sabato 1 ottobre 2016

Piccole storie dell'Appennino

      Nel film Il ciclone, Leonardo Pieraccioni dice che “in un paese si fa presto a diventare dei personaggi”.
      Anche Villa Minozzo, paesino dell’Appennino tosco-emiliano sul versante reggiano, ha visto passare lungo il fiume del tempo parecchi di questi personaggi, le cui “gesta” in una città rimarrebbero appannaggio della conoscenza di pochi ma che in una località abitata da poche migliaia di anime, dove si conoscono tutti, li fanno diventare dei veri e propri miti locali, che a volte sfidano il corrosivo scorrere dei decenni dei secoli, che cancella volti e ricordi.
      Sfida che viene vinta quando il racconto delle loro imprese viene intercettato da chi ha la mania di scrivere, di fissare sulla carta (o su un hard disk) non solo le proprie idee e le proprie emozioni ma anche le testimonianze di fatti di cui altri sono stati protagonisti, attivi o passivi.

      Eventi passati di bocca in bocca, inevitabilmente deformati da una condivisione di racconto all’altra, ma che contengono una parte sostanziale di verità, come tutte le vicende consegnate al mito, sia pure un mito locale, da cultura popolare, alimentato da uomini che non hanno fatto la Storia e che presto sono diventate anonime anche alle generazioni successive ai fatti di cui si sono resi protagonisti.

      Quand’ero piccolo, mio padre mi raccontava dell’amicizia che per tutta la vita legò Baracca e Rondel. Un’amicizia che poteva durare solo nei paesi di una volta, in cui uno trascorreva tutta l’esistenza avendo come orizzonte il proprio paese o tutt’al più quelli limitrofi e uscendo da quell’orizzonte solo in via eccezionale, come un acquisto importante, una visita a una fiera o un pellegrinaggio a qualche santuario famoso. Un’amicizia, a dire il vero, un po’ movimentata dal fatto che Rondel era un burlone sempre in vena di scherzi, un Buffalmacco dell’Appennino insomma, e Baracca era, di solito, colui che quegli scherzi subiva.
       Lo scherzo più bastardo che Rondel fece a Baracca e che si trasmise ben presto di bocca in bocca ebbe luogo il giorno in cui Baracca si addormentò su un prato, con un braccio piegato e posto sotto la nuca a mo’ di cuscino e l’altro disteso perpendicolarmente al corpo, col palmo rivolto verso l’alto.
      Intuizione e improvvisazione, ho sentito dire in un film. Sinonimo di creatività e componenti fondamentali dell’intelligenza. Che a Rondel non doveva difettare di certo e che si attivò nel vedere l’amico dormire della grossa all’aria aperta.
      Come in molte imprese ben riuscite, anche il caso ebbe la sua parte. Chissà, se quel giorno e proprio in quel momento Rondel non avesse avuto impellenti stimoli intestinali …
      Fatto sta che si calò pantaloni e mutande, e andò a defecare sul palmo della mano dell’addormentatissimo Baracca, che non si svegliò sotto il peso e al calore di quella sgradevolissima mousse.
      Era intenzione di Rondel limitare lo scherzo a quella insolita deposizione o il proseguimento della burla “ecologica” era stato da lui progettato in partenza? Nessuno venne mai a saperlo.
      Comunque sia, Rondel prese uno stelo dal campo e con esso si mise a solleticare il naso di Baracca, come se una fastidiosa mosca gli stesse volando ripetutamente sotto le narici.
      Al primo passaggio della “mosca”, Baracca reagì arricciando il naso, più come reazione fisiologica che come risveglio. Stessa reazione al secondo passaggio: Baracca ancora addormentato. Arricciata ripetuta e più decisa al terzo sfiorare di naso con lo stelo: Baracca già cosciente ma con gli occhi ancora chiusi.
      Alla quarta solleticata da parte di Rondel, Baracca doveva essersi ridestato abbastanza da prendere la decisione di scacciare la “mosca” con la mano libera ma i suoi sensi non dovevano ancora essere vigili per percepire che sul palmo della mano c’era qualcosa di “cremoso” e che questo qualcosa emanava un inconfondibile odorino.
      E così il povero Baracca solleva la mano e, paf!, si cala energicamente il palmo sulla faccia, sporcandosela di cacca.
      Rondel morì quasi centenario: segno che divertirsi e combinare scherzi allunga la vita.

