Negli
anni in cui frequentavo le Medie Superiori, i diplomati erano per fortuna già
abbastanza numerosi e il fregiarsi del titolo di studio conferito dal diploma
non era più frequente, anzi, notando qualche isolato vanaglorioso che si faceva
mettere sulla targhetta del citofono un "rag." o un "geom."
prima del cognome, già all'epoca mi veniva da commentare: "Che
pirla!".
Il
diploma che conseguii io, poi, aveva un titolo talmente chilometrico
("Perito Aziendale e Corrispondente in Lingue Estere") che, anche se
avessi voluto fregiarmene, sarebbe stata una mission impossible presentarmi
sbandierandolo o scriverlo su una targhetta o su dei biglietti da visita.
Lunghezza per lunghezza, era, ed è, molto meglio declamare i titoli dei film di
Lina Wertmueller: se non altro, si fa la figura di dotti cinefili.
Ho
invece ceduto, sia pure per un brevissimo tempo, alla vanità di sbandierare il
"dott." in seguito al conseguimento della laurea in Lettere Moderne.
Avevo però la parziale giustificazione di essermi sudato, e meritato, quella
laurea, presa da lavoratore studente e quindi dopo avervi dedicato per anni
ogni ora libera, sere, sabati, domeniche, festività e ferie comprese.
Smaltito
quel periodo di narcisismo intellettuale, non ho più fatto grande attenzione al
mio titolo di "dott.".
Dopo
circa un anno dall'esame di laurea, mentre una sera uscivo dal lavoro incontrai
una signora che lavorava in un'azienda che divideva i locali con quella alle
cui dipendenze mi trovavo io e la sentii dire: "Buona sera, dottore".
Mi
voltai per vedere chi aveva salutato e, solo allora, constatando che alle mie
spalle non c'era nessuno, afferrai che aveva salutato me. Non avevo più
prestato attenzione al fatto che anch'io ero laureato e quindi potevo fregiarmi
del titolo di dottore.
Risposi al saluto della signora e uscii
dal luogo di lavoro rallegrandomi perché ormai mi ero lasciato alle spalle la
vanagloria di tenere al mio titolo di studio.
Adesso,
dopo l'introduzione delle lauree brevi, legalmente potrei fregiarmi del titolo
di dottore magistrale ("dott. mag."), che spetta anche a chi ha
conseguito le vecchie, tradizionali lauree quadriennali. Ma troverei la cosa
ridicola.
Fatto
sta che, ogni tanto, mi vedo costretto a ritirare fuori il "dott."
(senza "mag.", però). Accade quando mi imbatto in qualcuno che mi
tratta come una merda, come un essere a lui inferiore, e allora il mio titolo
lo tirò fuori. Se poi il tipo è particolarmente stronzo, gli sbandiero sul naso
la mia votazione di laurea di 110 e lode. E se è un autentico figlio di
puttana, gli calo sul muso il mio quoziente d'intelligenza, che dovrebbe (il
condizionale è d'obbligo, perché i test non sempre sono attendibili) essere
superiore a 150, con tanto di stoccata finale: "Non so se Lei può dire
altrettanto a proposito del Suo".
In
fondo, sono argomentazioni dialettiche molto più eleganti del rivolgere al
pallone gonfiato l'esortazione di Jacopo Belbo ne Il pendolo di Foucault: "Ma gavte la nata!", ossia di
levarsi il tappo che, infisso nello sfintere, impedisce all'aria di cui è pieno
di uscire con un sibilo acuto.
Accade
raramente, sia ben chiaro. Ed esibisco i miei titoli solo agli stronzi. Mai che
lo faccia con chi negli studi abbia conseguito risultati minori rispetto ai
miei. Non è mai bello vantarsi con chi in una qualunque attività non ha
conseguito i tuoi stessi risultati: non è bello umiliare le persone per far
sfoggio di meschina vanagloria.
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