lunedì 24 aprile 2017

Il Memorial Fidippide del 2078

      Anche in quel 2078 a New Run, nell'Arizona, fervevano gli allenamenti per l'annuale Memorial Fidippide, maratona che ogni anno assegnava il titolo di miglior corridore dello Stato.
      Favoriti per la vittoria erano John Speed, campione uscente e detentore del record, e Jack Peasum detto l'Uncorrect, che da anni arrivava sempre secondo.
      Un giorno gli atleti si allenarono in mezzo al deserto, per allenarsi alle condizioni estreme di caldo e siccità.
      Jack Peasum stava correndo insieme ad altri due compagni di squadra sotto un sole che spaccava le pietre e in mezzo ad una sconfinata ed arroventata distesa di pietre e sabbia.
      Essendo più veloce di loro, dopo pochi minuti iniziò a distanziarli.
      "Rallenta, Jack! - Gli disse uno dei suoi compagni di squadra. - E' solo un allenamento. Anche tu non devi far altro che rispettare la tabella di marcia dell'allenatore."
      Ma Peasum, che voleva sempre essere il primo in ogni situazione, fece di no con un cenno della mano, senza nemmeno voltarsi un attimo indietro per rispondere a voce.
      La distanza a poco a poco aumentò e, prima di perderlo di vista, l'altro compagno di squadra gli disse: "Abbiamo sete, le nostre borracce sono ormai vuote. Tu invece ne hai ancora due piene. Daccene una: a te l'altra basta e avanza".
      Peasum fece di nuovo cenno di no con una mano, senza degnarli di uno sguardo, e addirittura accelerò il ritmo, distanziandoli definitivamente.
      Dopo mezz'ora, i due vennero raggiunti da John Speed, il campione di una delle squadre avversarie che era partito quaranta minuti dopo di loro.
      Mentre li stava superando, uno dei due corridori gli disse: "Siamo avversari, è vero,  ma potresti lo stesso darci una delle tue borracce, visto che noi ne siamo rimasti senza?".
      "Certamente", - rispose Speed, porgendogli una delle sue borracce.
      Poi si adeguò al loro ritmo di corsa e insieme arrivarono al punto dove i loro allenatori li stavano aspettando per riportarli su dei pulmini ai rispettivi centri di allenamento.
      Arrivarono tutti gli atleti delle varie società sportive, tranne Jack Peasum.
      Allungando il passo si era perso nel deserto. Le  squadre di ricerca lo ritrovarono sano e salvo ma impaurito, stremato e disidratato.

