lunedì 29 febbraio 2016
Il Salone del Libro del '93
venerdì 26 febbraio 2016
Pape satàn aleppe
martedì 23 febbraio 2016
Ultimo saluto a Umberto Eco in chiave gucciniana
sabato 20 febbraio 2016
Quel che mi ha insegnato Umberto Eco
Il mio primo incontro con Eco lo ebbi negli ultimi anni delle Medie Superiori, quando iniziai ad acquistare L'Espresso e a leggere la sua rubrica settimanale, non priva di spunti ironici.
L'Eco romanziere lo scoprii, come molti, al suo esordio con Il nome della rosa. Era la fine di luglio del 1981, avevo da pochi giorni dato l'ultimo esame della sessione estiva alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino, il mio secondo esame di Storia del Risorgimento, e una mattina mi ero recato a Palazzo Nuovo, la sede delle Facoltà umanistiche, per godermi l'ambiente accademico in totale rilassatezza e fare un giro delle librerie dei dintorni. E fu in una di queste che acquistai Il nome della rosa, che mi tenne compagnia durante le vacanze agostane.
Inizialmente ne apprezzai soprattutto la trama da giallo (ma forse sarebbe più corretto definirla da noir) e l'ambientazione nel Medioevo.
Essendo in contatto epistolare col mio ex insegnante di Storia e Geografia alle Medie Inferiori, il prof. Sante Demicheli, in una delle sue lettere mi spiegò che, rileggendolo, ne avrei colto tanti altri aspetti. Cosa che accadde qualche anno dopo, allorché, ripresolo in mano, ne afferrai il messaggio di rivendicazione della libertà della Cultura contro qualsiasi oscurantismo e la passione per il Sapere e per i libri in particolare.
Il secondo libro di Eco che acquistai e, naturalmente, lessi fu Come si fa una tesi di laurea. La motivazione, estremamente profana, fu che mi accingevo a chiedere il titolo della mia tesi di laurea e volevo capire bene come andava scritta. Mi fu di grande utilità, nel senso che, quando iniziai a portare al prof. Giuseppe Ricuperati i primi paragrafi della mia tesi su Walter Maturi, la precedente lettura di quel libretto evitò a me di fare gli errori che di solito fa chi è ignaro del modo in cui si scrive una tesi, e al mio Maestro evitò l'incomodo di correggerli. Quel libro di Eco non fu solo utile ma anche di godibile lettura; ebbi modo di parlarne col prof. Massimo Firpo ed egli mi confermò che era un'opera scritta molto bene.
Alla fine degli anni '80 del XX secolo, Il pendolo di Foucault rappresentò per me l'incontro echiano più importante. Come accade a volte nelle piccole e personali avventure intellettuali, la lettura del secondo romanzo di Eco fu per me un assorbire semi che avrebbero fruttificato in seguito. Nell'immediato, apprezzai sia la trama thriller, sia la polemica contro l'irrazionalismo, sia i molti passi di ironia allo stato puro: le pagine sugli APS (gli autori cioè che per correre dietro alle loro vanità editoriali fanno pubblicare i loro libri a proprie spese, rimanendo spennati come polli da editori senza scrupoli) furono, e sono, decisamente esilaranti.
Perché quella lettura mi "impollinò" letterariamente? Perché a poco a poco ho sviluppato un mio stile letterario nello scrivere romanzi, basato su un mix fra trama da giallo, ambientazione culturale e ironia: il mix che è alla base de Il pendolo di Foucault.
Certo, ho iniziato a scrivere romanzi solo una ventina d'anni dopo l'uscita de Il pendolo di Foucault ma è stato questo romanzo a indicarmi quello che ho trovato essere il genere letterario che più mi si confà, non solo per i romanzi ma gli altri miei scritti umoristici, in cui coniugo Cultura ed Ironia.
L'imprinting di tanti miei libri nel cassetto risale proprio a questo secondo romanzo di Umberto Eco.
Successivamente lessi tutte le altre opere di narrativa di Eco e molte Bustine di Minerva, traendone sempre piacere e nuove conoscenze.
Come lettore e, con tutta l'umiltà del caso, come scrittore voglio dargli l'ultimo saluto con un semplice: "Grazie, professor Eco. Lei mi ha reso migliore di quanto sarei stato se non L'avessi incontrata attraverso i Suoi libri".
sabato 13 febbraio 2016
Festa di Carnevale del 1979
Piccolo dubbio esistenziale, su cui ancora oggi qualche volta arrovello goliardicamente le mie riflessioni metafisiche: essendo l'anno prima stato girato il film Animal House e ed essendo verosimilmente quel film arrivato nelle sale italiane nella stagione 1978-79, fu mica il John Belushi del toga party a suggerire a Nick quella tenuta?
