lunedì 12 dicembre 2016

I miei scherzi degli anni scolastici

      Lo ammetto: mi è sempre piaciuto, mi piace e mi piacerà a combinare scherzi.
      Posso dividere i miei scherzi in tre categorie: quelli degli anni della scuola, quelli lavorativi e quelli extralavorativi. Cominciamo dai primi.

      Feci il mio primo scherzo alle Elementari. In quell'epoca ero soggetto ad emicranie e portavo sempre a scuola un tubetto con dentro una pastiglia di analgesico caso mai ne avessi bisogno.
      La pastiglia era amarissima, tant'è che a scuola me la davano sciolta in un bicchiere di acqua e zucchero, per mitigarne il gusto. Certo, avrei potuto benissimo ingoiarla e poi bere un po' d'acqua ma era talmente amara che mi veniva da sputarla appena ne sentivo il sapore in bocca.
      Fatto sta che un pomeriggio, sullo scuolabus che mi stava riportando a casa, mi accorsi di avere in tasca il tubetto di farmaci con la pastiglia ancora dentro. Accadeva spesso, perché non è che avessi l'emicrania tutti i giorni, ma quella volta ebbi un'intuizione geniale e naturalmente bastarda.
      Svitai il tubetto, estrassi la pastiglia e poi la porsi al bambino di una classe diversa dalla mia che sedeva accanto a me, dicendogli: "Vuoi una caramella?".
      Alla sua risposta affermativa, gliela diedi. E gli si mise in bocca la pastiglia e dopo neanche cinque secondi la sputò via. Sul suo viso, nel frattempo, era apparsa un'espressione sommamente disgustata, mentre sul mio ne era comparsa una sommamente divertita.

      Negli anni delle Medie Inferiori, quando il mio compagno di classe Roberto veniva a trovarmi a casa, uno dei nostri divertimenti preferiti era prendere l'innaffiatoio con cui mio padre irrorava le piante, riempirlo d'acqua e fare un gavettone "soft" dal lato del terrazzo o da quello del balcone. Soft perché la quantità d'acqua che esce da un innaffiatoio è decisamente minore di quella che esce da un secchio. Di solito, Roberto faceva precedere il gavettone dalla frase, pronunciata con perfetto tono pretesco: "Vi benedico, figlioli!".
      Lo scherzo, però, non era molto divertente, perché dalla parte del terrazzo il piano di sotto sporgeva di un buon metro e mezzo, cosicché non si poteva guardare in strada e quindi non sapevamo se la "benedizione" avesse innaffiato qualche passante oppure no.  Il balcone, invece, dava sul cortile, che però era quasi sempre deserto.
      Solo un paio di volte il balcone fu la postazione di lancio per gavettoni di grande soddisfazione. Una volta le famiglie, quando volevano cambiare i materassi, anziché acquistarli confezionati li facevano fare dai materassai, che utilizzavano la lana di quelli vecchi. E i materassai si facevano nei cortili dei clienti ...
      Fu così che in quelle due occasioni, preceduti dalla liturgica frase di Roberto: "Vi benedico, figlioli", dall'innaffiatoio di mio padre partirono gratificanti gavettoni che andarono a segno, spruzzando d'acqua sia i materassai che la lana che essi stavano assemblando.

      Sempre a casa mia, io e Roberto facemmo il nostro primo scherzo telefonico.
      Da ragazzini già smaliziati, per farci due risate prendemmo l'elenco telefonico per cercarvi i cognomi dal significato imbarazzante.
      Quando giungemmo alla breve sfilza di utenti con cognome "Cazzoli", ci venne l'idea dello scherzo telefonico.
      Esecutore materiale fu Roberto, che prese la cornetta e compose il numero di telefono di uno degli abbonati di cognome Cazzoli.
      Rispose una donna.
      "Pronto? Parlo con la signora Cazzi?"
      "No, sono Cazzoli."
      "Oh, cazzo!"
      E Roberto riattaccò la cornetta.
      Che dire? A quei tempi bastava davvero poco per divertirsi.