      Passarono i giorni, passarono le settimane. Peasum si rimise in poco tempo e riprese ad allenarsi. Così come avevano continuato a fare John Speed e gli altri atleti.
      Venne finalmente la mattina della gara di corsa. Mattina presto, perché già verso le 10 antimeridiane il clima era troppo caldo per consentire attività sportive all'aperto.
      E così, alle 7 e 30 duecento e passa atleti erano pronti ai nastri di partenza, carichi come molle.
      Pronti, via! Lo starter, sparando con la sua pistola caricata a salve, diede inizio alla corsa di oltre 42 km.
      I primi chilometri furono di studio, con qualche atleta che, sapendo benissimo di non poter vincere, si metteva alla testa della corsa per qualche secondo per avere la soddisfazione di una piccola ribalta. Ma già in quel tratto iniziale un po' di partecipanti iniziò a perdere contatto dal gruppone di testa.
      Verso il 15 km scattò Mark Effy Mer, uno solito a fare la lepre. Allungò il passo, come se il traguardo fosse a poche centinaia di metri.
      Conoscendone l'ardimentosa quanto illusoria tattica di gara, i migliori, fra cui John Speed e Jack Peasum, lo lasciarono andare, badando a tenere il loro ritmo, sostenuto ma anche non eccessivamente spedito per poter arrivare agli ultimi chilometri con una buona tose di fiato nei polmoni e senza acido lattico nelle ginocchia.
      Intanto, il gruppo di testa si assottigliava sempre di più: fra chi non riusciva più a reggere l'andatura dei più forti, qualcuno si fermava lungo il percorso, ritirandosi e salendo sulle auto dei rispettivi gruppi sportivi, mentre altri rallentavano e procedevano col loro passo, tenendo come punto d'onore l'imperativo categorico di arrivare comunque al traguardo.
      Verso il 25.mo chilometro, la solitaria sgroppata di Effy Mer, che era riuscito ad accumulare 90 secondi di vantaggio, si esaurì in poco tempo: aveva ormai finito la benzina. Iniziò ripetutamente a voltarsi indietro, segno che il peso della fatica lo aveva reso insicuro.
      Dopo un altro paio di chilometri, venne raggiunto dai migliori, ormai ridottisi a una decina di corridori. Nonostante si sforzasse di correre, venne superato come se fosse fermo e distanziato in pochi secondi. Subito dopo si ritirò. Aveva comunque riscosso la sua piccola parte di notorietà e di inquadrature delle telecamere.
      Dei dieci corridori che ora guidavano la competizione, tre erano compagni di squadra di Speed e due di Peasum. Il primo aveva promesso a tutta la squadra una fetta dei suoi premi in caso di vittoria e i tre che erano ancora con lui si alternavano alla guida del plotone di testa per tenera alta l'andatura per impedire fughe che, in quel momento della gara, avrebbero potuto rivelarsi decisive. Peasum l'Uncorrect, invece, non aveva promesso alcunché alla squadra di cui faceva parte e i due compagni riuscivano ancora a tenere il suo passo non gli stavano dando una mano. Ma non se ne preoccupava; la sua tattica era semplice: mettersi alle calcagna di John Speed e seguirlo come un'ombra: tanto, prima o poi l'iniziativa sarebbe partita da quest'ultimo e lui non avrebbe dovuto far altro che accodarsi  e bruciarlo sul traguardo.
      Tattica indovinata ma obiettivo mancato. Speed scattò sì, al 36.mo km, e Peasum gli si appiccicò come un francobollo. Ma dopo 800 metri quest'ultimo non riuscì a reggere il passo di John Speed e venne quasi subito staccato.
      Sembrava fatta per quest'ultimo, mentre Jack Peasum stava arrancando rabbiosamente: dal suo sguardo non traspariva però la sana cattiveria agonistica, che porta un atleta a non mollare mai, ma il rancore e quasi l'odio personale verso chi lo stava per l'ennesima volta distanziando.
      Ci fu però un imprevisto, un autentico colpo di scena. Appena superata la segnalazione del 38.mo km, Speed non fece caso a una macchia d'olio lasciata sul percorso da un camion che era passato durante la notte e scivolò, cadendo rovinosamente sull'asfalto.
      Rimase bloccato al suolo, sia per il dolore delle escoriazioni alle gambe e alle braccia causate dal contatto con l'asfalto, sia per la paura di essersi fatto qualcosa di più grave, tipo una distorsione.
      Speed si mise a fare qualche respiro lungo per calmarsi, poi si toccò le gambe e provò a muoverle, sia pure da seduto.
      In quel momento, da dietro arrivò Peasum che si era già reso conto dell'incidente capitato al suo avversario; con un sorriso di perfida soddisfazione, superò John Speed, aumentando l'andatura per schernirlo e, cosa molto brutta, facendogli un gesto estremamente volgare.
      Speed lo ignorò, concentrandosi sulle sue gambe. Si rialzò e fece qualche passo camminando, per vedere se avvertiva dolore. Tutto a posto: nessuna sofferenza fisica. Accennò a correre, sia pure non in modo spedito, e continuò a non avvertire dolore. Le escoriazioni riportate avevano intanto smesso di fargli male:la scarica di adrenalina che la caduta gli aveva provocato cominciava già a fare effetto.
      Speed riprese a correre, riuscendo a poco a poco ad aumentare l'andatura. Non si illudeva di poter raggiungere Peasum, che sembrava avere ormai preso il volo, ma voleva comunque concludere la corsa a testa alta, con un onorevole secondo posto.
      Il risultato della corsa sembrava già scritto ma ...
      Jack Peasum, esaltato dall'inaspettato colpo di fortuna, stava affrontando l'ultimo tratto di corsa quasi senza accorgersi del nastro d'asfalto che si presentava ai suoi piedi. I suoi pensieri erano tutti proiettati all'arrivo, al taglio del traguardo, ai flash dei fotografi e alle inquadrature delle telecamere, alle interviste (nelle quali si sarebbe subito premurato di dire che avrebbe vinto lo stesso, anche senza la caduta di Speed) e, soprattutto, alla cerimonia della premiazione, alla medaglia d'oro e alla coppa, e poi al premio in denaro, tanto, e ai premi degli sponsor, ancora più sostanziosi: soldi che, naturalmente, intendeva tenere tutti per sé.
      Così preso da tutti questi scenari di gloria, Peasum non vide nemmeno, al 40.mo km, l'ultimo punto di rifornimento, da cui prendere o una bottiglietta d'acqua da bere o una spugna bagnata con cui togliersi un po' della calura del sole ormai alto nel cielo. Pensava solo alla fama e al denaro.
      Quella distrazione gli fu, agonisticamente parlando, fatale. A meno di un chilometro dal traguardo, iniziò ad accusare la fatica, il caldo e la sete. Di colpo, come accade spesso dopo una corsa di oltre 42 km.
      Intanto, John Speed, che il rifornimento aveva fatto, stava rimontando su di lui, lentamente sì ma costantemente.
      Peasum, sempre più affannato e affaticato, si accorse di essere spacciato quando, nell'affrontare la curva che immetteva nello stadio sulla cui pista era stato posto il traguardo, vide Speed a pochi metri da lui.
      I due entrarono praticamente appaiati nello stadio, dopo di che John Speed con un deciso sprint finale staccò subito il suo avversario e con le ali ai piedi andò a tagliare il nastro dell'arrivo e a riscuotere gli scroscianti applausi di una strameritata vittoria.

