Dopo l'esame di Licenzia Media, mi persi
di vista con quasi tutti i miei ex compagni di classe (avevamo preso diverse
nelle Medie Superiori) ma io, Roberto e Giampiero continuammo a frequentarci,
almeno per allora. Andavamo al cinema ogni sabato sera e ogni tanto ci
ritrovavamo a casa mia di sera a fare quattro chiacchiere, ridere, scherzare.
Una volta che ci trovammo a casa mia
(pardon, a casa dei miei genitori, visto che io non ne ero il proprietario), esaurito
ogni possibile argomento di conversazione, ci venne in mente di fare uno
scherzo alle mie compagne di classe della Quinta Superiore. Studiavo da
corrispondente in lingue estere, titolo di studio che allora, a torto o a
ragione, era considerato soprattutto adatto alle ragazze; non a caso, nella mia
classe c'erano 24 ragazze e noi maschietti eravamo solo 6. Ciò provocava nei
miei confronti la mai rancorosa e sempre amichevole invidia di Giampiero, sia
perché nella sua classe dell'istituto per geometri il rapporto maschi/femmine
era più che ribaltato (su 30 studenti, le ragazze erano appena 3), sia perché
era un periodo in cui Giampiero non riusciva mai a "battere chiodo".
Non a caso, con la scusa che eravamo amici e approfittando del fatto che gli
istituti tecnici che frequentavamo sorgevano uno accanto all'altro, si era
fatto da me presentare molte mie compagne di classe e ad alcune di loro aveva
vanamente chiesto di uscire con lui.
Viste queste premesse, lo scherzo che
quella sera Giampiero ci suggerì doveva conseguire il risultato di mettere un
po' di zizzania fra alcune mie compagne di classe e i rispettivi ragazzi: fosse
mai che almeno una litigasse col suo ganzo e Giampiero avesse strada libera. Io
collaborai fornendo al mio amico tutte le informazioni che gli servivano e
discutendo con lui sul tema dello scherzo e sui suoi contenuti.
E fu così che Giampiero, contraffacendo
la voce per rendersi irriconoscibile, telefonò prima a Chiara, qualificandosi
come un amico del suo ragazzo e dicendole che avevano combinato una gita in
montagna per la domenica successiva e si stavano organizzando per partire con
una carovana di automobili. La partenza per la montagna era, secondo la fertile
fantasia di Giampiero, fissata per le 10 in una certa piazza di Torino.
Carognesco obiettivo di Giampiero era, oltre a quello di prendersi gioco di
lei, di farla andare alle 10 in quella piazza, ovviamente senza trovarvi né il
suo ragazzo né la comitiva di auto, e di farla litigare col fidanzato: già, il
quel periodo, come si suol dire, Giampiero stava dietro a quella mia compagna
di classe.
Come se Chiara, nei restanti giorni della
settimana che separavano dalla domenica, non potesse vedere o sentire per
telefono il suo ragazzo e informarsi sulla millantata (da Giampiero) gita in
montagna.
Riattaccato che ebbe la cornetta, il mio
amico ci rese edotti di un particolare erotico della telefonata, dicendoci:
"Che voce sexy che aveva Chiara stasera!". E Roberto, mettendosi a
ridere, commentò: "Forse stava scopando".
Per conferire maggiore credibilità allo
scherzo, Giampiero telefonò subito dopo anche a Daniela, anch'ella mia compagna
di classe e frequentatrice "extra scholam" della stessa compagnia di
amici di Chiara. Le disse che l'aveva chiamato Chiara e gli aveva chiesto di
telefonarle per avvisarla che la domenica successiva si sarebbero trovati tutti
alle 10 in una certa piazza di Torino per partire per una gita in montagna.
Poi il mio amico zuzzurellone cambiò
scherzo e telefonò a Donatella, un'altra mia compagna di classe. Avendogli io
detto che il suo ragazzo era partito per andare a fare il servizio militare,
cosa si inventò Giampiero? Si qualificò commilitone del suo ragazzo e le disse
che per qualche giorno non l'avrebbe più chiamato perché era stato sbattuto in
cella di rigore. "Una cosa da niente, - precisò Giampiero, - un piccolo
litigio fra soldati scoppiato durante il rancio e che il capitano di turno non
ha gradito per niente".
Il giorno dopo dovetti sottopormi ad un
sovrumano esercizio di autocontrollo per non scoppiare a ridere in classe,
quando sentii quelle mie tre compagne di classe raccontarsi le telefonate
ricevute la sera prima. Non avevano abboccato, naturalmente, ma erano molto
preoccupate per quel tipo strano che le aveva chiamate e temevano che potesse
trattarsi di un malintenzionato.