      In un piccolo paese chi ha qualche problema, soprattutto se intellettivo, rischia di diventare l’oggetto di scherno generale (“lo scemo del villaggio” tramandato da tanta cultura popolare), con relativa emarginazione sociale, oppure viene guardato con bonaria indulgenza, viene grosso modo adottato da tutti, che gli perdonano qualche “eccesso” che a volte può compiere.
      La seconda alternativa a Villa Minozzo sembra essere stata quella di Colombo, il quale, oltre ad essere un po’ tardo di comprendonio (come il Gervasio di manzoniana memoria), era anche ladro. Il classico ladro di polli, figura frequente in paesi dalla miseria secolare nei quali chi è ridotto allo stremo cerca di arrangiarsi per sopravvivere.
      Non mi risulta, dai racconti paterni, che Colombo abbia mai subito guai giudiziari per essere, come si suol dire, un po’ lesto di mano. Ogni suo furtarello sembra essersi risolto con una ramanzina da parte delle autorità locali e, quando fu possibile, con la restituzione del maltolto.
      Che non fu possibile dare indietro al proprietario quella volta che Colombo si intrufolò in una casa, anzi, nella cantina di una casa e rubò un salame.
      Probabilmente il ladruncolo venne visto in giro con l’insaccato in mano oppure le precedenti appropriazioni indebite di cui si era reso protagonista indirizzarono subito i sospetti su di lui, fatto sta che, dopo che il proprietario di sì prezioso bene si fu recato dai Carabinieri per sporgere regolare denuncia del furto subito, il maresciallo andò subito all’abitazione di Colombo. E qui lo trovò.
      Gli chiese se era stato lui a rubare il salame di quel tale e Colombo rispose di no.
      Glielo domandò una seconda volta. Identica risposta.
      A questo punto, il graduato della Benemerita, conoscendo la proverbiale ingenuità di Colombo, gli disse: “Scommetto che hai mangiato anche la corda del salame”.
      “E no, - precisò subito Colombo. - La corda l’ho data al gatto”.
      Confessione spontanea e attendibile. “Al di là di ogni ragionevole dubbio”, come recita la famosa espressione giudiziaria.
      In un’altra circostanza, a Colombo venne in mente di andare a rubare una tela di canapa che una famiglia di contadini aveva tessuto e disteso su un prato.
      Per non essere visto, l’Arsene Lupin di Villla Minozzo decise di agire di notte, quando cioè i proprietari della tela erano andati a dormire.
      Fin qui, niente da dire sull’astuzia di Colombo.
      Peccato però che, man mano che arrotolava la tela per portarsela via, si mise a gridare ripetutamente: “Oè, gente! Dormite, dormite, ché la tela la va!”. Ossia: “Dormite, dormite, che la tela se ne va!”.
      A forza di quelle urla, i contadini ebbero il tempo di svegliarsi, vestirsi alla bell’è meglio, uscire di casa con delle lanterne e riconoscere il ladruncolo con la tela sulle spalle, la quale … la andava.

      Passiamo ora ai personaggi anonimi, del quale si è perso nome, cognome o soprannome nel corso del tempo, nei ripetuti passaggi delle loro azioni da un racconto all’altro.

      Ogni anno a Villa Minozzo (o nei dintorni) si teneva una fiera del vino, durante la quale chi aveva prodotto più nettare di Bacco delle necessità famigliari ne vendeva l’eccedenza.
      Lo zio Ennio, mio padrino, mi raccontava spesso di quei due uomini che, non si sa se per mancanza di denaro o per il semplice piacere di scroccare, si facevano il giro di tutti i banchi della fiera e, con la scusa dell’assaggio gratuito, bevevano un bicchierino di qua e uno di là, naturalmente senza acquistare vino.
      Alla sera, alla conclusione della fiera, li trovarono sdraiati su un prato, completamente ubriachi. Avevano cioè “chiappà la bala”, preso la balla, preso una sbronza. E pure coi fiocchi!

      Fino a non tanti decenni fa, la vita nell’Appennino tosco-emiliano era dura, faticosa, e per quasi tutti gli abitanti della zona bere un bicchiere all’osteria costituiva l’unico svago, l’unica occasione per socializzare, magari dopo una giornata passata nei campi per cercare di tenere lontano una miseria sempre in agguato. Estremamente istruttivi sono al riguardo i romanzi di Loriano Macchiavelli e di Francesco Guccini dedicati alle indagini del maresciallo Santovito.