      La rabbia e la stizza di Jack Peasum detto l'Uncorrect erano tali che non si presentò nemmeno alla cerimonia di premiazione, durante la quale tutti gli spettatori inneggiarono alla bravura di Speed.

giovedì 6 aprile 2017

I miei scherzi extralavorativi

      Dopo l'esame di Licenzia Media, mi persi di vista con quasi tutti i miei ex compagni di classe (avevamo preso diverse nelle Medie Superiori) ma io, Roberto e Giampiero continuammo a frequentarci, almeno per allora. Andavamo al cinema ogni sabato sera e ogni tanto ci ritrovavamo a casa mia di sera a fare quattro chiacchiere, ridere, scherzare.
     Una volta che ci trovammo a casa mia (pardon, a casa dei miei genitori, visto che io non ne ero il proprietario), esaurito ogni possibile argomento di conversazione, ci venne in mente di fare uno scherzo alle mie compagne di classe della Quinta Superiore. Studiavo da corrispondente in lingue estere, titolo di studio che allora, a torto o a ragione, era considerato soprattutto adatto alle ragazze; non a caso, nella mia classe c'erano 24 ragazze e noi maschietti eravamo solo 6. Ciò provocava nei miei confronti la mai rancorosa e sempre amichevole invidia di Giampiero, sia perché nella sua classe dell'istituto per geometri il rapporto maschi/femmine era più che ribaltato (su 30 studenti, le ragazze erano appena 3), sia perché era un periodo in cui Giampiero non riusciva mai a "battere chiodo". Non a caso, con la scusa che eravamo amici e approfittando del fatto che gli istituti tecnici che frequentavamo sorgevano uno accanto all'altro, si era fatto da me presentare molte mie compagne di classe e ad alcune di loro aveva vanamente chiesto di uscire con lui.
      Viste queste premesse, lo scherzo che quella sera Giampiero ci suggerì doveva conseguire il risultato di mettere un po' di zizzania fra alcune mie compagne di classe e i rispettivi ragazzi: fosse mai che almeno una litigasse col suo ganzo e Giampiero avesse strada libera. Io collaborai fornendo al mio amico tutte le informazioni che gli servivano e discutendo con lui sul tema dello scherzo e sui suoi contenuti.
      E fu così che Giampiero, contraffacendo la voce per rendersi irriconoscibile, telefonò prima a Chiara, qualificandosi come un amico del suo ragazzo e dicendole che avevano combinato una gita in montagna per la domenica successiva e si stavano organizzando per partire con una carovana di automobili. La partenza per la montagna era, secondo la fertile fantasia di Giampiero, fissata per le 10 in una certa piazza di Torino. Carognesco obiettivo di Giampiero era, oltre a quello di prendersi gioco di lei, di farla andare alle 10 in quella piazza, ovviamente senza trovarvi né il suo ragazzo né la comitiva di auto, e di farla litigare col fidanzato: già, il quel periodo, come si suol dire, Giampiero stava dietro a quella mia compagna di classe.
      Come se Chiara, nei restanti giorni della settimana che separavano dalla domenica, non potesse vedere o sentire per telefono il suo ragazzo e informarsi sulla millantata (da Giampiero) gita in montagna.
      Riattaccato che ebbe la cornetta, il mio amico ci rese edotti di un particolare erotico della telefonata, dicendoci: "Che voce sexy che aveva Chiara stasera!". E Roberto, mettendosi a ridere, commentò: "Forse stava scopando".
      Per conferire maggiore credibilità allo scherzo, Giampiero telefonò subito dopo anche a Daniela, anch'ella mia compagna di classe e frequentatrice "extra scholam" della stessa compagnia di amici di Chiara. Le disse che l'aveva chiamato Chiara e gli aveva chiesto di telefonarle per avvisarla che la domenica successiva si sarebbero trovati tutti alle 10 in una certa piazza di Torino per partire per una gita in montagna.
      Poi il mio amico zuzzurellone cambiò scherzo e telefonò a Donatella, un'altra mia compagna di classe. Avendogli io detto che il suo ragazzo era partito per andare a fare il servizio militare, cosa si inventò Giampiero? Si qualificò commilitone del suo ragazzo e le disse che per qualche giorno non l'avrebbe più chiamato perché era stato sbattuto in cella di rigore. "Una cosa da niente, - precisò Giampiero, - un piccolo litigio fra soldati scoppiato durante il rancio e che il capitano di turno non ha gradito per niente".
      Il giorno dopo dovetti sottopormi ad un sovrumano esercizio di autocontrollo per non scoppiare a ridere in classe, quando sentii quelle mie tre compagne di classe raccontarsi le telefonate ricevute la sera prima. Non avevano abboccato, naturalmente, ma erano molto preoccupate per quel tipo strano che le aveva chiamate e temevano che potesse trattarsi di un malintenzionato.