Una sera d'estate, tornando a casa dal
cinema, io, Giampiero e Roberto scendemmo dal tram in piazza Santa Rita. Era
ancora presto per rientrare alle rispettive abitazioni e il fresco della notte
da poco calata invogliava a restare all'aperto. Ci sedemmo su una delle
panchine a chiacchierare un po'.
A un certo punto, il discorso cadde su
uno scherzo che Giampiero e Roberto avevano già fatto: depositare su uno dei
binari del tram delle monetine da 5 e da dieci lire. Al transito del tram sulle
rotaie, si sentiva una serie di scoppiettii, come se qualcuno stesse sparando.
A raccogliere poi le monete saltate via qua e là, ci si accorgeva che il
passaggio su di esse del pesante mezzo pubblico le aveva deformate e
schiacciate, trasformandole in piccoli medaglioni.
Decidemmo di ripetere lo scherzo. Ma
nessuno di noi aveva monete da 5 o da dieci lire, che già all'epoca (fine degli
anni '70 del XX secolo) scarseggiavano. Misi a disposizione una moneta da 50
lire: solo una, perché metterne una decina avrebbe comportato un costo
eccessivo per uno scherzo di poco conto.
Giampiero andò a depositarla su un
binario e ci mettemmo in serena attesa. Dopo qualche minuto passò un tram e in
effetti si sentì un colpo secco quando venne a contatto con la moneta. Non
l'effetto mitragliata che avrebbero prodotto dieci monetine più piccole ma,
insomma, ci si poteva accontentare.
Giampiero andò a raccattare il 50 lire,
finito sulla strada poco distante dalle rotaie, e me la riconsegnò. Era in pare
deformato, schiacciato, un po' allargato ma, visto il suo spessore maggiore
rispetto alle monete da 5 o da 10 lire, il tram non l'aveva ridotto a medaglia.
Lo conservo ancora oggi; è un bel ricordo di anni spensierati.
Una delle mie serie televisive preferite
di qualche anno fa era quella dei Jeffersons. Da essa trassi lo spunto per fare
agli amici lo scherzo della porta, che George Jefferson faceva spesso al signor
Bentley non per riderci sopra ma perché era un po' cafoncello e voleva con tale
azione dirgli di togliersi dalle palle.
Diciamo che negli anni '80-'90 del XX
secolo esso divenne una sorta di pedaggio di iniziazione, che un amico o un
amica doveva pagare la prima volta che veniva a casa mia. Dalla seconda volta
in poi, non lo facevo più, anche perché svaniva l'effetto sorpresa,
fondamentale negli scherzi.
In cosa consisteva? Semplice: quando una
persona usciva dall'ascensore, io tutto gioviale lo salutavo e lo invitavo ad
entrare in casa ma poi, quando era arrivata col naso a pochi centimetri
dall'entrate, gli sbattevo la porta in faccia.
Per poi riaprirla dopo qualche secondo e
domandare ridendo: "Ti è piaciuto lo scherzo?".
Le automobili dei miei amici costituivano
hanno costituito un ottimo teatro d'azione. Intendiamoci: non mi spinsi mai ad
azioni bastarde seppur non vandaliche quali lo staccare lo spinterogeno da
esse; ma qualche ghiotta opportunità goliardica non me la feci di certo
sfuggire.
Innanzitutto, quando uscendo con loro mi
accorgevo che avevano le vetture con almeno un centimetro di polvere, al loro
primo momento di distrazione mi fiondavo su un cofano e col vellutato tocco di
un polpastrello scrivevo idilliaci inviti come: "Lavami", o poetiche
manifestazioni di affetto amicale come: "Pirla".
Il più delle volte i miei amici si
accorgevano delle mie gentili paroline e con panno in mano ci davano di gomito
nel cancellarle dal cofano, compiendo con tale azione la conseguente pulizia
del medesimo: così io mi sentivo orgoglioso per aver indirettamente contribuito
al ripristino del decoro delle loro autovetture.
Accadeva però anche che non se ne
accorgessero minimamente e nei giorni successivi se ne andassero in giro con le
scritte ben evidenti sul cofano, esponendosi così a situazioni un tantino
imbarazzanti. Come successe a Capi, quando andò a prendere sua figlia, allora
bambina, e la pargola, dopo aver letto la parola sul cofano, gli chiese:
"Papà, cosa vuol dire 'pirla'?".
Una simpatica variante di scherzo sulle
automobili me la fornì la rivista satirica Cuore,
un cui numero uscì allegando in omaggio una serie di adesivi da attaccare ai
parabrezza di automobilisti indisciplinati, tipo quello che parcheggiano in doppia
fila o negli stalli destinati ai disabili. Erano adesivi con disegni e frasi
del tipo: "Come ti permetti di posteggiare lì, gran testa di
cazzo?!". Naturalmente attaccai quegli adesivi alle automobili dei miei
amici.
