinfrescarsi le mani.
Non ricordo più chi me l'aveva detto in
precedenza ma quel giorno ero a conoscenza di un simpatico dettaglio: se uno
mette un dito nel foro inferiore di fontanelle di quel tipo per tapparne
l'uscita dell'acqua, si crea un aumento di pressione che aumenta la portata e
l'altezza dello zampillo che esce verso l'alto. Lo scherzo che può derivarne, e
che avevo già fatto con successo altre volte, è che, se si ostruisce con un
dito il foro inferiore mentre un'altra persona sta bevendo dal foro superiore,
per l'aumento dello zampillo si lava la faccia. Naturalmente senza averne la
minima intenzione.
Caso volle che, in quel soleggiato
pomeriggio di primavera del 1978, la prima compagna di classe che si chinò a
bere a una fontanella del Parco Rignon fosse Monica.
Mi avvicinai di soppiatto, con mossa
decisa ma furtiva tappai con un dito il foro inferiore della fontanella e dopo
non più di un secondo, splash!, Monica si trovò con la faccia lavata.
Non che ne avesse bisogno, sia ben
chiaro.
Sempre alle Medie Superiori, presi parte
anche ad alcuni scherzi "collettivi", fatti cioè da tutta la classe.
In Seconda ne facemmo due alla prof.ssa
Bertola, nostra insegnante di Lettere e Storia.
Era da poco iniziato l'anno scolastico e
avevano portato i banchi nuovi, avvolti nel cellophane. Togliemmo i
rivestimenti dai banchi e li annodammo in modo ricavarne dei lunghi segmenti e
con essi infiocchettammo la cattedra qualche minuto prima che arrivasse la
prof. A completare l'opera, , venne depositato sulla piccola porzione ancora libera
del piano della cattedra un simpatico bigliettino, da me scritto e che
ricalcava lo stile di quelli che di solito accompagnano i pacchi regalo.
Un'altra volta ci mettemmo tutti d'accordo
e alla fine dell'ora di lezione precedente quella della prof.ssa Bertola
andammo tutti a nasconderci nei bagni.
Così, quando la prof. arrivò ed entrò in
classe, la trovò vuota. Sorpresa! E non era nemmeno periodo di Carnevale né il
primo aprile.
Se avessimo frequentato le Medie
Superiori una decina di anni prima, a fare scherzi come quelli sarebbero
sicuramente stati cavoli amari per noi. Ma i tempi erano cambiati, la goliardia
era accettata da quasi tutti i docenti come cosa naturale da guardare con
comprensione e la prof.ssa Bertola, dal canto suo, agli scherzi sapeva stare.
Al simpaticissimo prof. Podio, nostro
insegnante di Religione in Seconda e in Terza, facemmo invece un altro scherzo.
Concordammo di ignorarlo completamente
durante l'ora di lezione che stava per iniziare, di non rivolgergli la parola,
di fingere di non vederlo, di comportarci insomma come se lui non fosse in
classe.
Il prof. Podio arrivò e, dopo un iniziale
momento di sorpresa, capì di cosa si trattava e stette al gioco implorandoci
con voce fintamente piagnucolosa: "Ragazzi, che cosa vi ho fatto? Su,
ditemi qualcosa!".
Poi fece l'appello. Naturalmente nessuno
rispose: "Presente!" o "Sì!", né alzò la mano. Io però
volli l'originale e riuscii a strappare una mezza risata al prof., che fino ad
allora aveva recitato alla perfezione la parte del docente sorpreso ed
amareggiato; quando pronunciò il mio nome, anziché la mano sollevai un piede.
Come tutti i bei giochi, anche quello
durò poco e dopo una decina di minuti ritornammo ad accorgerci della presenza in
classe del prof. Podio.
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