      Una sera d'estate, tornando a casa dal cinema, io, Giampiero e Roberto scendemmo dal tram in piazza Santa Rita. Era ancora presto per rientrare alle rispettive abitazioni e il fresco della notte da poco calata invogliava a restare all'aperto. Ci sedemmo su una delle panchine a chiacchierare un po'.
      A un certo punto, il discorso cadde su uno scherzo che Giampiero e Roberto avevano già fatto: depositare su uno dei binari del tram delle monetine da 5 e da dieci lire. Al transito del tram sulle rotaie, si sentiva una serie di scoppiettii, come se qualcuno stesse sparando. A raccogliere poi le monete saltate via qua e là, ci si accorgeva che il passaggio su di esse del pesante mezzo pubblico le aveva deformate e schiacciate, trasformandole in piccoli medaglioni.
      Decidemmo di ripetere lo scherzo. Ma nessuno di noi aveva monete da 5 o da dieci lire, che già all'epoca (fine degli anni '70 del XX secolo) scarseggiavano. Misi a disposizione una moneta da 50 lire: solo una, perché metterne una decina avrebbe comportato un costo eccessivo per uno scherzo di poco conto.
      Giampiero andò a depositarla su un binario e ci mettemmo in serena attesa. Dopo qualche minuto passò un tram e in effetti si sentì un colpo secco quando venne a contatto con la moneta. Non l'effetto mitragliata che avrebbero prodotto dieci monetine più piccole ma, insomma, ci si poteva accontentare.
      Giampiero andò a raccattare il 50 lire, finito sulla strada poco distante dalle rotaie, e me la riconsegnò. Era in pare deformato, schiacciato, un po' allargato ma, visto il suo spessore maggiore rispetto alle monete da 5 o da 10 lire, il tram non l'aveva ridotto a medaglia. Lo conservo ancora oggi; è un bel ricordo di anni spensierati.

      Una delle mie serie televisive preferite di qualche anno fa era quella dei Jeffersons. Da essa trassi lo spunto per fare agli amici lo scherzo della porta, che George Jefferson faceva spesso al signor Bentley non per riderci sopra ma perché era un po' cafoncello e voleva con tale azione dirgli di togliersi dalle palle.
      Diciamo che negli anni '80-'90 del XX secolo esso divenne una sorta di pedaggio di iniziazione, che un amico o un amica doveva pagare la prima volta che veniva a casa mia. Dalla seconda volta in poi, non lo facevo più, anche perché svaniva l'effetto sorpresa, fondamentale negli scherzi.
      In cosa consisteva? Semplice: quando una persona usciva dall'ascensore, io tutto gioviale lo salutavo e lo invitavo ad entrare in casa ma poi, quando era arrivata col naso a pochi centimetri dall'entrate, gli sbattevo la porta in faccia.
      Per poi riaprirla dopo qualche secondo e domandare ridendo: "Ti è piaciuto lo scherzo?".