     Una volta fui protagonista di uno scherzo del tutto involontario, che non mi era minimamente passato per la testa né di architettare né, tantomeno, di fare. Ma, si sa, le cose che uno fa senza intenzione sono quelle che riescono meglio.
      Nella primavera del 1974 i gironi di semifinale di Coppa Italia si erano svolti per un po’ con una distanza di tre settimane fra una partita e l’altra. Nel girone della Juventus erano comprese anche il Cesena, il Palermo e la Lazio, che stava guidando la classifica di Serie A, tallonata dalla Juve. Presupponendo io che l’intervallo di tre settimane fosse la regola e non essendoci allora tutta l’informazione televisiva che c’è al giorno d’oggi, il mercoledì pomeriggio in cui credevo ci fosse Juve-Lazio di Coppa Italia avevo combinato con Roberto (peraltro tifoso del Toro) e Giampiero (un nostro compagno di classe) di andarla a vedere. Gli accordi erano che io e Roberto ci saremmo incontrati con Giampiero all’entrata dello Stadio Comunale.
      Giunti a una delle entrate dello stadio, io e Roberto non solo non trovammo Giampiero, che evidentemente non era ancora arrivato, ma nemmeno la benché minima traccia di altri tifosi. Provammo allora a chiedere a uno dei custodi, che incontrammo nei paraggi, e questi ci disse che non era in programma alcuna partita! Evidentemente, il calendario dei gironi non prevedeva la scadenza fissa di tre settimane fra una partita e l’altra.
      Ad ogni modo, aspettammo Giampiero ancora per qualche minuto e alla fine, visto che non arrivava, andammo via.
      Il giorno dopo si scatenò l’uragano. Entrati in classe, trovammo Giampiero arrabbiatissimo, che inveendo animatamente contro di noi ci accusò di avergli fatto uno scherzo. Fra un improperio e l’altro, ci disse che non solo si era recato allo stadio ma si era portato dietro una decina di amici formando con loro un variopinto e rumoroso corteo munito di bandiere bianconere, di trombe e di tamburi: immaginatevi gli sguardi sconcertati dei passanti nel vedere un gruppo di giovani tifosi recarsi gioiosamente allo stadio per vedere una partita che non si sarebbe giocata! Non sorprende dunque che Giampiero fosse piuttosto inviperito: oltre ad essersi recato al “Comunale” per niente, aveva anche fatto una figuraccia coi suoi amici.
      Inutili furono le spiegazioni mie e di Roberto: a nulla servì ripetergli varie volte che anche noi eravamo andati allo stadio e che non si era trattato di uno scherzo. Giampiero ci tenne il muso per parecchi giorni. Poi, come si suol dire, facemmo pace e mettemmo una pietra sopra l'imbarazzantissimo episodio.
      Ora, col senno del poi, riconosco che per Giampiero era difficilissimo, se non impossibile, credere alla nostra buona fede; tutto lasciava propendere per la tesi dello scherzo. Dunque, se allora mi arrabbiai perché non aveva creduto alla mia buona fede, adesso capisco che tutto, in quell’equivoco, congiurava a favore della tesi della burla e quindi è comprensibile che Giampiero abbia creduto che avessimo voluto fargli uno scherzo.
      Ironia della sorte, circa sei mesi dopo iniziò ad andare in onda l'ultima edizione di Canzonissima, la cui sigla aveva come colonna sonora la canzone La vita l'è bella, interpretata da Cochi e Renato. Or bene, col sottofondo del passo della canzone in cui si dice: "C'è chi sbaglia ad andare allo stadio", si vedeva Cochi e Renato vestiti da tifosi entrare in uno stadio vuoto. Ogni volta che la vedeva, mia madre si metteva a ridere dicendomi: "Sembrano Giampiero e i suoi amici qualche mese fa". Con la differenza che Cochi e Renato allo stadio vuoto erano potuti accedere, mentre i custodi dello Stadio Comunale non avevano fatto entrare Giampiero e i suoi amici.

