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lunedì 11 agosto 2025

Sogni di Kurosawa


Prologo.

      Due ore passate di domenica mattina guardando un film in cassetta non sono ore perse se si ha la fortuna di assaporare otto piccoli capolavori della Settima Arte.

      Dialoghi stringati, dallo stile essenziale, per non naufragare nella vana oratoria.

      Fotografia dai colori studiati, splendidi e armoniosi, e musiche raffinate, scelte per completare i racconti del grande regista, comunicano all’anima ciò che le parole non riescono a dire appieno.

      Grazie ad Akira questa non è stata una giornata sprecata. Grazie ad Akira ho un altro comodo bagaglio di sensazioni da portarmi dietro lungo il cammino del tempo: qualcosa che rimane, qualcosa che non mi peserà sulle spalle ma che mi darà forza per andare avanti, qualcosa che non scomparirà in mezzo all’oceano delle banalità effimere di cui i media ci circondano.

 

I.

Sole attraverso la pioggia.

      Bambino come nuovo Ulisse, tentato dall’andare a vedere le volpi, desiderio proibito che si trova oltre le Colonne d’Ercole del limite della foresta.

      Forza della buona educazione: la mamma che spinge il bambino ad andare a chiedere perdono alle volpi; invece di proteggerlo, gli chiude in faccia le porte della casa. Non è cattiveria, è amore: da grande non dovrà sottrarsi alle conseguenze delle sue azioni; è giusto che impari già adesso a rispondere di ciò che fa.

 

II.

Il pescheto.

      La dolce bellezza del rosa, la fresca bellezza del colore dei fiori di pesco.

      Le figure umane armoniosamente si muovono in una coreografia che evoca il muoversi al vento dei rami fioriti delle piante di pesco.

      Le piante riconoscono nel bambino l’eccezione, l’unico che ha pianto per il loro abbattimento; solo a lui è dato di vederle nella loro forma d’origine.

 

III.

La tormenta.

      Quando la neve si dirada, i colori riprendono forma, la vita riprende i colori e torna a respirare libera.

      Quando la vista torna libera, ci si accorge che l’obiettivo, creduto perduto per sempre, si trova invece a pochi passi di distanza, a portata di mano.

      Un dubbio si fa avanti: è il ritorno a casa oppure è il Campo-Base Definitivo?

      E la donna che premurosa ti scaldava nella bufera era la Fata della Vita venuta a proteggerti oppure era la Signora della Via Senza Ritorno?

      Ma alla fine ci si scuote dal torpore, ci si alza, ci si scrolla di dosso la neve, ci si incammina verso la meta prefissata: metafora sublime della Vita che vince la Morte.

 

IV.

Il tunnel.

      Un cane esce dalla galleria: è il fantasma dei bellici orrori o il messaggero d’un cupo futuro?

      L’ufficiale stremato lo ignora, entra nel buco orizzontale, ne esce uguale a prima.

      Un soldato pallido lo raggiunge, pallido del pallore di chi ha già conosciuto la morte. L’intera compagnia lo segue: è una centuria di trapassati, come la loro avanguardia.

      L’ufficiale prende coscienza degli orrori e dell’assurdità della guerra ma è troppo tardi: i soldati morti ritornano indietro ma il cane fantasma continuerà a seguirlo, continuerà a rimanere presente nella memoria col suo bagaglio di eccidi e di odio.

 

V.

Corvi.

      Osservare attenti le opere di Van Gogh, accingersi a lasciare la sala dei dipinti, mettersi il cappello in segno di commiato e ritrovarsi di colpo in un altro luogo, in un altro tempo, come se si fosse saltati dentro l’ultimo quadro.

      Camminare nei paesaggi visti dal maestro pittore, parlare con persone conosciute dal maestro pittore, incontrarlo, parlare con lui; e poi rimpicciolirsi e navigare nei suoi quadri, navigare nei suoi colori.