      Le automobili dei miei amici costituivano hanno costituito un ottimo teatro d'azione. Intendiamoci: non mi spinsi mai ad azioni bastarde seppur non vandaliche quali lo staccare lo spinterogeno da esse; ma qualche ghiotta opportunità goliardica non me la feci di certo sfuggire.
      Innanzitutto, quando uscendo con loro mi accorgevo che avevano le vetture con almeno un centimetro di polvere, al loro primo momento di distrazione mi fiondavo su un cofano e col vellutato tocco di un polpastrello scrivevo idilliaci inviti come: "Lavami", o poetiche manifestazioni di affetto amicale come: "Pirla".
      Il più delle volte i miei amici si accorgevano delle mie gentili paroline e con panno in mano ci davano di gomito nel cancellarle dal cofano, compiendo con tale azione la conseguente pulizia del medesimo: così io mi sentivo orgoglioso per aver indirettamente contribuito al ripristino del decoro delle loro autovetture.
      Accadeva però anche che non se ne accorgessero minimamente e nei giorni successivi se ne andassero in giro con le scritte ben evidenti sul cofano, esponendosi così a situazioni un tantino imbarazzanti. Come successe a Capi, quando andò a prendere sua figlia, allora bambina, e la pargola, dopo aver letto la parola sul cofano, gli chiese: "Papà, cosa vuol dire 'pirla'?".
      Una simpatica variante di scherzo sulle automobili me la fornì la rivista satirica Cuore, un cui numero uscì allegando in omaggio una serie di adesivi da attaccare ai parabrezza di automobilisti indisciplinati, tipo quello che parcheggiano in doppia fila o negli stalli destinati ai disabili. Erano adesivi con disegni e frasi del tipo: "Come ti permetti di posteggiare lì, gran testa di cazzo?!". Naturalmente attaccai quegli adesivi alle automobili dei miei amici.

      Un altro scherzo che si può fare, e che io feci, con le automobili degli amici è quello delle multe.
      Si prende una multa da un'auto di proprietari sconosciuti a cui i vigili urbani l'hanno già messa e la si infila fra il parabrezza e il tergicristalli di quella di un amico. Vederlo scoprire la multa e mettersi ad imprecare, anche perché non ha commesso alcuna infrazione al codice della strada, è una sensazione impagabile. Per tutto il resto, come recita un noto spot televisivo, c'è una certa carta di credito.
      Resta il piccolo particolare del poveraccio a cui la multa è stata tolta dal parabrezza e che, non sapendo di averla presa, non potrà pagarla: nel migliore dei casi, gli arriverà a casa una notifica con aumento dell'importo da pagare; nel peggiore, i vigili passeranno di nuovo nei pressi della sua autovettura e, vedendola priva di multa, a loro insaputa gli eleveranno una seconda contravvenzione per la stessa infrazione. Ma è un problema che non mi ha mai posto problemi di coscienza: se lo stronzo sconosciuto ha parcheggiato in sosta vietata e, peggio ancora, in uno stallo per disabili, è giusto che paghi il più possibile.
      L'azione del togliere la multa dal parabrezza di un'automobile, da me ispirata da una scena del film Il sorpasso, la feci non tanto come burla quanto per solidarietà amicale.
      Una sera, il mio amico Maury era venuto a prendermi per andare a cena insieme ad altri amici. Giunti nei pressi della pizzeria dove ci saremmo ritrovati tutti, girammo per mezz'ora alla ricerca di un posto dove parcheggiare la sua Austin Montego, da lui affettuosamente soprannominata Priscilla. Alla fine, si rassegnò e la mise in un tratto di strada dove c'era la sosta vietata, dicendomi: "Stasera prenderò la multa; l'auto davanti che ce l'ha già infilata sul parabrezza".
      Al che, mi venne in mente quella scena del capolavoro di Dino Risi e gli dissi: "Un momento. Ci penso io".
      Scesi, presi la multa dall'autovettura davanti e la misi su quella di Maury, rassicurandolo: "Se passassero di nuovo i vigili, vedrebbero che ti hanno già fatto la multa e non te la farebbero più".
      "Ma così quel poveraccio davanti si prenderebbe la multa due volte!", - esclamò Maury in un rigurgito di coscienza.
      "E allora? - Replicai beffardamente. - Così impara a non parcheggiare dove è vietato".
      Eh, sì, caro Maury, a volte serve avere un amico cinefilo.
      Al ritorno dalla cena, l'auto davanti all'Austin Montego non c'era più, per cui non sapemmo mai se il suo proprietario si era preso la multa una seconda volta. Nel migliore dei casi, si sarà vista notificare la contravvenzione a casa con tanto di aumento e di mora; nel peggiore, se ne sarà presa una seconda. Va be', peggio per lui o per lei.
      Naturalmente, tenemmo quella multa e la usammo nei successivi incontri con gli amici per far loro lo scherzo vero e proprio, mettendola di volta in volta sul parabrezza delle loro auto.

