Lenta è scesa la sera su uno dei miei già
tanti giorni. Come sabbia che scorre dall'imbuto del tempo, ha coperto un altro
tratto del mio futuro, che ora appartiene al mantello dei giorni passati
che mi trascino dietro, forse con un po' più di fatica ma certo
con equilibrio maggiore.
Intorno a me continuano dolorosi declini,
piccoli sassolini che scivolano lungo la scarpata dell'irrefrenabile,
dell'inevitabile.
Che senso ha spargere lacrime asciutte
quando prima o poi esse dovranno, umide, cadere dai miei occhi lungo gote dal
dolore scolpite?
Che senso aveva gioire, godere del
settimo giorno, quando è per me uguale agli altri sei, quando è un giorno
qualunque, in cui lottare contro i fantasmi dell'avvenire, contro i fantasmi
del distacco, contro i fantasmi della solitudine?
È
calata la notte e i suoni che nella mia anima porta si assemblano sul muto
spartito d'una triste serenata, in cui non c'è speranza per l'ampio aprirsi
d'una baia di gioia ma solo la mite preghiera al futuro affinché rallenti,
rallenti al massimo, la discesa verso la foce del pianto.
Serenata per un giorno qualunque, perché
esso si moltiplichi in un reiterato domani, in tanti altri giorni qualunque.