Di certo, arrivare a scoprire questa piccola verità non migliorerà il mondo ma altrettanto sicuramente non farà danni, come invece hanno fatto e, temo, continueranno a fare, quei filosofi e quei teologi che, presupponendo di essere arrivati a un'idea assoluta, forniscono agli uomini il pretesto per scannarsi a vicenda in nome di quell'idea assoluta, sia essa religiosa o politica. Ma torniamo alla nostra festa di Carnevale del 1979.
Durante quella nostra mosaica traversata a piedi di Grugliasco, ad Alice venne imposto di non fare casino solo in un punto, quando cioè passammo davanti ad una fabbrica occupata da operai che rischiavano il posto di lavoro: un saluto più allegro del dovuto o una strombettata con tanto di lingua di Menelicche distesa, quantunque rivolte senza alcuna malizia e solo per giovanile spensieratezza, avrebbe potuto essere interpretata come una provocazione, con tutte le possibili conseguenze del caso.
Alla fine si giunse alla tavernetta di Franca.
L'unico a trovarsi un po' in difficoltà fu Nick: la tavernetta non aveva riscaldamento, in febbraio faceva freddino anche là dentro e lui, travestito da antico Romano, era di fatto seminudo.
Il second round della festa si svolse secondo copione: balli da discoteca, con tanto di luci psichedeliche in funzione e con Nick che si esibiva nelle mosse del John Travolta de La febbre del sabato sera, mangiate e bevute. E anche gli immancabili giochi di società.
Fra cui quello che prevede di far mimare a qualcuno il titolo di un film, mentre gli altri devono indovinarlo.
Quella volta il gioco ebbe due momenti topici.
Il primo fu quando qualcuno, credo fosse Nick, per dare un po' di pepe alla cosa, suggerì ai mimi di turno (avevamo deciso di giocare a coppie) il titolo di un film che non era mai stato girato, e pure decisamente lungo: L'arte ideale di un umanoide. Ovviamente, nessuno indovinò.
Il secondo e, modestia a parte, più divertente momento clou fu quando a fare il mimo venni chiamato io, che comunque in precedenza avevo indovinato il titolo del film Un taxi color malva.
Mia partner di mimica era Luciana, la nostra compagna di classe più timida e pudica (nel senso buono e rispettoso del termine, s'intende).
Ne sono ultrasicuro: non fu per mettere in crisi me (del resto, sapevano benissimo che tipaccio disinibito e sfrontato ero già allora) ma Luciana che ci suggerirono di mimare il titolo di Spermula.
Dicono che il tempo di reazione dei centometristi al colpo di pistola dello starter sia di 23 centesimi di secondo. Quello di reazione di Luciana all'erotico titolo fu molto più veloce, forse andava misurato in nanosecondi. Fatto sta che passò un'infinitesimale frazione di tempo dal momento in cui ci venne etto sottovoce il titolo del film a quello in cui il colorito del suo volto passò dal bianco latte al rosso porpora cardinalizio.
Non solo ma, subito dopo, si coprì il viso con le mani, indietreggiò di due passi e si rifiutò di accennare il benché minimo cenno di mimica.
E così rimasi solo sulla scena, mentre i suggeritori erano già piegati in due dal ridere e gli altri si stavano chiedendo sbigottiti quale titolo potesse mai scatenare una simile "ritrosica" reazione da parte di Luciana.
Per la verità, io non provai alcun imbarazzo, sia perché stavo ridendo pure io per la subitanea vampata di rossore di Luciana, sia perché a me il titolo di quel film non scandalizzava per niente.
Come mi era già accaduto e per fortuna mi sarebbe accaduto parecchie altre volta anche in seguito, un mio lato caratteriale (o un qualche cromosoma del mio DNA, se vogliamo usare un linguaggio scientifico) si manifestò in fretta: la mia capacità di intuizione, che mi consente di trovare soluzioni, appigli, vie d'uscita anche quando, volgarmente discorrendo, sono nella cacca fino al collo. Per meglio dire, la mia è capacità di intuizione e improvvisazione: il cocktail della creatività.
L'intuizione quella volta mi venne quando, gettando lo sguardo intorno, vidi un oggetto che la fece scattare: una delle tante bottiglie di spumante già scolate del tutto.