      Una sera io e alcuni miei amici ci trovammo a Torino a passeggiare nelle vie del centro dopo essere stati al cinema.
      Molte vie del centro storico subalpino sono strette ed hanno marciapiedi di lastre di pietra anch'essi stretti, lungo i quali passano a malapena due persone affiancate.
      A un certo punto mi venne voglia di scoreggiare. La nostra compagnia si era un po' sgranata. Grazia e Chiara erano venti metri davanti a me, Uccio e Maury venti metri dietro. Mi venne l'idea geniale: scoreggiare rombando davanti a Uccio ed a Maury.
      Iniziai a rallentare lentamente, calcolando mentalmente l'attimo in cui tirare la verza (o la pereta, come direbbero a Napoli) a un metro da loro.
      Ma Uccio, non so come, intuì che stavo escogitando qualcosa e all'ultimo momento lasciò passare un ragazzo che stava camminando dietro di loro.
      E io, non accorgendomi del cambiamento di bersaglio, gli scoreggiai in faccia. Proprio mentre si stava accendendo una sigaretta.
      Il poveretto rimase di stucco, poi proseguì senza emettere parola alcuna, mentre Uccio e Maury si stavano già sbellicando dalle risate.
      Una leggenda metropolitana sostenne in seguito che io col mio potente getto d'aria avevo spento l'accendino al malcapitato passante.

lunedì 3 aprile 2017

Vacanze universitarie

      Ieri sera ho guardato un'altra volta il mediometraggio "La boulangere de Monceau" ("La fornaia di Monceau" ) di Eric Rohmer.
      Vista l'ambientazione del film (il primo di Rohmer che guardai, nell'ormai lontano 1985), mi sono tornati in mente i due anni nei quali, potendo studiare a tempo pieno all'Università, ho goduto del clima rilassante delle vacanze estive, ad esami sostenuti. Dopo, avendo iniziato a lavorare e continuando a studiare studiando nel tempo libero, le vacanze estive divennero, oltre che più brevi, anche molto meno distensive.
      Diciamo che fino al 2005 ho fatto un lavoro che detestavo e le ferie diventavano un'occasione di rivincita, col logico risultato di avere su di esse delle aspettative "risarcitorie" che non si realizzavano mai. A cui si aggiungeva il fatto che, dopo qualche giorno, la mia mente iniziava a guastarmi le vacanze facendomi pensato allo sgradito giorno del rientro al lavoro.
      Nei due anni del mio cursus studiorum universitario a tempo pieno, invece, ad esami finiti il relax era totale: smettevo temporaneamente un'attività che amavo, non a caso negli ultimi giorni di luglio, quelli che precedevano la vacanza annuale a Villa Minozzo, tornavo alla sede della Facoltà di Lettere, a respirare l'aria della Cultura anche solo passeggiando nel corridoio ormai vuoto dell'Istituto di Storia (quello che allora chiamavo "il mio ambiente naturale"), e a fare il giro delle librerie dei dintorni; e, quanto alla ripresa degli studi a settembre, essa non era da me vissuta come la fine di un periodo di libertà provvisoria (come invece mi accadde dopo alla Findatasystem) ma come il ritorno ai miei amati studi, che affrontavo con passione ed entusiasmo.
      Ecco, una sensazione di relax e di benessere come quella di quelle due vacanze universitarie da studente a tempo pieno non l'ho più provata.