      Come in ogni luogo e in ogni epoca, anche a Villa si beveva per il legittimo piacere di un buon bicchiere di vino in compagnia. A volte, però, si beveva per cercare di dimenticare temporaneamente le fatiche e le amarezze della vita.
      Come quel montanaro, - fu sempre lo zio Ennio a raccontarmelo, - il cui figlio, beccato in flagrante a rubare, era stato arrestato e condannato a qualche anno di prigione. Una volta la magistratura ci andava giù pesante con le sentenze, soprattutto quando gli imputati erano povera gente, e non largheggiava certo nel concedere le circostanze attenuanti o la sospensione condizionale della pena.
      Avere un figlio in galera era per una famiglia onesta un dolore e un disonore insopportabile. E al pover’uomo non restò che trovare conforto nella bottiglia e nell’osteria.
      Fatto sta che una sera uscì dall’osteria completamente ubriaco e traballante si avviò verso casa. A metà circa del cammino si fermò davanti a una cappelletta votiva che conteneva l’immagine della Madonna e le si rivolse con le seguenti, amare parole:

      At salut, Maria! (Trad. it.: “Ti saluto, Maria!”) Tu sei piena di grazia e io sono pieno di vino. Tuo figlio è in croce, mio figlio è in galera: due famiglie rovinate.

      Religione vista come conforto e figure legate ad essa come protettrici dalle avversità della vita. Ma anche come persone reali, a cui rivolgersi per sfogarsi o, in certi casi, con cui prendersela se le cose non vanno per il verso giusto.
      Pare che una volta un barbuto signore di Villa Minozzo, recatosi in chiesa a pregare, come ulteriore atto di devozione si fosse chinato a baciare i piedi del Crocifisso. Nel farlo, però, si impigliò la barba nel chiodo e, quando si alzò, se ne strappò una parte piuttosto dolorosamente. Per il male che sentiva al volto e per la rabbia per l’incidente occorsogli, uscì dalla chiesa piuttosto di cattivo umore.
      Il giorno dopo ritornò in chiesa e si avvicinò al punto dove c’era il Crocifisso, che però nel frattempo era stato sostituito con un altro, più piccolo, non si sa se perché nell’incidente era stato in qualche modo danneggiato o se perché il cambio era semplicemente già stato deciso dal parroco.
      Il racconto che sentii a suo tempo a Villa descriveva il “barbudo” come intenzionato a distruggere il Crocifisso a colpi di martello. Difficile credere che le cose siano andate esattamente così, non foss’altro perché chi un giorno si china a baciare il simbolo principale della sua religione non può essere animato da vendetta profanatrice. Ma tant’è: le leggende, anche quelle piccole, locali, prodotto della cultura popolare, si arricchiscono col tempo di particolari posticci che spesso ne distorcono lo svolgimento degli eventi originari.
      Sia come sia, vedendo la sostituzione del Crocifisso, il barbuto si rivolse a quello nuovo, e più piccolo, dicendogli: “Dì a tuo padre che è inutile che abbia mandato te al suo posto: prima o poi lo becco lo stesso”.

      Una sera un contadino entrò nella chiesa di Villa Minozzo per farsi confessare dal parroco.
      Vista la lunga fila che c’era davanti al confessionale, chiese a tutte le persone che si trovavano in coda se potessero farlo passare prima perché doveva tornare alla sua cascina prima possibile per mungere le mucche.
      In un’epoca e in un paese in cui la disponibilità ad essere di aiuto al prossimo era ancora di casa, tutti acconsentirono. Al giorno d’oggi, invece, specie in una grande città, dove la maleducazione impera, se qualcuno ha bisogno di avere la precedenza in una coda, quasi nessuno gliel’accorderebbe e magari molti non lo degnerebbero nemmeno di una risposta, sia pure negativa.
      Il contadino si accomodò dunque in pole position, in attesa che il parroco finisse di confessare il fedele che stava vuotando il sacco dei suoi peccati.
      Passa un quarto d’ora e ancora il fedele davanti a lui si sta confessando. Passa un altro quarto d’ora ed è ancora lì. Quanti peccati deve avere sulla coscienza!
      Allo scoccare del terzo quarto d’ora il contadino perde la pazienza e gli urla dietro: “Insomma, porca miseriaccia! Sbrigati, ché devo andare a mungere le vacche!”.
      E qui ammetto di avere distorto in racconto originario. Non solo perché il povero contadino imprecò in dialetto ma anche, e soprattutto, perché non disse: “Porca miseriaccia!”, ma al posto di questa espressione proferì una delle più comuni bestemmie, che non cito per rispetto verso la sensibilità religiosa dei lettori.
      In effetti, bestemmiare in pubblico non è mai bello, perché, indipendentemente dalle diverse opinioni che ognuno può avere sulla religione, non bisogna offendere le idee degli altri. Bestemmiare in chiesa, poi, è decisamente un ossimoro dialettico.