      Alle Medie Superiori feci un simpatico scherzo alla mia compagna di classe Monica. Alla fine della Quarta, eravamo andati in pizzeria a festeggiare l'inizio delle vacanze.
      Usciti di là, passammo il resto del pomeriggio al Parco Rignon, a fare due passi e quattro chiacchiere.
      Anche in quel parco c'erano le tipiche fontanelle di Torino, con la parte superiore modellata a forma di toro. Caratteristica di queste fontanelle è che buttano fuori l'acqua sia verso il basso che verso l'alto, grazie ad un sistema di vasi comunicanti. Di solito, dal getto che cade verso il basso si abbeverano i cani che vengono portati a spasso, mentre allo zampillo che punta verso il cielo (come sono poetico!) si accostano gli umani per bere o per rinfrescarsi le mani.
      Non ricordo più chi me l'aveva detto in precedenza ma quel giorno ero a conoscenza di un simpatico dettaglio: se uno mette un dito nel foro inferiore di fontanelle di quel tipo per tapparne l'uscita dell'acqua, si crea un aumento di pressione che aumenta la portata e l'altezza dello zampillo che esce verso l'alto. Lo scherzo che può derivarne, e che avevo già fatto con successo altre volte, è che, se si ostruisce con un dito il foro inferiore mentre un'altra persona sta bevendo dal foro superiore, per l'aumento dello zampillo si lava la faccia. Naturalmente senza averne la minima intenzione.
      Caso volle che, in quel soleggiato pomeriggio di primavera del 1978, la prima compagna di classe che si chinò a bere a una fontanella del Parco Rignon fosse Monica.
      Mi avvicinai di soppiatto, con mossa decisa ma furtiva tappai con un dito il foro inferiore della fontanella e dopo non più di un secondo, splash!, Monica si trovò con la faccia lavata.
      Non che ne avesse bisogno, sia ben chiaro.

     Sempre alle Medie Superiori, presi parte anche ad alcuni scherzi "collettivi", fatti cioè da tutta la classe.
     In Seconda ne facemmo due alla prof.ssa Bertola, nostra insegnante di Lettere e Storia.
      Era da poco iniziato l'anno scolastico e avevano portato i banchi nuovi, avvolti nel cellophane. Togliemmo i rivestimenti dai banchi e li annodammo in modo ricavarne dei lunghi segmenti e con essi infiocchettammo la cattedra qualche minuto prima che arrivasse la prof. A completare l'opera, , venne depositato sulla piccola porzione ancora libera del piano della cattedra un simpatico bigliettino, da me scritto e che ricalcava lo stile di quelli che di solito accompagnano i pacchi regalo.

     Un'altra volta ci mettemmo tutti d'accordo e alla fine dell'ora di lezione precedente quella della prof.ssa Bertola andammo tutti a nasconderci nei bagni.
      Così, quando la prof. arrivò ed entrò in classe, la trovò vuota. Sorpresa! E non era nemmeno periodo di Carnevale né il primo aprile.
      Se avessimo frequentato le Medie Superiori una decina di anni prima, a fare scherzi come quelli sarebbero sicuramente stati cavoli amari per noi. Ma i tempi erano cambiati, la goliardia era accettata da quasi tutti i docenti come cosa naturale da guardare con comprensione e la prof.ssa Bertola, dal canto suo, agli scherzi sapeva stare.

      Al simpaticissimo prof. Podio, nostro insegnante di Religione in Seconda e in Terza, facemmo invece un altro scherzo.
      Concordammo di ignorarlo completamente durante l'ora di lezione che stava per iniziare, di non rivolgergli la parola, di fingere di non vederlo, di comportarci insomma come se lui non fosse in classe.
     Il prof. Podio arrivò e, dopo un iniziale momento di sorpresa, capì di cosa si trattava e stette al gioco implorandoci con voce fintamente piagnucolosa: "Ragazzi, che cosa vi ho fatto? Su, ditemi qualcosa!".
      Poi fece l'appello. Naturalmente nessuno rispose: "Presente!" o "Sì!", né alzò la mano. Io però volli l'originale e riuscii a strappare una mezza risata al prof., che fino ad allora aveva recitato alla perfezione la parte del docente sorpreso ed amareggiato; quando pronunciò il mio nome, anziché la mano sollevai un piede.
      Come tutti i bei giochi, anche quello durò poco e dopo una decina di minuti ritornammo ad accorgerci della presenza in classe del prof. Podio.

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