Agii all'istante. Presi la bottiglia a me la misi nella zona inguinale, a mo' di prolungamento del mio pisello o di metafora del mio pisello in assetto da combattimento (esagerato!). Boato di risate della compagnia.
Poi, con la mano libera, indicai la bottiglia e feci segno di no, per dire che non aveva nulla a che fare col titolo del film.
Infine, sempre con la mano libera, mimai lo scorrere dello spumante dalla bottiglia e feci cenno di sì.
Al che una nostra compagna di classe, associando lo scorrere del liquido alla, ehm, posizione fallica della bottiglia, disse: "Spermula".
Mike Bongiorno avrebbe detto: "Risposta esatta!".
Probabilmente, in caso di errore, avrebbe invece detto: "Ahi! Ahi! Ahi! Lei mi va a cadere proprio sull'uccello!".
Intuizione e improvvisazioni vincenti, dunque. Certo però che, se invece che fra amici e fra quattro mura amiche, mi fossi esibito (è proprio il caso di usare questo verbo) in pubblico, mi sarei beccato una denuncia per atti osceni e oltraggio al comune senso del pudore.
A festa terminata, uscimmo in strada e ci dividemmo in gruppi, a seconda delle zone dove abitavamo, per prendere i vari mezzi pubblici che ci avrebbero riportato alle rispettive case.
Dopo un po' di camminata, io e alcune mie compagne di classe ci stavamo avvicinando alla fermata del nostro autobus quando lo vedemmo giungere in lontananza.
Accelerammo il passo ma, accorgendosi che stavo rimanendo indietro, Alice mi prese per mano e mi trascinò in una corsa che nemmeno Mennea. Attraversammo volando un semaforo, che in quel momento per nostra fortuna era verde, a raggiungemmo la fermata appena in tempo per prendere l'autobus, che nel frattempo si era arrestato e stava per ripartire. Salito a bordo, potei rifiatare.
Ancora oggi mi domando come feci a non cadere durante quella folle corsa, io che sono solito ruzzolare per molto meno.
lunedì 8 febbraio 2016
Scazzottate sui banchi di scuola
sabato 6 febbraio 2016
L'investigatore privato
Chi
l’ha detto che uno deve avere il presentimento che sta per succedergli qualcosa
che gli sconvolgerà la vita?
Quella mattina le sue sensazioni erano state assolutamente normali, le stesse di tanti altri giorni: nessun presagio di una terribile mazzata del destino era spuntato nel candido e confortante manto di serenità che ricopriva la sua anima.
Paparazzo, fotografo, investigatore privato: quante definizioni per il mestiere di chi è pagato per scoprire gli altarini, per mettere di fronte a un cliente dubbioso la sua dolorosa realtà adulterina!
Non aveva mai avuto rimorsi per il suo lavoro; mai si era sentito immerso nell’opprimente sensazione di fare qualcosa di sbagliato, di scorretto. In fondo, si era sempre detto, regalo delle verità ai miei clienti: verità scomode, atroci, ma che prima emergono dall’ombra dell’inganno e della menzogna e meglio è per l’interessato o, come gli accadde più spesso, per l’interessata. Il mio è un lavoro dignitoso e nobile, aveva sempre concluso, basato sull’accertamento della verità dei fatti e non sull’inganno.
Seguendo questa filosofia, si era sempre premurato di fornire ai clienti prove al di là di ogni ragionevole dubbio, cestinando tutti quegli sguardi, quei gesti, quegli atteggiamenti che, guardando le foto con un certo pregiudizio della mente, potevano anche sembrare prove di un tradimento ma che egli non aveva la certezza che lo fossero.
A questa norma morale non aveva mai derogato. Ora, poi, con tutte le diavolerie tecnologiche che il mercato metteva a disposizione degli investigatori privati, consentendo loro non solo di filmare o di fotografare ma anche di ascoltare e registrare a distanza, aveva ancora meno possibilità di sbagliare, di scambiare un cordiale rapporto d’affari o una fraterna amicizia per una relazione extraconiugale.
Mai lo aveva sfiorato il sospetto che, forse, in un certo numero di casi un adulterio non smascherato avrebbe potuto sgonfiarsi da sé, rimanere confinato nel silenzio della (cattiva) coscienza di un marito o di una moglie, di un compagno o di una compagna, restare un piccolo intermezzo senza alcuna importanza affettiva, un momento di debolezza: la temporanea interruzione di un’unione che, senza l’emergere della scappatella, avrebbe potuto riprendere solida come prima, forse addirittura più solida di prima.