      In un paese di montagna, dove la vita è dura e la miseria non è solo un concetto imparato sui libri di scuola, accade sovente di incontrare persone dal cuore generoso ma dalla pelle indurita da fatiche e sofferenze, persone magari burbere nei modi ma che rispondono sempre sì quando si tratta di aiutare qualcuno in difficoltà, persone dalla fede religiosa saldissima ma che bestemmiano in continuazione, prendendosela non con Dio ma con la  crudeltà dell’esistenza che conducono.
      Persone la cui fede cristiana non venne meno nemmeno quando, durante la Guerra Partigiana e dopo la Liberazione, aderirono al comunismo, formando quel solidissimo zoccolo duro (che solo dopo il 1989 si è sfaldato) che ben poco aveva a che fare col marxismo dogmatico e che può essere definito cattocomunista non solo negli anni di Berlinguer ma anche nel precedente periodo togliattiano. “Col pugno chiuso e col segno della Croce”, - come disse Achille Occhetto, allora segretario della F.G.C.I., ai funerali di Palmiro Togliatti.
      A Villa Minozzo accadde che, a Liberazione avvenuta, si dovette ricostruire la chiesa parrocchiale, danneggiata insieme a tante altre costruzioni dalle armi pesanti.
      Il parroco di allora chiamò tutta la popolazione a partecipare ai lavori di ricostruzione, chi con denaro, chi con la fornitura dei materiali, chi col lavoro manuale.
      Vi presero parte anche coloro che avevano aderito politicamente al comunismo. Tradizioni di famiglia, capacità di separare la sfera pubblica in cui impegnarsi in politica da quella privata in cui continuare a professare la propria religione, consapevolezza che la chiesa parrocchiale era un bene di tutta la comunità e tutti, credenti o no, dovevano sentire il dovere di prendersene cura: tutti buoni motivi che spinsero anche i “rossi” a partecipare alla ricostruzione dell’edificio di culto.
      A restauro terminato, poco prima di celebrare la prima messa dopo la riapertura dell’edificio di culto il parroco sbarrò l’ingresso a un gruppo di compaesani dicendo loro che non potevano entrare in chiesa in quanto erano comunisti e socialisti.
      Uno degli esclusi, un socialista appartenente all’unica famiglia di muratori che allora c’era a Villa, reagì dicendo all’ingrato presule: “Eh, no, la chiesa l’ho ricostruita io con la mia famiglia. Voglio proprio vedere se mi impedirete di andare a messa. Se non volete che entri, chiamate i Carabinieri”.
      Dopo di che forzò, senza peraltro incontrare resistenza, il posto di blocco del parroco (che si guardò bene dal chiamare la Benemerita) ed entrò in chiesa, dove assistette alla messa.
      Ad ogni modo, poco tempo dopo al posto del retrivo presule venne nominato parroco di Villa don Savino, uomo di profonda cultura teologica (era stato insegnante al seminario di Marolla) e di fede saldissima ma aperto alle esigenze del mondo e della gente: segno, questo, che per fortuna non sempre l’ortodossia dogmatica si sposa con l’assenza di umanità e di comprensione. Con don Savino, a nessuno venne vietato di entrare in chiesa e di partecipare alla messa, nemmeno ai “rossi”.
      La Chiesa dell’epoca proibiva ai giovani pii di andare a ballare, evidentemente considerando peccaminoso tale passatempo. Il risultato fu che, a Villa Minozzo come in tanti altri paesi, i giovani cominciarono ad andare a ballare alle Feste de L'Unità, gli unici ritrovi pubblici in cui in montagna o in campagna fosse possibile darsi alle danze. Don Savino ebbe l’intelligenza di capire che, per evitare che i giovani venissero interessati dalla propaganda politica, l’unico modo possibile era autorizzare i balli in parrocchia; e così fece: i giovani villaminozzesi di allora poterono andare a ballare con la benedizione di Santa Romana Chiesa. D’altronde, allo stesso don Savino piaceva la musica e i balli, tant’è vero che ogni tanto si confidava a qualche parrocchiano: “Se non avessi la tonaca, andrei a suonare il piano nelle orchestre da ballo”.
      Incontrai don Savino solo una volta: la mia nonnina Anna Maria era morta ed egli venne a renderle omaggio. Avevo undici anni e mia zia Tilde mi presentò a lui dicendogli che avevo lo stesso nome, Contardo, del mio nonno paterno. Non ricordo cosa mi disse ma mi mise subito a mio agio con la sua umanità e la sua simpatia; in giorni di tristezza come quelli della morte di mia nonna, riuscì perfino a farmi ridere un attimo, facendomi solletico ad un ginocchio.
      Nel 1974, quando non era più parroco di Villa (anche se continuava a vivere nella canonica), fu lui a celebrare il matrimonio di mia cugina Anna Rosa con Aldo: lo scelsero sia per affetto verso di lui che per scarsa simpatia verso il nuovo parroco. A riparare diplomaticamente lo “sgarbo” fu invece quest’ultimo, due anni dopo, a celebrare le nozze di mia cugina Livia con Fernando. Al momento di scambiarsi le fedi, Livia venne presa da un momento di commozione e si mise a piangere; evidentemente fu un momento che si protrasse un po’ troppo a lungo, visto che a un certo punto il parroco le disse: “Allora, lo vogliamo mettere questo anello o no?”.
 
