Da ragazzino ho frequentato poche volte l'oratorio della parrocchia di Santa Rita a Torino.
Ci andavo qualche volta al pomeriggio con alcuni miei compagni di classe delle Medie Inferiori.
All'oratorio c'erano due campi da calcio, uno in cemento e l'altro in erba, almeno quel poco che cresceva sul terreno. Erano separati da un muro.
Noi si giocava in fondo al campo di cemento, nello spazio tra la linea di fondo campo e il muro dell'oratorio.
Giocavamo a "porta a porta" (senza Bruno Vespa, sia ben chiaro), una specie di calcio tennis senza contatto fisico: la metà campo era segnata dal pennone metallico della bandiera, situato tra il fondo campo e il muro; come nel doppio del tennis, ci posizionavamo due da una parte e due dall'altra e a turno si tirava nell'altra metà campo, dove uno dei due avversari doveva parare per evitare che il pallone colpisse il muro che fungeva da porta; se invece lo colpiva, era gol.
Un pomeriggio con noi giocava il Vampiro, un nostro compagno di classe così soprannominato perché una volta a scuola stava chiacchierando durante una lezione di Storia e il prof. Demicheli lo sgridò dicendogli: "Sta' zitto, ***! Non è questa l'ora dei vampiri".
In effetti, *** aveva proprio la faccia da vampiro: magra, quasi emaciata, con le guance incavate, concave.
Superfluo aggiungere che da quel giorno *** per noi fu "il Vampiro".
Or bene, il Vampiro era estremamente goffo, qualunque cosa facesse combinava disastri.
Una volta era andato a giocare a bocce a Piazza d'Armi e nel tirare una bocciata anziché centrare al volo una boccia degli avversari colpì la bicicletta di un pensionato che si era fermato a vedere la partita.
Quel pomeriggio, all'oratorio, a un certo punto toccò a lui tirare. Si mise a palleggiare e poi tirò una cannonata ma, nonostante avesse un cinque metri sia da una parte che dall'altra, centrò in pieno il pennone della bandiera.
Ne uscì un roboante suono metallico, ptang!, dopo di che il pennone per un buon minuto oscillò di almeno mezzo metro.
Tutti noi che avevamo assistito alla scena eravamo piegati in due dal ridere.
Un'altra volta, invece, la goffaggine del Vampiro avrebbe potuto avere delle tragiche conseguenze.
Stava giocando a calcio, quello vero, nel campo di cemento. A un certo punto volle fare un colpo di tacco ma al posto del pallone centrò in pieno gli attributi virili del nostro compagno di classe Antonio.
Il quale, per prudenza, non si fece più vedere all'oratorio per un mese.
Nessuna conseguenza, per fortuna: potemmo continuare a chiamarlo Antonio e non Antonia.
Nel campo in erba qualche volta si svolgevano delle partite "ufficiali", magari non tra squadre di società ma tra amici, tutti comunque con la stessa maglia e con un arbitro vero.
Un sabato pomeriggio si disputò un derby, maglie bianconere contro maglie granata.
Quando arrivammo all'oratorio, la partita era già cominciata.
Chiedemmo il risultato: 3-0 per il Toro.
Dissi ai miei compagni di classe: "Andiamo a giocare di là [nel campo di cemento], che è meglio".
Dopo un'ora circa, andammo a vedere la fine della partita.
Il Toro era ancora in vantaggio di due gol ma cominciò la rimonta della Juve, che alla fine vinse il match con un risultato astronomico, forse 12-11, tipico delle partite fra scapoli e ammogliati.
Io, lo ammetto, diedi uno spettacolo da esagitato: ad ogni gol della Juve esultavo come avrebbe fatto in seguito Malesani ad ogni rete delle squadre da lui allenate.
In fondo, avevo delle scusanti: ero un ragazzino e inoltre quelli erano anni in cui nei derby di Serie A la Juve le buscava quasi sempre dal Toro, e quindi si poteva anche esultare per una vittoria fra calciatori amatoriali.
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