Mai lo aveva interessato sapere quante tragedie, quante esplosioni di dolore e di risentimenti avevano scatenato i suoi rapporti circostanziati con cui informava i suoi clienti di un tradimento fino a quel momento soltanto sospettato.
Quella mattina era uscito di casa presto per seguire un caso come tanti: la solita moglie fra i 40 e i 50 anni d’età che, con un misto di imbarazzo e di apprensione nella voce, gli aveva detto che sospettava il tradimento del marito e lo aveva incaricato di trovare le prove dell’adulterio.
Appostarsi nei pressi dell’abitazione dei due senza dare nell’occhio era per lui pura routine: anni di professione lo avevano ormai abituato ad aspettare senza ansia e senza alcuna tensione, con la macchina fotografica e il microfono direzionale a portata di mano.
Verso le 8 vide il marito della sua cliente uscire di casa. Dopo qualche scatto fotografico, avviò il motore della sua auto e seguì quella dell’uomo.
La strada che stava percorrendo alle sue calcagna gli fece intuire di essere sulla pista giusta: non era il tragitto da seguire per raggiungere lo studio di affermato professionista del marito della cliente, il cui indirizzo gli era stato rivelato da lei quando le aveva chiesto quel minimo indispensabile di informazioni per iniziare il suo lavoro.
Dopo tre quarti d’ora di traffico cittadino, l’auto dell’uomo si fermò nei pressi di un elegante bar del centro storico. Il pedinato entrò nel bar, un locale dalle ampie vetrine che consentiva ai passanti di scorgere nitidamente gli avventori seduti ai tavolini: una fortuna per il nostro investigatore che, dopo aver parcheggiato a pochi metri dal bar, poteva osservare il suo obiettivo standosene comodamente seduto in macchina.
Il pedinato prese dal bancone uno dei giornali messi a disposizione dei clienti del bar, si sedette a un tavolino, ordinò qualcosa a uno dei camerieri e si mise a leggere il quotidiano in attesa dell’arrivo della consumazione.
Passò circa un’ora. Il nostro investigatore aveva sconfitto quella sensazione di annoiata irrequietezza che lo attanagliava durante i primi anni del suo mestiere quando si trovava a fare i conti con l’esasperante scorrere del tempo, in attesa che succedesse qualcosa che non voleva proprio accadere. Ora, sulla soglia della quarantina, era diventato impermeabile alle lunghe, interminabili attese.
A un certo punto, nel bar entrò una giovane donna, sui trent’anni d’età. Concentrato com’era sul pedinato, aveva appena intravisto il suo ingresso. Quando però lei si avvicinò al tavolo del marito della sua cliente, che nel frattempo si era alzato, e baciò appassionatamente quest’ultimo sulla bocca, le cose cambiarono. Eccome se cambiarono!
Infatti si accorse con sgomento che la giovane donna era sua moglie, che egli credeva si fosse recata al lavoro come tutti i giorni. Sì, era proprio lei!
L’abitudine all’attività investigativa, che faceva sì che egli compisse meccanicamente gesti come azionare il microfono direzionale con registratore incorporato o fotografare a raffica col dito premuto sul pulsante dello scatto, fece sì che la sconcertante verità di sapersi tradito non gli impedisse di raccogliere le prove di un adulterio di cui anch’egli era vittima.
Scattò foto e ascoltò la conversazione dei due amanti come se fosse in trance ma senza perdere la lucidità di rendersi conto, dagli sguardi e dai gesti dei due e dall’ascolto delle frasi che sua moglie scambiava con l’affermato professionista, di avere davvero le corna.
Dopo qualche minuto i due si alzarono. Il marito della sua cliente pagò le consumazioni al bar, dopo di che la sua amante lo prese sotto il braccio e uscirono in strada. Prima di incamminarsi, si scambiarono un nuovo, lungo e sensuale bacio che, come si dice in questi casi, non lasciava spazio all’immaginazione.
Si stavano dirigendo verso la loro alcova? Seguirli sarebbe stato troppo per il nostro investigatore.
Mogio mogio, con le orecchie abbassate, li guardò allontanarsi; poi avviò il motore della sua auto per avviarsi verso il suo ufficio.
Ormai aveva abbastanza prove per dimostrare la verità di un tradimento che, questa volta, avrebbe cambiato anche la sua vita.