      Ritornare infine alla realtà, nel museo, davanti ai quadri, e togliersi il cappello in segno di rispetto per quanto Van Gogh ci ha lasciato.

 

VI.

Fujiama in rosso.

      Follia degli uomini, ennesima, tragica follia, quella di dominare la Natura andando contro il suo essere.

      I colori radioattivi, i colori della morte si avvicinano ai sopravvissuti, ai quali rimane una sola scelta: buttarsi a mare e annegare o restare contaminati senza speranza.

      La fine verrà comunque per tutti, adulti o bambini, colpevoli o innocenti.

 

VII.

Il demone che piange.

      Terra bruciata, cenere dappertutto: a questo ci condurrà la follia tecnologica scatenata dall’avidità umana.

      Demoni un tempo uomini piangono la loro sofferenza, i mali da essi commessi nel loro passato.

      Forse qualche umano è ancora in tempo, forse può evitare di trasformarsi in demone, di condannarsi a piangere il suo rifiuto alla vita, all’amore, all’altruismo.

 

VIII.

Villaggio dei mulini.

      Ruotano lente le pale dei mulini, come lenta dovrebbe ruotare l’esistenza degli uomini.

      Isola felice, il villaggio dove non solo i mulini ma anche gli abitanti ruotano calmi, secondo natura, senza l’ausilio e la frenesia dei mezzi tecnologici.

      Alla morte di ognuno, trovare in se stessi la serenità e la forza per congratularsi col trapassato per la sua esistenza spesa nel rispetto della vita.

      Deporre un fiore sopra una pietra, nel ricordo di chi non c’è più, senza aver bisogno di un volto o di una conoscenza per rendergli omaggio: atto puro d’amore e di rispetto, quello che si rende agli anonimi, ringraziandoli per il solo fatto di essere passati sulla Terra.


domenica 29 giugno 2025

È notte / 1


È notte: dormono i fiori, dormono gli alberi, dormono i gatti randagi respinti dal mondo; il sonno non viene a placare benigno la mia solitudine.

È notte: contemplo con gli occhi appannati da lacrime trattenute i vuoti che lo scorrer del tempo mi ha regalato, il dolore per pratiche d'affetto che si riapriranno, l'amarezza per occasioni di futuro che nel silenzio sono svanite.

È notte: mi domando a che serve aspettare una nuova alba se la mia vita è ormai diretta verso un tramonto che ancora non vedo, se mi trovo di nuovo costretto a far abortire, a castrare i miei sogni e le mie speranze perché sempre mi recano l'amarezza di porte sbattute in faccia o nemmeno aperte.

È notte: tristezza non provo ma non so se sia per raggiunta saggezza o per un nuovo strato di ghiaccio che di nuovo avvolge il mio cuore stanco di troppe ferite riportate sui campi di battaglia della vita.

È notte: nessuno mi vede, nessuno mi sente, nessuno mi legge; potrei lasciarmi andare ad un lenitivo pianto liberatore, che però non viene; forse non desidero più soffrire, forse l'ultima speme s'è dissolta ripulendomi il cuore e l'anima dalle radici della pianta che fa guardare al domani con gioia ed entusiasmo.

È notte: non amo, non odio, non tremo per la paura di perdere chi m'ha voltato le spalle, non fremo più per un pensiero di dolcezza e d'amore.

È notte: in me vive soltanto la consapevolezza di non saper dove andare nei giorni che m'aspettano ancora, di dover trascinare i miei passi senza una meta precisa, cercata, voluta, sperata; sono una nave con le vele non più spiegate e al mare m'affido indifferente, senza più provare differenze tra vento e bonaccia.

È notte: non è il silenzio di queste ore all'assopimento deputate ad avermi fatto distogliere lo sguardo verso l'avvenire ma un altro silenzio, che continua a farmi male nonostante io abbia chiuso le finestre per non cercare più echi che non verranno.

È notte: ore 1.31, smetto di scrivere, come ho già smesso di sperare nelle aurore di giorni felici.


13 febbraio 2019.