Un altro scherzo che si può fare, e che
io feci, con le automobili degli amici è quello delle multe.
Si prende una multa da un'auto di
proprietari sconosciuti a cui i vigili urbani l'hanno già messa e la si infila
fra il parabrezza e il tergicristalli di quella di un amico. Vederlo scoprire
la multa e mettersi ad imprecare, anche perché non ha commesso alcuna
infrazione al codice della strada, è una sensazione impagabile. Per tutto il
resto, come recita un noto spot televisivo, c'è una certa carta di credito.
Resta il piccolo particolare del
poveraccio a cui la multa è stata tolta dal parabrezza e che, non sapendo di
averla presa, non potrà pagarla: nel migliore dei casi, gli arriverà a casa una
notifica con aumento dell'importo da pagare; nel peggiore, i vigili passeranno
di nuovo nei pressi della sua autovettura e, vedendola priva di multa, a loro
insaputa gli eleveranno una seconda contravvenzione per la stessa infrazione.
Ma è un problema che non mi ha mai posto problemi di coscienza: se lo stronzo
sconosciuto ha parcheggiato in sosta vietata e, peggio ancora, in uno stallo
per disabili, è giusto che paghi il più possibile.
L'azione del togliere la multa dal
parabrezza di un'automobile, da me ispirata da una scena del film Il sorpasso, la feci non tanto come
burla quanto per solidarietà amicale.
Una sera, il mio amico Maury era venuto a
prendermi per andare a cena insieme ad altri amici. Giunti nei pressi della
pizzeria dove ci saremmo ritrovati tutti, girammo per mezz'ora alla ricerca di
un posto dove parcheggiare la sua Austin Montego, da lui affettuosamente
soprannominata Priscilla. Alla fine, si rassegnò e la mise in un tratto di
strada dove c'era la sosta vietata, dicendomi: "Stasera prenderò la multa;
l'auto davanti che ce l'ha già infilata sul parabrezza".
Al che, mi venne in mente quella scena
del capolavoro di Dino Risi e gli dissi: "Un momento. Ci penso io".
Scesi, presi la multa dall'autovettura
davanti e la misi su quella di Maury, rassicurandolo: "Se passassero di
nuovo i vigili, vedrebbero che ti hanno già fatto la multa e non te la
farebbero più".
"Ma così quel poveraccio davanti si
prenderebbe la multa due volte!", - esclamò Maury in un rigurgito di
coscienza.
"E allora? - Replicai beffardamente.
- Così impara a non parcheggiare dove è vietato".
Eh, sì, caro Maury, a volte serve avere
un amico cinefilo.
Al ritorno dalla cena, l'auto davanti
all'Austin Montego non c'era più, per cui non sapemmo mai se il suo
proprietario si era preso la multa una seconda volta. Nel migliore dei casi, si
sarà vista notificare la contravvenzione a casa con tanto di aumento e di mora;
nel peggiore, se ne sarà presa una seconda. Va be', peggio per lui o per lei.
Naturalmente, tenemmo quella multa e la
usammo nei successivi incontri con gli amici per far loro lo scherzo vero e
proprio, mettendola di volta in volta sul parabrezza delle loro auto.
Una sera io e alcuni miei amici ci
trovammo a Torino a passeggiare nelle vie del centro dopo essere stati al
cinema.
Molte vie del centro storico subalpino sono
strette ed hanno marciapiedi di lastre di pietra anch'essi stretti, lungo i
quali passano a malapena due persone affiancate.
A un certo punto mi venne voglia di
scoreggiare. La nostra compagnia si era un po' sgranata. Grazia e Chiara erano
venti metri davanti a me, Uccio e Maury venti metri dietro. Mi venne l'idea
geniale: scoreggiare rombando davanti a Uccio ed a Maury.
Iniziai a rallentare lentamente,
calcolando mentalmente l'attimo in cui tirare la verza (o la pereta, come
direbbero a Napoli) a un metro da loro.
Ma Uccio, non so come, intuì che stavo
escogitando qualcosa e all'ultimo momento lasciò passare un ragazzo che stava
camminando dietro di loro.
E io, non accorgendomi del cambiamento di
bersaglio, gli scoreggiai in faccia. Proprio mentre si stava accendendo una
sigaretta.
Il poveretto rimase di stucco, poi
proseguì senza emettere parola alcuna, mentre Uccio e Maury si stavano già
sbellicando dalle risate.
Una
leggenda metropolitana sostenne in seguito che io col mio potente getto d'aria
avevo spento l'accendino al malcapitato passante.
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