      Anche a Villa Minozzo, come in molti altri paesi delle montagne tosco-emiliane, il fascismo non mise radici, limitandosi a inviare un federale col compito di impedire il verificarsi di contestazioni e di azioni ostili al Regime.
      Solo pochi scalmanati avevano aderito convintamente e facinorosamente al fascismo. Contrariamente però ai loro emuli delle città, essi non andavano in giro col manganello ma col manarino, il che ovviamente era peggio, trattandosi di un coltello a lama lunga.
      Fatto sta che un giorno i teppisti fascisti decisero di fare una gazzarra pretendendo di entrare in chiesa a fare propaganda al duce e al Regime. Fecero però i conti senza l’oste.
      L’oste in questione era un omone grande e grosso che prima della messa al bando dei partiti di opposizione aveva militato nel Partito Popolare.
      Vedendo i fascisti avvicinarsi con fare baldanzoso alla chiesa, l’omone prese una sedia, la mise davanti all’entrata della chiesa e si sedette.
      Quando gli squadristi gli intimarono di levarsi di torno, disse loro, semplicemente: “Di qui non si passa”.
      A quel punto il capo dei teppisti, o forse il più baldanzoso di essi, estrasse il manarino e glielo puntò contro.
      Senza proferir parola, l’omone si alzò dalla sedia e, incurante della lama che lo minacciava, rifilò allo squadrista un manrovescio che lo stese. Il resto dell’”agguerrita” truppa si dileguò all’istante.
      Fatto sta che a Villa Minozzo il fascismo non attecchì profondamente. Tant’è vero che, in quegli anni non ancora toccati da tecnologie da Grande Fratello come i satelliti (che al giorno d’oggi sorvegliano e spiano tutto il pianeta), durante il Ventennio gli antifascisti ogni Primo Maggio, con la scusa della scampagnata, si ritrovavano sul Monte Cusna per cantare a squarciagola l’Internazionale e il federale di Villa non ne seppe mai niente o fece finta di non saperne mai niente.

      L’ultima storia che ricordo di Villa Minozzo non ha per protagonista una persona umana ma un animale, e precisamente una gallina.
      Un giorno mia nonna si accorse che era sparita una gallina. Dopo averla cercata a lungo, la dette per persa: forse era riuscita a scappare da un buco aperto nella rete del pollaio e se l’era mangiata qualche animale selvatico.
      Grande fu quindi la sorpresa dei miei parenti nel vedere, qualche settimana dopo, la gallina tornare a casa, seguita da una coda di pulcini.
      La fedele chioccia aveva deposto le uova in un bosco lì vicino e vi si era fermata a covarle. Poi, una volta nati i pulcini e cresciuti abbastanza da poter camminare dietro di lei, era tornata dai suoi padroni portandosi dietro tutta la nidiata.
      Commovente davvero, la storia. Anche perché, considerata la fame che c’era all’epoca da quelle parti, non credo proprio che né la gallina né i suoi pulcini abbiano potuto morire di vecchiaia, anziché finire in pentola.


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